Chi vuole la morte della provincia di Ragusa? Colosseo e muri a secco(parte 2^)…di Saverio Terranova

Narrano le cronache ecclesiastiche che un papa decise di costruire a Roma una strada perfettamente diritta che collegasse il Vaticano al Laterano. Sennonché sul percorso previsto insisteva un edificio, il Colosseo. Decise di abbatterlo. D’altronde era stato danneggiato da terremoti e ed altri eventi, per cui i grandi massi servivano alla costruzione di nuovi palazzi. Aggiungono le cronache che Dio provvidenzialmente lo chiamò a sé . Anche se molto danno era stato consumato. Ma sostanzialmente il grandioso edificio imperiale era salvo.
Un analogo pericolo denunciano alcuni uomini di cultura, certi funzionari solerti quanto ignari della realtà della provincia, alcuni politici ideologizzati, e molte persone in buona fede, ma disinformate: la provincia di Ragusa corre un grave pericolo. Causa? Le costruzioni di capannoni commerciali e industriali, di strutture per la trasformazione di prodotti agricoli, di villette rurali, e, soprattutto, trivelle per ricerche petrolifere, impianti di eolico e di fotovoltaico turbano lo spettacolo esaltante dei muri a secco che si estendono in tutto il tavolato ragusano e l’altipiano di Modica. Ma Dio, ovviamente non si occupa di muri a secco. Al suo posto, puntuale, arriva un provvedimento; “il piano paesaggistico”, predisposto dalla sovrintendente ai beni culturali, architetto Vera Greco. La provincia, a parte gli interessati e i disinformati, è insorta come un solo uomo, salvo qualche innocente, di quella razza che, purtroppo, esiste in ogni luogo.

Un assessore a ferragosto

Se ne parlava da due anni. La gravità sicuramente è nota ai redattori dello strumento. E, pertanto, si è fatto in modo che l’attenzione dell’opinione pubblica fosse distratta dalla proposta del “Parco degli iblei”, che già danni enormi provocherebbe alla economia della provincia. Mentre si lottava contro il Parco degli iblei avanzava, silenziosa, la ghigliottina del Piano paesaggistico. Solo da qualche mese è trapelata qualche indiscrezione. Di qui la richiesta di saperne di più. Quindi la proposta di discuterne avanzata dagli enti locali, provincia e comuni, legittimi rappresentanti della comunità locale, e successivamente, dopo la resistenza della Sovrintendenza, anche dalle associazioni di categorie interessate, quali artigiani, lavoratori, imprenditori, coltivatori. La cosa più impressionante in questa vicenda, che ha dell’allucinante, non è il fatto che la Sovrintendente abbia proclamato di essere,assieme alla Regione, l’unico titolato a redigere il Piano; sono atti di presunzione a cui certi organismi periferici dello Stato ci hanno abituati. Incredibile é il fatto che, malgrado la richiesta di poterlo discutere in fase di redazione, non solo non è stato possibile per la proterva resistenza della Sovrintendenza ( ha concesso un’ora), ma che, ciò malgrado, esso è stato firmato da un rappresentante della volontà popolare, l’Assessore ai beni culturali. E lo ha fatto alla vigilia di ferragosto, quando l’attenzione della gente è rivolta al giusto periodo di riposo e, sopratutto, la maggior parte della popolazione è fuori sede. Lo ha fatto il 10 agosto, nello stesso momento in cui alla Camera di commercio si celebrava un Convegno provinciale per discutere sul Piano e chiedere una moratoria per proporne la revisione.
Si deve alla solerzia e attenzione dell’assessore provinciale Salvo Mallia se la cosa non è passata sotto silenzio.

Il Piano paesaggistico

Perché è un danno? Anzi, la morte della provincia?
Guardiamo sinteticamente ai vari aspetti di questo piano. Premesso che la Costituzione afferma che “la Repubblica tutela e valorizza il paesaggio culturale” (art .9), la legge principale, il dl. 22 gennaio 2004, n. 42 “Codice dei beni culturali e del paesaggio”, modificato dal dl. 24 marzo 2006, n. 157 e 26 marzo 2008 n. 63, che disciplina la materia all’art. 1, recita: “La tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere la cultura” (art. 1,c. 2). All’art. 2 si afferma: “Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici” c. 1) Il c. 3.
Definisce i beni paesaggistici: “Sono beni paesaggistici gli immobili e le aree…costituenti espressione dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge”.
Dunque il Piano paesaggistico deve tutelare e valorizzare i beni del territorio che abbiano un valore storico, culturale, morfologico ed estetico. Vediamo come li tutela. Come li valorizza ancora non lo sappiamo.
Il piano paesaggistico, predisposto dalla Sovrintendenza, prevede tre livelli di tutela:
1. Aree con livello di tutela 1 per le quali è sufficiente acquisire l’autorizzazione paesaggistica; in tali aree restano confermate le previsioni urbanistiche dei comuni;
2. Aree con livello di tutela 2 per le quali non è ammesso uso diverso da quello agricolo;
3. Aree con livello di tutela 3 che sono le invarianti del paesaggio nelle quali di norma è esclusa ogni edificazione;
Aree di recupero nelle quali sono previsti interventi di recupero ambientale.
Nell’area di livello di tutela 2 sono compresi il tavolato ibleo comprendente l’altipiano di Modica e Ragusa. Circa due terzi del territorio della provincia. Come è definito ? “Livello di tutela 2: protezione e valorizzazione del sistema strutturante agricolo del tavolato ibleo in quanto elemento principale dell’identità culturale e presidio dell’ecosistema”.
Che cosa significa? Lo facciamo dire alla stessa sovrintendente in una intervista concessa alla Gazzetta del Sud: “Il piano paesistico della provincia di Ragusa riconosce la qualità del tavolato degli iblei e la tutela. Per tavolato degli iblei intendiamo quella parte del territorio che si estendente dall’altipiano di S. Giacomo e Frigintini e prosegue sino alle balze di Comiso e quasi alla costa, toccando la valle dell’Irminio, le campagne che da Ragusa raggiungono Donnafugata e il litorale. E’ un’area molto vasta, caratterizzata dai muri a secco e da uliveti, da carrubeti, mandorleti. All’interno di quest’area vi sono ovviamente delle zone, come centri urbani e le aree industriali e artigianali dove, ovviamente, le tutele si riducono fino ad annullarsi. L’intenzione è, però, quella di preservare questo grande patrimonio evitando che sia inghiottita dal cemento”, Chiede l’intervistatore: “Quali attività saranno possibili nelle aree di pregio come quelle del tavolato degli iblei? E quali invece saranno regolamentate o vietate?” Risponde la sovrintendente: “Tutto ciò che esiste continuerà ad esistere. L’agricoltura e la zootecnia, ad esempio, potranno continuare ad essere svolte senza problemi. In questa aree non potranno insediarsi, ad esempio, impianti industriali”. Chiede ancora l’intervistatore: “Tra gli impianti industriali rientrano anche le centrali eoliche e fotovoltaiche?”. Risponde con grande determinazione la sovrintendente: “Assolutamente si. Nell’area del tavolato non sarà possibile installare pale eoliche, anche se da mesi non ci sono più richieste in questo senso, o anche installare campi fotovoltaici nelle campagne”.
Nella sua indiscussa chiarezza la signora non pare rendersi conto della gravità di quello che dice. In due terzi del territorio, l’altipiano di Ragusa e Modica, non si può fare altro che agricoltura tradizionale. Né impianti industriali e commerciali, compresi fotovoltaico ed eolico! Però è generosa e fa una importante concessione: quello che c’è può restare. Gli impianti industriali esistenti non saranno demoliti.

Ragusa, economia agricola

Però Ragusa e Modica sono centri agricoli e devono restare agricoli, perché “tale è la destinazione naturale del territorio”. Ma chi lo stabilito?
UN paio di settimane fa, verso le ore 8, una signora intervenne nel programma di RAI 3, Prima pagina, filo diretto, per protestare contro il progetto del sindaco Alemanno di abbattere Tor Bella Monica per costruirla nuova ed efficiente in altro sito. Dio ne guardi! Dichiara la signora: Perché turbare il territorio romano? “Come era bella la campagna romana. C’erano le pecore…” E già! Le pecore c’erano anche quando i romani erano i poveri pecorai sulle malsane rive del Tevere e assaltarono e distrussero Albalonga, dando inizio alla serie millenaria delle conquiste. Essi eressero Roma, la dominatrice del mondo, cancellando campagna e pecore. Al suo posto costruirono strade, acquedotti, teatri, curie, fori, templi, archi di trionfo, e anche il Colosseo. Ma allora non c’era un piano paesaggistico! Oggi però, secondo la signora, il sindaco Alemanno non deve costruire un grande e moderno quartiere, ma tenere la campagna e le pecore! E Tor Bellamonica degradata. Ecco le farneticazioni del romanticismo roussoiano.
Come si fa a scegliere “la destinazione naturale” giusta se l’uomo lungo i secoli ha cambiato il territorio secondo le sue necessità economiche? Quale è la destinazione naturale di un territorio?
Quella della preistoria? No, perché non c’è alcuno che possa testimoniarlo. Quella all’inizio dell’era cristiana? E duemila anni come si fa a cancellarli? Quella all’inizio della rivoluzione industriale? Potrebbe essere una data plausibile, se non ci fosse appunto la rivoluzione industriale. O quella esistente dopo l’ultima guerra? Questa pare la scelta della sovrintendente. “Sino al dopoguerra le trasformazioni dell’uomo hanno arricchito e migliorato il paesaggio. Dal dopoguerra in poi si è assistito, invece, ad un’aggressione dell’uomo verso il paesaggio che, giorno dopo giorno, è stato sempre più alterato”. E’ chiarissimo il pensiero: la destinazione naturale è quella che esiste fino al fascismo: la sovrintendente parla di mandorle, carrube e ulive. Non parla della principale destinazione della campagna alla produzione di grano, con una resa assolutamente non remunerativa se non acquistata dallo Stato.
La verità è che la provincia ha visto una grandiosa opera di trasformazioni da parte dell’uomo, che non possono essere cancellate senza cancellare la provincia stessa.

Le trasformazioni dell’uomo

Il territorio della provincia è sostanzialmente il territorio della contea di Modica che, in gran parte, la riforma del 1541 distribuì fra gli abitanti della contea, spezzando il feudo e costringendoli a lavorare in proprio. E, quello che è ancor più importante segnalare, i muri a secco per la divisione dei campi non sono opera d’arte ma necessità dettata dalla povertà del suolo: era infatti, come è ancor oggi, un suolo pietroso, con molte rocce e poche zolle di terra; occorreva spietrarlo, e furono inventati i muri, segno di povertà. Negli anni sessanta la popolazione iblea abbandonò l’agricoltura tradizionale per dedicarsi all’allevamento, scoperse industria e commercio e trasformò il territorio costruendo capannoni commerciali, artigianali e industriali per produrre e vendere. Anche questa è destinazione naturale, come quella degli altri secoli, perché voluta dall’uomo che su questo territorio deve vivere e trarne gli elementi della sua ricchezza.
Riprendo quanto ha scritto l’illustre storico medicano, preside della facoltà di scienze politiche a Catania, Giuseppe Barone: “Nella sua lunga storia l’ex- contea di Modica ha conosciuto tre rivoluzioni agrarie e due differenti processi d’industrializzazione, a conferma del suo dinamismo socioeconomico e della posizione geografica baricentrica nel cuore del Mediterraneo. Nel XVI secolo l’enfiteusi scardinò precocemente (rispetto al resto dell’isola) il latifondo feudale ed avviò la formazione di un esteso tessuto di piccole e medie aziende orientate sulla produzione dei pregiati grani “duri” e sull’allevamento che alimentarono per circa 3 secoli intensi traffici mercantili con Malta, Genova, Marsiglia e con i porti “barbareschi” del Nord Africa.
Nel XIX secolo, alla tenuta del grano e della carne sull’altopiano, si affiancò il boom delle colture arboree soprattutto del vigneto nella zona ipparina (dove si diffusero anche tabacco, cotone e fibre tessili) e della consociazione carrubbi-olivi nelle fasce collinari, con profonde trasformazioni demografiche ed urbanistiche (crescita della popolazione, sviluppo edilizio delle città).
Nella seconda metà del XX secolo l’«oro verde» delle colture ortofrutticole (ma la coltivazione intensiva di pomodoro era stata già sperimentata tra le due guerre) ha ridisegnato il “paesaggio costruito” della fascia costiera, facendo raggiungere all’agricoltura iblea primati nazionali nella produzione/esportazione di ortaggi in serra e a “pieno campo” (pomodori, zucchine, peperoni, melanzane) e nel comparto florovivaistico. Nell’ultimo ventennio la concorrenza delle similari produzioni mediterranee (paesi nord-africani, Spagna e Grecia) ha creato non poche difficoltà al settore, compensate dallo sviluppo sull’altopiano dell’allevamento zootecnico e dei prati artificiali che ha fatto decollare una moderna industria agroalimentare (lattiero-casearia, olearia, vitivinicola).
Il processo d’industrializzazione in provincia di Ragusa è stato invece un fenomeno recente. La tradizionale struttura protoindustriale e artigianale del XIX secolo è stata sconvolta dalla scoperta del petrolio alla metà del XX (1953) e dalla illusoria speranza di insediare un polo petrochimico…. Negli anni ’80 falliva definitivamente la verticalizzazione produttiva del trinomio petrolchimica-asfalto-cemento e la mancata sinergia intersettoriale chiudeva la breve e sfortunata stagione della “grande industria” in terra iblea, culminata con lo smantellamento della siderurgia (ferriera Fas) e del settore minerario. Mentre politici, organizzazioni sindacali e associazioni di categoria combattevano sui tavoli regionale e nazionale per la «vertenza Ragusa» senza molte chances di successo, sulle rovine fumanti della prima industrializzazione (ma quanti errori commessi dalle classi dirigenti del tempo!) nasceva nel corso degli anni ’90 una seconda e «silenziosa» rivoluzione industriale trainata dalla crescita spontanea delle piccole e medie imprese, che nell’ultimo ventennio ha rappresentato il fiore all’occhiello dell’economia ragusana.
Questo autoctono «miracolo economico», che è il frutto originale della vivacità imprenditoriale e della laboriosità iblea, ha mosso i primi passi già negli anni ’80 grazie alle leggi regionali sulle zone artigianali e sulle aree di sviluppo industriale (1978-1985) ed è stato accompagnato dalla discreta regia di alcune associazioni imprenditoriali (Assindustria, ma soprattutto la CNA, Confederazione Nazionale dell’Artigianato) dando vita ad un circuito virtuoso di imprenditoria manifatturiera che nel 2005 conta circa 5000 imprese con 12000 addetti. Il Rapporto Tagliacarne dell’Unioncamere colloca a quella stessa data la provincia di Ragusa al 18° posto in Italia e addirittura al primo posto nel Mezzogiorno per numero d’imprese rispetto alla popolazione: si tratta di livelli «nordisti», che accostano la provincia iblea ad alcune realtà tosco-emiliane”. (Le PMI nell’area di libero scambio, F. Angeli, Milano 2009, p. 73).
E questo “miracolo economico” viene liquidato dalla signora Greco, che pur è un architetto, come “un’aggressione dell’uomo verso il paesaggio che, giorno dopo giorno, è stato sempre più alterato”.
Questa realtà che la signora Greco non conosceva, è oggi la vita della provincia. Non la si può cancellare senza uccidere Ragusa tutta. Così come non si può affidare a una persona che non conosce la vita economica e sociale della comunità un qualsiasi piano regolatore. Immaginarsi il Piano Paesistico!

La storia e il progresso dell’umanità
La pastorizia, dopo la caccia e la pesca, fu una fase della vita dell’umanità con cui iniziò la sua crescita economica. Seguì l’agricoltura con la proprietà privata che permise di sviluppare coltivazioni e la prima accumulazione capitalistica, spinse ai commerci fra nazioni; poi si intrapresero gli allevamenti programmati per rifornire di carni, fresche ed insaccate, le popolazioni. Il commercio divenne sempre più la fonte principale di arricchimento e tale, terra e commercio, restò secoli la ricchezza delle nazioni.. Nel Settecento si ebbe in Inghilterra la rivoluzione industriale: l’invenzione della macchina al servizio dell’uomo. L’economia ne fu rivoluzionata: l’industria con la sua illimitata capacità di moltiplicare le macchine e la produzione, divenne la principale forma di arricchimento. La macchina ha bisogno di energia. E da allora la corsa verso i prodotti energetici non si è fermata.
In questo grandioso processo, che moltiplica le disponibilità economiche dell’umanità e cambia la sua vita, la provincia di Ragusa secondo questo piano dovrebbe restare agricola perché questa è la destinazione naturale del territorio!
Come si può pensare di condannare al regresso una provincia che ha mostrato dinamismo e sacrificio?

Dante, Inferno, canto 20, vv. 13-15.

Coloro che sostengono la impostazione della sovrintendente non sono, come potrebbe apparire, dei conservatori. Sono in realtà dei retrogradi. Vorrebbero condannare l’umanità, o quando meno la nostra provincia, a tornare indietro, all’età dell’agricoltura, ovviamente quella tradizionale. Sono i personaggi descritti da Dante: uomini che camminano con la testa all’indietro. Il paradosso è che si propongono come campioni di cultura. Quale, lo sanno solo loro. Già Voltaire aveva gettato il sarcasmo su Rousseau affermando che voleva riportare l’uomo a camminare a quattro zampe. Era un’accusa infondata. Ma questi signori vogliono, con la Sovrintendente, portare la nostra economia a quella agricola tradizionale; lo affermano loro stessi e chiaramente.
Mentre i popoli una volta sottosviluppati si attrezzano, si industrializzano, aumentano il PIL, ed esportano, forti del basso costo della mano d’opera, e invadono i nostri mercati; mentre l’Occidente, una volta padrone del commercio mondiale e oggi in gravi difficoltà, studia come resistere alla concorrenza di questi paesi, come aumentare la competitività, come sviluppare tecnologia e innovazione, alla provincia di Ragusa si propone di tornare all’agricoltura tradizionale, gabellando questa follia per difesa dell’ambiente.
Non fatichiamo a riconoscere che un pensiero ambientalista era necessario. Molti danni sono stati inferti all’ambiente anche in provincia e, in particolare, a Modica. Ma è necessario stare attenti a non esasperare la difesa del territorio fino a farne il fine della vita dell’uomo mentre è solo il mezzo. Non è possibile navigare nel mare aperto e incognito della storia creando falle proprio nella nave su cui si viaggia. Ma diversa appare spesso l’opera degli ambientalisti se essi diventano i talebani del territorio asservendo ad esso l’uomo. Quando i cani sbranarono a Sampieri il bambino di Modica, la sottosegretaria si affrettò ad ammonire i modicani: ”I cani non si possono uccidere!”. In quel momento di inenarrabile emozione collettiva, questo richiamo sembrò significare: i cani possono uccidere l’uomo, ma l’uomo si guardi dal toccare i cani. E dopo pochi giorni sempre nella stessa zona i cani assalirono e sfigurarono orrendamente una ragazza tedesca in vacanza. Così rischierebbe di apparire l’invito al rispetto della natura se esso costringesse, come fa il Piano paesistico, l’uomo, in questo caso la provincia, a tornare alla fame e alla miseria, per continuare ad ammirare i muri a secco.
Una visione culturale errata

E’ quella che sta alla base dell’atteggiamento dei nemici del progresso. Nel Vangelo c’è un passo illuminante anche su questo argomento. Era di sabato e i discepoli raccolsero delle spighe. I farisei protestarono con il Signore poiché violavano il sabato e quindi la legge di Mosè. Ed Egli proferì le famose parole: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” ( Mr. 2,27).
Nella concezione cattolica della terra è assodata la visione finalistica: la natura è stata fatta per servire all’uomo. D’altronde anche il grande nemico della metafisica e del finalismo, Emanuele Kant, recuperò il finalismo sia pure sul piano del sentimento, dato, affermò, che senza l’uomo l’universo sarebbe un immenso deserto.
L’uomo deve servirsi della natura e dei suoi beni per la sua vita e per il suo progresso. E’ una visione antropologica e antropocentrica quella cristiana che è stata seguita da innumerevoli filosofie anche lontane dal cristianesimo: l’uomo al centro del mondo, ove tutto è per l’uomo. Ne deriva la sua dignità che non può essere stracciata neppure quando egli ha violato leggi o la dignità e i diritti degli altri. D’altronde, questa idolatria della natura, come ogni altra, razza, nazione, classe, partito, mercato, profitto, è sempre unita al disprezzo e alla sottomissione dell’uomo.
Tutto è per l’uomo. A lui è destinata anche la natura. Egli se ne deve servire, utilizzarne le forze, trasformarla per i suoi bisogni.
Il che non significa che l’uomo debba distruggerla poiché distruggerebbe la sua stessa sede e il suo futuro sul pianeta. Ma pensare che non si possa trasformare il territorio a beneficio dell’uomo perché esso ha una destinazione naturale è veramente un abnormità. La natura è per l’uomo ed egli, salvandola nella sua integrità sostanziale, deve poterne usare le potenzialità e trasformarla per la propria utilità. Ovviamente senza violentarla.
Che cosa significa per Ragusa e Modica tornare all’agricoltura tradizionale, più precisamente, all’economia postbellica?

L’economia provinciale
Se si consulta Google sulla provincia di Ragusa si legge: “ Ragusa viene spesso citata e denominata come un’isola nell’isola, per via dell’attiva imprenditorialità dei ragusani che rendono la provincia tra le più ricche del meridione. Negli anni passati sono stati pure effettuati degli studi al fine di stabilire quali siano i fattori scatenanti che, in controtendenza al resto della Sicilia, fanno sì che l’economia iblea abbia un tale primato. Infine Ragusa presenta il minor tasso di disoccupazione della Sicilia che è del 10% nonché fra i più bassi del meridione”.
Ma questo è datato al 2005. Dal 2006 fino ad oggi la provincia ha registrato un declino di produzione e di reddito che ci riporta ai primi anni del ’60. E’ la migliore agricoltura in serra d’Italia che subisce la concorrenza di paesi stranieri, facendo crollare i prezzi e rendendo non remunerativo il prodotto di Vittoria e zona litoranea; è l’edilizia che vede diminuire il lavoro e procede ai licenziamenti, determinando il circolo vizioso della recessione: minore reddito, minore spesa per i consumi, minore produzione, e quindi ancora licenziamenti.
Da qualche tempo è ripresa l’emigrazione dei lavoratori verso il Nord e la Germania, che dal 1970 era sostanzialmente cessata. Non ci si può condannare a diventare nuovamente una provincia di emigranti! Ciò malgrado non manca chi ha il coraggio di definirsi l’autore di questo scempio che ha bloccato la vita della provincia e, se non corretto, rischia di ucciderla. Abbiamo letto in questi giorni sul Giornale di Siracusa: “Il primo atto che chiedo a Lombardo e Armao è adesso l’immediata esecutività di tutti i piani paesaggistici per frenare cemento, trivelle, abusivismo, impianti eolici e fotovoltaici, piani regolatori superati, attraverso l’applicazione della norma transitoria che sospende tutte le autorizzazioni in attesa che le stesse vengano riconsiderate alla luce delle priorità di tutela e valorizzazione del nostro splendido territorio”. “Possiamo aprire una nuova era – ha concluso Granata- e rimediare a tanti ‘guasti’ del passato, con un quadro normativo, da me voluto e fatto approvare tanti anni fa, che può eliminare ogni discrezionalità e speculazione. La Sicilia ne ha urgente bisogno”. E’ il deputato dell’ex A. N., Fabio Granata, che dice queste cose. Ed è chiarissimo: fermare tutto, fotovoltaico, eolico, trivelle, cemento. Aggiunge anche: abusivismo. E qui non capisce quanto sbagli: la Sicilia ha urgente bisogno di lavoro e di produzione. E il prodotto di questa spaventosa operazione, che favorisce i grandi proprietari, sarà proprio disoccupazione ed abusivismo. E miseria. Ed emigrazione. Torneremo, come vuole la sovrintendente, al 1950.
Il cemento
I dannati di Dante hanno inventato un termine che dovrebbe terrorizzare: cementificare. Non: costruire, ma cementificare. Non si capisce se anche nelle costruzioni si vuole che si torni indietro: non credo alle palafitte, ma alle grotte, alle capanne di fango, oppure, come i romani, alle case di pietra. I romani, secondo costoro, pietrificavano. Costruivano tutto con pietre: anche le strade. Famose le grandi consolari. Oggi la sovrintendente darebbe la sua approvazione ai grandi acquedotti sopra elevati su archi che tagliano la campagna per chilometri?
Ogni epoca ha il suo modo di costruire e oggi si costruisce con il cemento, con buona pace dei dannati danteschi. E ci sono costruzioni in cemento che sono autentiche opere d’arte: si guardi Dubai, Hong Hong per fare qualche esempio, o anche Barcellona. Un giorno i laureati in belle arti tuteleranno queste costruzioni contro coloro che volessero cambiare modo di costruire. Perché nessuno insegna loro che la Storia non si ferma.

Le trivelle
Andrea Camilleri ha scritto: “Cosa direbbero i milanesi se si piantasse una trivella in piazza Duomo? E cosa direbbero i veneziani se si piantasse una trivella in piazza S. Marco?”. La conclusione è che non si debbono effettuare ricerche petrolifere nel territorio della provincia di Ragusa. Ma non vicino al Duomo di S. Giorgio a Modica o Ragusa. No! Perchè si turberebbero i muri a secco. Chiedo: ma perché un bravo scrittore, solo perché ha un grande successo editoriale, deve essere in grado di sentenziare di tutto, di Risorgimento, di territorio e persino di ricerche petrolifere? Perché fargli fare queste figure che ovviamente non merita?
Le trivelle sono il primo obiettivo dei nemici di Ragusa. Basta leggere le cronache di questi giorni, che ci dicono come a Scicli ci sia stato un raduno per protestare contro le trivelle. C’erano uomini politici, amministratori, intellettuali, e qualche cittadino.
Secondo questi dimostranti il petrolio deve restare nel sottosuol0o perché le trivelle turberebbero il panorama, a Scicli le serre. Tutto questo lascia senza fiato. Una grande ricchezza, il petrolio, per il quale paghiamo 80 dollari al barile, deve restare in fondo alla terra.
Ma chi o che cosa turba? Le trivelle restano per qualche mese; poi vengono sostituite dalle pompe, che occupano pochi metri quadrati e non si vedono se non da vicino. A Ragusa ce n’era una in via Orso Maria Corbino, di fronte alla sede di Teleiblea. Nessuno si è mai lamentato, pochi se ne sono accorti, e non ha dato fastidio ad alcuno. Allora? Il rischio delle trivellazioni a mare. Da quasi trenta anni si estrae a Sud di Donnalucata e non c’è mai stato alcun danno. Perché la struttura geologica del Mediterraneo è diversa da quella del golfo del Messico, ha spiegato un tecnico del settore. Allora perchè svenarci per pagare gli altri paesi che ci forniscono energia?
L’energia

Ma il discorso a questo proposito è più ampio. L’energia è vita, è movimento, è lavoro, è progresso. L’energia è tutto. Mussolini aveva annotato nel 1936 che, se le nazioni volevano veramente bloccare la sua conquista dell’Etiopia, invece di imporre le sanzioni, bastava bloccare l’importazione di petrolio. Enrico Mattei negli anni ’50 si batté perché l’Italia avesse autonomia energetica; girava per il mondo in cerca di permessi di ricerca e di concessioni, intuì il valore dell’energia nucleare e iniziò nel 1956 la costruzione di una centrale nucleare a Latina. Oggi l’Italia non dispone di energia nucleare, produciamo fotovoltaico per 435 MW, a fronte della Germania che ne produce 1153 MW; eolico per 1114 MW, dietro la Spagna che ne produce 2453 MW, e la solita invidiabile Germania che ne produce 1917 MW. Se riflettiamo al fatto che in Italia paghiamo l’energia elettrica il 30% più cara della media europea mentre siamo il paese più assolato della zona euro, c’è da chiederci che politica stiamo facendo. E la risposta a questa domanda sta nel fatto che nel 2004 Rubbia, premio Nobel per la fisica, fuggì in Spagna per realizzarvi la centrale solare più grande di Europa; doveva nelle intenzioni del grande fisico essere realizzata in Sicilia, e gli fu impedito in nome di un presunto ambiente da tutelare. Energia da Biomassa, ovviamente, non ne possiamo produrre; mi pare che ci sia un processo in corso a Modica contro coloro che hanno tentato di realizzare un impianto. L’Italia produce appena il 20% del fabbisogno energetico nazionale, ed è il secondo paese al mondo per l’importazione di energia elettrica, di cui la maggior parte proviene dal nucleare di Francia e Svizzera. Niente fotovoltaico, dice il Piano paesistico: sul territorio italiano, dicono gli scienziati, cade ogni anno energia solare equivalente a 300 miliardi di barili di petrolio, ovvero circa 1000 volte il consumo italiano di petrolio. E secondo il Piano paesaggistico non possiamo utilizzare questa energia come non possiamo estrarre il petrolio dalle viscere della terra.
In compenso paghiamo somme enormi per l’energia nucleare, e per la fornitura di gas metano: 429 milioni 900 mila euro per l’importazione di petrolio. Ma dove vogliamo arrivare? A lavorare per i paesi arabi, per la Francia e la Svizzera senza potere godere del nostro lavoro? La spesa per l’energia è la voce più pesante per la nostra bilancia commerciale.

Che fare?

Davanti alla minaccia della morte della provincia la sua popolazione si deve porre questo interrogativo. E deve reagire come un solo uomo. La provincia ha saputo avere momenti di grande mobilitazione che hanno prodotto eccezionali risultati.
Vero è che ci sono stati momenti alti della sua vita che sono stati cancellati per colpa della sua classe dirigente. Ora non è il caso di rivangare situazioni passate che dividerebbero mentre la provincia ha oggi bisogno soprattutto di unità per difendersi dal grave attentato. Ma non c’è dubbio che la sorte della comunità provinciale oggi sia nelle mani dei suoi rappresentanti politici. Difatti due soltanto sono le strade percorribili per salvarci: o l’assessore revoca il decreto di approvazione o si deve ricorrere al TAR perché le violazioni di legge sono molte e palesi. La seconda è lunga e intanto il Piano continuerebbe a produrre i suoi effetti nefasti.
Per avere un’idea degli innumerevoli danni che stanno già schiacciando la provincia cito solo un caso. Una società europea sta installando nel comune di Santa Croce pannelli fotovoltaici per la produzione di 8,4 megawatt, con un investimento di 33 milioni di euro e un’occupazione di 70 addetti. La multinazionale ha presentato un progetto che prevede .nel territorio di Ragusa la produzione di 30 megawatt di energia solare, con un investimento previsto di 150 milioni di euro e un’occupazione di oltre cento persone. Ha ottenuto tutti i permessi e le autorizzazioni; sennonché è intervenuta la firma del Piano paesaggistico con le norme di salvaguardia che hanno permesso alla Sovrintendente di dare parere negativo. Non sono investitori italiani; hanno scelto Ragusa perché assolata come i paesi del Maghreb ma con una tranquillità politica assicurata dalla democrazia. Appare ovvio che in permanenza di ritardi o addirittura di rifiuto, se ne andranno senza rimpianti. Nei paesi del Mediterraneo non manca il sole!
Bloccare il Piano paesistico è oggi l’impegno di ogni cittadino pensoso della vita e del futuro della provincia.
Come? Ci sono solo due vie: la via politica e la via giudiziaria.
Comini e provincia debbono produrre un ricorso al TAR per l’annullamento del decreto di approvazione, essendo il piano redatto con una serie di violazione delle stesse leggi su cui fondava il diritto di intervento.
Ma i cittadini si chiedono?
Non c’è una classe dirigente che faccia valere i legittimi interessi della nostra comunità? Non ha Ragusa sei deputati di vari schieramenti che hanno il dovere di difenderla?
Ci sarà una risposta a queste attese?

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