L’autobus, il treno, le valigie, la partenza, i saluti, la lontananza, le domeniche trascorse a studiare, gli esami, le lezioni, le giornate impiegate all’università tra pranzi al volo e studio in biblioteca. Sembra il soggetto della sceneggiatura di un film, invece è la vita di tanti giovani, ragazzi che spesso hanno lasciato la Sicilia per andare a studiare fuori, con la fermezza poi di voler tornare a lavorare nella propria terra. Anni trascorsi con la ferma volontà di, una volta terminati in fretta gli studi senza tanti svaghi e divertimenti dato che studiare fuori è una spesa non indifferente per le famiglie, tornare in Sicilia nel proprio paese, perché in realtà si ama troppo la terra in cui si è cresciuti, per non lasciare la propria famiglia, perché in fondo al cuore si nutre la speranza che ogni posto, anche quello più decentrato, può offrire delle possibilità, basta essere volenterosi e propositivi. Si crede che la laurea rappresenti il traguardo tanto ambito, ma appena si raggiunge la meta tanto agognata capiamo che in realtà siamo solo all’inizio di una lunga e impervia salita! Infatti, per chi ha scelto la professione di insegnante, inizia il calvario dell’abilitazione. Altri due anni di studio, esami che non sono altro che la ri-proposizione di materie già affrontate all’università e poi, il tirocinio nelle scuole. Una volta “abilitati” all’insegnamento, si inizia finalmente a lavorare. Si comincia con le supplenze brevi, poi con gli incarichi annuali. Pur lavorando, sebbene siano stati ultimati gli studi relativi al conseguimento della laurea e dell’abilitazione, comincia l’iter dei corsi on-line, corsi più o meno validi, più o meno costosi che offrono spesso poca preparazione, ma un certo punteggio che serve per scavalcare gli altri. Perché le graduatorie in cui gli insegnanti sono inseriti non istituiscono altro che una competizione tra colleghi, ognuno deve cercare di non farsi superare ma deve cercare di superare l’altro. Quando si insegna e ci si trova davanti agli alunni, si comprende come le aule ovattate delle università sono molto distanti dalla realtà delle scuole. Le lezioni di pedagogia dell’università sono molto disgiunte dalla realtà di disagio che provano gli adolescenti di oggi. Noi docenti, infatti, oltre a spiegare le cause della Seconda guerra mondiale, siamo chiamati ad affrontare con determinazione e coraggio quell’universo variegato di astrusità che attanaglia i giovani di oggi, feriti dentro in modo irreversibile e, in certi casi, talmente confusi e deboli da trovare la pace solo nell’estremo gesto… Tuttavia, è questa la nostra missione: se si diventa per gli alunni un punto di riferimento, una persona aperta e dialogante che non alza il muro dietro l’aura della cultura posseduta, come molti nostri insegnanti invece hanno fatto in precedenza con noi, si può pensare di aiutarli e diventare così quell’appiglio sicuro che purtroppo non riescono a trovare né in famiglia né con gli amici. Ma proprio quando cominci ad amare la professione appena intrapresa, tutto finisce, la scuola viene riformata, viene avviato un piano di “razionalizzazione” e si rimane a casa senza un lavoro, con quella poca esperienza accumulata e tanta voglia di continuare perché si pensa, forse sbagliando, di aver tanto da dare ai ragazzi. L’amarezza si amplifica se ad essere colpiti maggiormente siamo noi, giovani del sud, quel sud da cui spesso i giovani fuggono per andare a trovare lavoro altrove. Ma l’amarezza nasce anche da un’altra considerazione: l’aver lavorato duramente tutta la vita per conseguire una laurea con il massimo dei voti, 4 abilitazioni, 3 Master universitari, patente europea del computer, 2 qualifiche professionali, che conducono alla fine al risultato obsoleto e improprio dell’indennità di disoccupazione e di vacui contratti di disponibilità? Allora l’impegno non paga? Allora bisogna rassegnarsi all’idea che, non il merito, ma solo le scorciatoie facilitano il reperimento di un lavoro? La realtà è che non sappiamo cosa ci riserva il futuro, ancora una volta probabilmente dovremo rinunciare alla strada intrapresa, dovremo chiedere nuovamente aiuto alle nostre famiglie che forse non avranno mai la gioia e il sollievo di vederci finalmente diventare indipendenti e persone appagate. Sicuramente non moriremo di fame, ma moriranno certamente la dignità e la passione per le lettere e lo studio che, come un filo rosso, ha attraversato tutta la nostra vita. Tenendo conto del futuro incerto che si prospetta davanti a noi, siamo costretti a re-inventarci, cosa che alla nostra età appare difficile e ci getta nello sconforto, mentre per chi viene licenziato a 40 o peggio 50 anni è praticamente impossibile, specie in un luogo come la Sicilia dove già le opportunità di lavoro sono pochissime. Vorremo far capire a tutti che la nostra non è solo una battaglia per un semplice posto di lavoro, ma è una battaglia per difendere quel senso di civiltà che si sta disperdendo, perché un Paese che decide di risparmiare sulla formazione e sulla cultura, che mette a rischio la vita di migliaia di alunni, insegnanti e personale Ata, permettendo che si formino classi di 35/38 studenti, che licenzia in massa migliaia di professionisti che per la maggior parte lavorano con passione e vero interesse, non è un paese che possa definirsi civile. Il nostro è un Paese che non investe nel futuro! Alle lezioni di pedagogia e psicologia della Sissis ci hanno detto che una delle qualità che un buon insegnante deve possedere è il senso di responsabilità. Ci chiediamo se chi ci governa ha agito secondo responsabilità? Qualcuno ha pensato che dietro tutti quei numeri ci sono vite di giovani, ora demoralizzati, demotivati e privi di speranza, ma anche tanti genitori che hanno bisogno dello stipendio per sostenere il futuro dei propri figli? “Dite una bella verità con poche parole” ci ricorda il grande Gibran, ma ci chiediamo se a noi precari della scuola, giovani e non, che abbiamo perseguito la nostra verità con forza e coraggio, ci sia stato detto allora che il nostro destino alla fine di tutto sarebbe stato determinato non più dalle nostre capacità, ma dalle norme di una riforma inconsistente che ha deciso il nostro futuro per noi.
Lettera di sfogo di tre docenti precarie. LA LOTTA DEI PRECARI E’ ANCHE UNA LOTTA DI CIVILTA’
- Settembre 17, 2009
- 3:58 pm
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