La città d’inverno rassegna cinematografica 06 – 07 L’aria salata di Alessandro Angelini

A chi chiedo perdono io? dice quasi urlando Sparti nella bellissima sequenza che chiude L’aria salata. Nelle sue parole c’è la domanda che troppo a lungo ha evitato di porsi. Prima ha ucciso, e poi ha abbandonato i suoi. Ancora peggio: s’è convinto a farli responsabili della sua stessa decisione di abbandonarli. Sapevate dove stavo: questo ha rimproverato al figlio Fabio qualche giorno prima. Ed è stato come se d’un tratto in lui riemergesse l’astio cupo, il risentimento covato per vent’anni. Non c’è simpatia nell’assassino raccontato dall’esordiente Alessandro Angelini. Il film tiene ben distante ogni sentimentalismo furbesco. La storia è spigolosa, crudele, e la sua durezza si specchia in una regia che si mantiene anch’essa spigolosa e crudele. E tuttavia è densa d’una commozione tenuta nascosta fra le immagini, difesa dal pudore che guida le parole e i comportamenti dei protagonisti. Per il suo esordio, Angelini ha scelto di declinare il complesso tema generazionale dei rapporti tra padri e figli in una chiave per niente prevedibile e conciliatoria. L’incontro/scontro tra l’educatore Fabio e il detenuto Sparti (gran prova di Giorgio Colangeli, maturo attore con un passato molto più teatrale che cinematografico) è quello tra due idee della vita che rivendicano la loro inconciliabilità. Da una parte il volontarismo positivo del giovane che ha costruito la propria esistenza sulla fiducia che il reale possa essere guidato e modificato, dall’altra la cocciuta rassegnazione di chi pensa che gli errori commessi pesino come macigni e pensa di doverne pagare le conseguenze per tutta la vita. Tra i due, c’è il peso della realtà – naturalmente molto più complessa di quel che appare – che uno vorrebbe cancellare e che l’altro forse ingigantisce troppo. Fabio è due volte solo. La sua prima solitudine è quella d’un figlio cresciuto nel vuoto lasciato dal padre. Da questa solitudine si affranca solo nella vicinanza tenera con la sorella. E poi ce n’è un’altra, più sullo sfondo. È suggerita dal rapporto tra lui ed Emma. Lei ne soffre la spigolosità, il rifiuto d’accettare quello che le sembra solo la normalità della vita quotidiana. In particolare, soffre il giudizio che Fabio dà di suo padre e dell’origine oscura dei suoi soldi. Lo rimprovera di essere moralista, Emma, ma sembra che sia solo attento alla moralità, senza concedere e senza concedersi sconti. Fabio lo è sempre, morale, nel suo mestiere come nelle sue scelte di vita. Sta duro nella propria coerenza, e mai accetta di ingannare se stesso. Infatti, quando il padre di Emma gli offre una nuova auto e un nuovo lavoro – e dunque una nuova vita, più comoda – lui sa riconoscere nel suo comportamento un tentativo di corruzione morale e rifiuta. Insomma, questa sua seconda solitudine misura la distanza che lo separa da un mondo che la sceneggiatura solo accenna, ma che lascia ben percepire. Da questo mondo Fabio s’è scisso, quasi rifugiandosi nella durezza del carcere e nell’immoralità esplicita dei detenuti. Ed è lì, nel carcere, che la sua spigolosità s’incontra con quella del padre. Il regista è attento a non banalizzarlo, questo incontro improvviso. Non ci sono urla né lacrime, quando Fabio la sua scoperta. E non c’è nemmeno falsa compassione. C’è invece rabbia, desiderio di restituire almeno un po’ il male ricevuto. E c’è la speranza di capire, di vedere nella mente del padre. Infatti, per un po’ non gli si rivela, ma solo lo interroga, lo incalza, lo tormenta. In Sparti c’è molto della coerenza dura del figlio. Come Fabio, anche lui non accetta di ingannarsi. Dopo vent’anni di galera, potrebbe scrivere al figlio della sua vittima, potrebbe chiedergli perdono. In prospettiva, ne otterrebbe un vantaggio concreto: la fine anticipata della pena. E ne otterrebbe anche un vantaggio meno materiale, ma immediato. Darebbe un senso a quei vent’anni, glielo darebbe anche se, dentro di sé, conoscesse la falsità, l’opportunismo della sua richiesta di perdono. Ma Sparti è sincero, e a suo modo morale. Lo è con tutta la rabbia accumulata negli anni, e nella lucidità con cui accetta il carcere e le sue leggi non scritte. Un po’ alla volta, i due tornano a incontrarsi, con le loro durezze e le loro coerenze. Fabio vince la sua rabbia, e lo fa senza perdonare, o almeno senza arrivare al padre attraverso il perdono. In lui accade il contrario: sente, vede il padre e in questo suo vedere e sentire sta, implicito e forse neppure consapevole, il perdono. Meglio si farebbe a dire che si congeda dalla sua rabbia antica e che si riconcilia con la sua storia. Quanto a Sparti, anche lui arriva a vedere e sentire il figlio. Anche lui si congeda dalla sua rabbia. Ma non si riconcilia con se stesso. Non lo può fare perché, alla fine, scopre la sua responsabilità. Di fronte alla libertà sconfinata del mare, respirandone l’aria che odora di sale, avverte di nuovo il sapore della vita, della stessa vita che ha tolto a un uomo e che, in altro modo, ha rubato ai figli. Da qui nascono le sue ultime parole, disperate. A chi chiedo perdono io? A chi avrà il diritto di chiederlo? La sua domanda già esclude che ci sia una risposta. Lo esclude perché, come nel figlio, anche in lui c’è una moralità profonda, esigente, che non accetta di ingannarsi.

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