(La danza sul Titanic 5). Governo Monti: che delusione! Di Saverio Terranova

L’Italia ha salutato il governo Monti con una fiducia quale forse non si era mai verificata, neppure per Cavour o De Gasperi. Non ripetiamo la solfa che abbiamo sentito troppo: l’Italia era sull’orlo del baratro…etc. Lo sappiamo. Andare alle elezioni poteva significare precipitare nel défault se, nel bailamme della lotta politica durante le elezioni, non si collocavano i BTP su cui purtroppo è fondata la vita finanziaria dello Stato. Se già, con un governo forte, il tasso aumenta senza rimedio alcuno, non possiamo sapere quello che poteva succedere in un vuoto di governo e con la ridda di accuse e contro accuse che si sarebbero inseguite dalle Alpi a Capo Passero. E forse sarebbe l’ora di finirla anche con le osservazioni della sospensione della democrazia: l’Italia è una repubblica parlamentare; il governo non è eletto dal popolo, ma è espressione del Parlamento. E il governo Monti è stato votato dal Parlamento. Così sarebbe ora di non parlare più di Commissario: forse l’Italia aveva bisogno veramente di un Commissario che, con la garanzia della firma del Presidente della Repubblica, avrebbe adottato i provvedimenti necessari senza dovere discutere con un parlamento di nominati che ha mostrato di non essere in grado di governare e che con la sua incapacità ci ha portato in questo tunnel da cui speriamo (oggi è solo speranza) di uscire grazie a Monti. La repubblica romana di Scipione e di Cesare, non credo che ci sia chi ne dubiti, era uno stato democratico: ma nei momenti difficili il Senato, sospendendo tutte le magistrature democratiche, nominava un dittatore che aveva pieni poteri per salvare la repubblica; anche i ragazzi ricordano il nome di Fabio Massimo il temporeggiatore, dittatore dopo il disastro di Canne. Questo in Italia la Costituzione non lo consente. Ma anche qui le condizioni sono quelle di un paese sull’orlo del disastro, non bellico ma finanziario.
Non è un dittatore, ma solo un presidente del Consiglio espresso da quel Parlamento che ha rovinato l’Italia. E’ vero! Solo che Monti è stato chiamato e ha accettato l’incarico per toglierci dal disastro incombente.
Lo ha fatto? Certo! Nessuno, dotato di un minimo di buon senso, e che non sia un leghista, poteva pensare che avrebbe risolto il gravissimo e complesso problema della condizione finanziaria ed economica dell’Italia in pochi giorni. E neppure in pochi mesi. Solo che il risultato del primo mese del suo governo, e della manovra immediata che ha portato e fatto approvare in Parlamento, non solo non salva la nazione, ma forse la inguaia maggiormente. Si, nell’immediato ha dato fiato ( un po’) alla finanza. Ma la manovra è per la maggior parte disastrosa e certamente provocherà ancor più danni.
Quali i punti che crediamo dannosi?
1. l’aumento dell’IVA;
2. l’aumento delle accise sulla benzina;
3. l’aumento delle rendite catastali;
4. le aliquote nell’applicazione dell’IMU;
5. IRPEF regionale su tutti i redditi;
6. tutti i rincari dei principali beni di consumo e servizi necessari (canone TV, luce e gas etc.)
Sono provvedimenti che deprimeranno i consumi: c’è qualcuno che dubita su questo? Già lo hanno fatto negli acquisti natalizi, i più legati alla tradizione e alla abitudini degli italiani. Sicuramente faranno sentire il loro effetto nefasto ancor più nella spesa degli italiani nei giorni avvenire.
Ma, si dice, era urgente approvare una manovra immediata e indispensabile per la finanza pubblica. Anche questo è vero!
Ma perché colpire la massa dei cittadini e non prelevare la stessa somma dai molti ricchi che in Italia sono in condizione di sostenere una simile manovra? Da quel dieci per cento degli italiani che, secondo la Banca d’Italia, possiede il quaranta per cento della ricchezza nazionale? E anche non procedere al taglio dei costi della politica che oggi rapprendano il vero scandalo, il più grave e sentito dagli italiani?
Si dice che il Parlamento non avrebbe approvato questi provvedimenti. Ebbene, il governo aveva una via molto semplice: presentare la propria proposta salvifica; se il parlamento ( è chiaro: una parte di esso) si rifiutava di approvarla, c’era una via maestra: l’istituto delle dimissioni. Presentare le dimissioni dichiarando che il governo non era messo in condizione di fare quello che occorre per salvare l’Italia metteva tutti di fronte alle proprie responsabilità. Quella parte di Parlamento ci avrebbe dovuto pensare bene prima di opporsi. Perché, è chiaro a tutti, ove cadesse il governo Monti, sarebbe la fine dell’Italia. Così se, come è possibile con questo Parlamento, il governo Monti non riuscisse a salvare l’Italia, ne porterà esso tutte le responsabilità davanti alla nazione. E non il vero colpevole, cioè quella massa di parlamentari che ancora blaterano a difesa dei loro stipendi e privilegi e non si rendono conto del danno che hanno provocato alla nazione con la loro incapacità. Ma forse non solo con l’incapacità.

Così parlò Zaratustra!

Nel Corriere della sera del 2 gennaio c’è un lungo articolo dei due docenti della Bocconi, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, quelli ,per intenderci, che hanno sostenuto che il liberismo è di sinistra, Il Saggiatore, Milano 2007 ( ma poi sul serio?). Difendono i ricchi con un’appassionata arringa che, francamente, ci appare fuori luogo. Lamentano che ci sia in corso una campagna per la punizione dei ricchi. Nessuno vuole demonizzarre i ricchi! Almeno quelli che hanno meritato con il loro lavoro. Certo quelli che hanno ricevuto liquidazioni milionarie per avere fatto fallire un’azienda pubblica o ricevono superstipendi con denaro dallo Stato, ecco questi non sono giustificabili. Per la verità lo riconoscono anche i due professori che va perseguita “la ricchezza ottenuta con i premi concessi a manager pubblici che hanno male amministrato o addirittura corrotto le aziende loro affidate; con la distorsione della governance di istituzioni finanziarie per cui amministratori, anche incapaci, quando smettono di fare danni si ritirano con decine di milioni di euro di buonuscita”.
Il problema è un altro: deve o no pagare di più chi ha di più?
Il principio della imposta progressiva fu agli inizi del secolo scorso una battaglia dei partiti e movimenti popolari, poi condivisa o accettata da tutti: che non significava applicare la stessa aliquota a tutti i contribuenti, ma aumentare proporzionalmente l’aliquota da applicare ai redditi. Poi è stata introdotta l’aliquota massima oltre la quale non si va anche di fronte a a patrimoni miliardari. Ora non si vuole discutere questo né rivedere tutta la legislazione fiscale. Lo facciano gli esperti. Ma in tempi eccezionali lo Stato deve ricorrere a misure eccezionali. E l’unica misura che in tempi brevi può salvare l’Italia dalla morsa dello spread è solo l’abbattimento del debito pubblico. E questo non si può fare riducendo il debito di 1/20 ogni anno senza o distruggere totalmente quello che resta ancora della vivibilità delle famiglie o ricorrere alla misura straordinaria di prelevare la quota necessaria di reddito dove il reddito lo consente: cioè dai grandi capitali. Gravare ancora sul ceto medio è il suicidio della nazione. Non si può spremere il limone ancor di più: solo nel 2011 l’Italia ha subito il peso devastante di cinque manovre. E ognuna, si dichiarava dai governanti, era l’ultima.

Ancora un dèjà vu

Nel 1929. come sappiamo tutti, scoppiò la grande crisi. E scoppiò in America. Cosa fece il presidente degli USA, Herbert Hoover? Applicò scrupolosamente le leggi dell’economia: rigore nella spesa pubblica e tasse per ripianare il debito federale giunto alle stelle: 22.539.000.000 di dollari. Il risultato è noto. Fallimento di banche a catena, nelle più grandi i clienti ritiravano il denaro, soprattutto l’oro prendeva la via dell’estero; chiusura di innumerevoli aziende industriali e commerciali; disoccupazione giunta a livelli inimmaginabili, gran parte della popolazione in miseria e la sfiducia e la paura ormai dominanti nella pubblica opinione; la disoccupazione giunse a 13 milioni di persone. La grande nazione in ginocchio. Nel marzo 1933 Roosevelt si insediava alla Casa Bianca: il primo provvedimento la chiusura della banche dato che i clienti facevano la fila per ritirare il contante. La politica cambiò radicalmente. C’era di che fare inorridire gli economisti: stampò moneta, diede immediatamente lavoro a un milione di persone impiegandole in lavori utili ma improduttivi, quindi predispose un gigantesco piano di lavori pubblici, il cui cuore era la valle del Tennessee. Era il New Deal. In breve tornò la fiducia, la gente riprese a lavorare, le banche a fare il loro mestiere di erogare il credito, la disoccupazione diminuì, i consumi crebbero, la produzione si rilanciò. Alla fine del primo quadriennio il debito era schizzato a 36.423.000.000 di dollari. Ma l’America era salva: aveva ripreso a lavorare e a produrre.
A conclusione di questa rapida rivisitazione della storia, ci vogliamo chiedere perché, sia la crisi del 1929, sia quella del 2008 sono avvenute sotto presidenze repubblicane, cioè di conservatori? E furono presidenti democratici a tirare fuori gli USA da quelle difficoltà?

Che fare?

Criticare è facile, agire molto meno. Non pretendiamo di dare suggerimenti al professore e magnifico rettore della Bocconi. Ammesso che ci leggesse, cosa assurda solo a pensarla. Ma i cittadini debbono avere la consapevolezza di quello che succede, di cosa va male e di quello che è bene, esprimere il loro pensiero nella speranza che giunga anche alle orecchie di chi governa, ma, soprattutto, perché dire il proprio pensiero sui problemi della nazione è un loro preciso dovere per il buon funzionamento della democrazia. Se affondiamo, non affonderemo tutti: affonderanno i lavoratori a reddito fisso, dipendenti privati e pubblici, artigiani e commercianti, agricoltori e coltivatori. Quel dieci per cento, quello si salverà! Per questo, più che il diritto, abbiamo il dovere di parlare.
Il prof. Monti, come tutti i dicenti della Bocconi, come la governance della UE, è liberista. Significa che è convnto che il mercato si autoregolamenti e risolva da sé i problemi che vanno sorgendo. Ma è vero questo? E’ così vero che la déregulation nel settore finanziario, cioè la libertà di produrre strumenti finanziari di dubbia utilità per l’economia, con i derivati e i crédit swap, ha portato il mondo capitalista nella più grande crisi mai conosciuta dopo quella del ’29! D’altronde Luigi Einaudi, il liberale più classico dell’Italia, ha scritto: “Il liberismo assoluto non esiste. Sempre i governi sono intervenuti in economia”. Ma siccome la crisi mondiale del 2008 ha probabilmente rappresentato la fine del capitalismo liberista, perché non rappresenti la fine del capitalismo tout court, è necessario intervenire con determinazione lasciando da parte convinzioni studiate, insegnate e difese fino ad ora.
In economia non ci sono ricette miracolistiche, ma provvedimenti utili o inutili, o addirittura dannosi. La Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes uscì nel 1936, dopo che il New Deal era stato ampiamente attuato e più volte modificato secondo gli obiettivi da raggiungere. D’altronde Hegel scrisse con grande lucidità che “la nottola di Atena sorge al tramonto”, cioè che le teorie seguono la realtà. Ciò che hanno in comune il New Deal e la Teoria generale di Keynes è piuttosto l’interesse dedicato all’occupazione prima che alla moneta, che è solo lo strumento della creazione di reddito e di occupazione e dello scambio di merci. Una dichiarazione di Roosevelt, in questo senso, è fortemente significativa: “Il nostro primo, il più grande nostro compito è quello di dare lavoro al popolo”.
Allora crediamo che la via obbligata per salvare l’Italia e offrirle un futuro è sul binario: riduzione del debito e sospingere crescita e occupazione.

La riduzione del debito pubblico

Se si vuole fare ci sono solo due modi: riduzione della spesa pubblica e imposta straordinaria sui grandi patrimoni.
1.Riduzione della spesa pubblica.
L’abbattimento del debito si fa con il taglio dei costi della politica; taglio radicale, perché i tempi della greppia cui i politici e i loro innumerevoli attachés sono stati per decenni attaccati e che hanno divorato (e purtroppo ancora divorano) risorse pubbliche è finito: i paesi emergenti, e presto saranno molto di più, ci toglieranno molti degli utili che finora l’Italia ha avuto. Ma il problema non riguarda solo la riduzione del costo, oggi abnorme, del Parlamento: ma anche il costo di tutto il sistema politico e quello che ruota attorno ad esso: regioni, comuni, società miste, enti pubblici. Delle province speriamo che non siamo costretti ancora a parlarne: lo hanno capito tutti che sono totalmente inutili.
a) Cominciamo dal Parlamento. A parte il numero di parlamentari, il più alto del mondo: 945 contro 614 della Germania, essi sono i più pagati dell’Europa.
Non solo gli stipendi sono i più alti d’Europa, ma i privilegi di cui godono i rappresentanti dei partiti semplicemente disgustosi. Lo spettacolo che hanno offerto in questi giorni poi è penoso. Da Rosy Bindi e Matteoli a un certo Sposetti, più che fare pena, offendono l’intelligenza degli italiani. Non è possibile che, quando tutta l’Italia è costretta a sacrifici pesantissimi, essi continuino a difendere posizioni acquisite per lo più nel silenzio della stampa. Ma a volte nella protesta dell’opinione pubblica. Prendiamo il caso dei portaborse. Il 2 novembre 1986 PANORAMA usciva con la copertina a loro dedicata: “L’assunzione di 630 segretari. Portaborse di Stato”. E nell’articolo si leggeva: “La carica dei seicento è ormai partita. I contratti sono pronti: ogni deputato potrà assumere (stipendio due milioni al mese) un assistente personale. Provvedimento sospirato e generalizzato, costo complessivi 10 miliardi, e subito una valanga di polemiche. Le assunzioni dei segretari a spese del contribuente sono uno scandalo, scrivono i giornali, un blitz clientelare, l’ultimo privilegio di una classe politica che ha occupato lo Stato, la classica ciliegina sulla torta della partitocrazia” (pag. 48). Come si vede, la critica a questi privilegi non è nuova. Ma in Italia di uno scandalo si parla per tre giorni, poi scende il silenzio. E’ su questo che contano i seduti nel Parlamento: presto la stampa tacerà e l’indignazione popolare si placherà.
Quello che è spaventoso in questo momento, più ancora di quello che guadagnano, è l’accanimento con cui difendono le loro retribuzioni e i loro privilegi in una fase della vita nazionale che rischia di distruggere quanto di buono si è costruito dal 1946 ad oggi; loro possono chiedere sacrifici ai cittadini purché non ne siano toccati loro. Forse la teoria della Public Chiose su cui sui banchi dell’università abbiamo avuto molti dubbi è vera. Il principale autore di essa, James M. Buchanan, Nobel dell’economia nel 1986, sosteneva che i politici non sono benevoli monarchi illuminati, dediti al benessere collettivo, ma attori razionali che hanno a cuore solo i loro interessi egoistici. Addirittura egli parlava di fallimento dello Stato che sarebbe incapace di fornire beni e servizi sempre crescenti senza ricorrere a a ingente spreco di risorse.
C’è chi ne dubita? In Italia è sicuramente così. D’altronde Guicciardini lo aveva anticipato cinque secoli fa: è un vizio dell’Italia. Ma quelli che sono morti nelle guerre nazionali dal Risorgimento ad oggi, nella guerra del 1915-18, nell’ultima, nella lotta partigiana, ed oggi nel lontano Afghanistan, sono morti per questa Italia? Per l’Italia del proprio particolare? Ci sarà mai un po’ di dignità in questa gente?
b) Non c’è solo il Parlamento, anche se gli interessati si ostinano a ripetere che con 400 o 500 milioni che si risparmierebbero sui privilegi dei parlamentari non si risolve il problema. Certo! Ma si risolve con il pagamento di 1000 o 2000 euro che si chiedono a un impiegato pubblico? La spesa da tagliare è enorme. Regioni, Province, comunità montane, società partecipate, consulenze, segretari: è stato calcolato di un milione e mezzo di persone che vivono di politica. Ma questo è il momento di tagliare se si vuole salvare l’Italia. Le Regioni poi sono diventate un pozzo senza fondo: anche perché hanno il potere di fissarsi stipendi e benefit. Possono farli crescere come e quanto vogliono. E lo fanno. Ecco quanto costano: 1.177.787.259 euro: per stipendi, vitalizi, viaggi e altri benefici che si concedono a piacimento. La spesa più alta è della Sicilia, seguita dalla Sardegna. Forse non è errato ormai abolire le regioni a statuto speciale!
2. Riduzione del debito.
E’ indispensabile riportare il debito, se non ai parametri di Maastricht, almeno subito all’80 per cento del PIL.
C’è chi non ne parla più. Il governo non sappiamo esattamente come vuole eliminarlo: pare a rate. Per un intervento immediato, lo ripetiamo, è necessaria la tassazione straordinaria dei grandi capitali. Non una patrimoniale che colpisca la ricchezza immobiliare. Questo è stato già fatto con l’IMU. Bensì con una tassazione dei capitali.
L’unica proposta seria è l’ipotesi Amato: prelevare 130.000-150.000 euro dai grandi patrimoni.
Un economista che scrive nel sito dell’Italia dei valori afferma che la proposta Amato, impedirebbe il rilancio dell’economia. Non si capisce simile affermazione: tassare i ricchi non abbasserebbe i consumi né impedirebbe nuovi investimenti, data l’esiguità (per loro) dei prelievi. Ma veramente si pensa che sarebbero danneggiati da un simile contributo? Lo stesso Amato, Scalfaro, Dini, Profumo, Mauro Sentinelli, Felice Crosta, Cimoli, tanto per fare dei nomi comparsi nella letteratura attuale, se ne accorgerebbero appena! La proposta dell’economista è quella di ridurre la spesa pubblica e favorire la crescita economica. E fra quanto tempo la crescita metterà l’Italia in condizione di resistere alle pressioni del mercato che frattanto avrà eroso ancora i nostri redditi con l’aumento degli interessi da pagare ogni anno per i bond? Già rischiamo di andare da settanta miliardi l’anno a ottanta e ci avviciniamo al livello di fallimento. Questo, è chiaro, rovinerebbe solo il ceto medio, impiegatizio e produttivo. Quel dieci per cento che possiede il 44 per cento della ricchezza nazionale resterebbe a galla avendo disponibilità di scialuppe. Anzi di yacht.

La crescita.

Il governo ha annunciato ripetutamente che procederà alla liberalizzazioni. Un decreto al mese. Bellissima questa rateizzazione! Ma pensiamo veramente che la crescita dell’economia si possa fare solo con le liberalizzazioni? Ci sarà certamente una ridistribuzione di risorse oggi concentrate nelle mani di pochi. Ma per il resto?
Attualmente siamo in recessione. Non può esserci un rilancio dell’economia in queste condizioni: a) l’inasprimento dell’imposizione fiscale, dimezzando le disponibilità delle famiglie, deprime i consumi e aggrava il circolo vizioso della recessione: riduzione dei consumi- abbattimento della produzione-diminuzione dell’occupazione-ulteriore riduzione dei consumi e così di seguito.
b) Si aggiunga il comportamento delle banche. Divenute la causa scatenante della depressione mondiale sono state e continuano ad essere impinguate di fondi pubblici. Ma esse non sentono il dovere di sostenere la produzione e le famiglie. Dovunque. Nel Nord, sia Ovest che Est (questo forse il più colpito dalla crisi) le imprese denunciano la chiusura delle banche nei loro confronti: si è verificato persino il caso di imprese che si sono viste rifiutato il credito pur in presenza della garanzia del Confidi di riferimento! La CNA ha avviato un’indagine sul tema dell’accesso al credito. I risultati evidenziano che “per un milione e mezzo di imprese avere credito è una chimera”. Difatti il 78% degli intervistati ha dichiarato di avere avuto difficoltà nell’incontro con le Banche. Si può crescere senza la necessaria liquidità?
Allora per la crescita le imprese chiedono una riduzione del carico fiscale e l’accesso al credito. Non diciamo nulla di trascendentale. Ma dato che queste cose sono talmente ovvie da sembrare banali, il governo deve pensarci. E, anche qui, faccia presto: è più facile mettere tasse che rilanciare l’economia!

Le nuvole

Non c’è chi non conosce la commedia di Aristofane “Le nuvole”. E’ un duro attacco a Socrate. L’autore descrive il grande filosofo seduto su una nuvola ad erudire i suoi allievi. Intendeva dire che egli era furori della realtà e che viveva in un mondo di teorie che non corrispondevano al mondo concreto. Ecco sulle nuvole spesso ci sono i teorici della economia e della finanza. Luigi Einaudi ne “Miti e paradossi della giustizia tributaria” (Torino 1959) così ne parla: “Non sarebbe stato del tutto malvagio un titolo che dicesse: In difesa dello Stato contro i dottrinari, che invero in tutto il mondo conosciuto la confraternita dei dottrinari sta diventando il pericolo pubblico numero uno per la pubblica finanza….I dottrinari sono una delle sette piaghe d’Egitto ed, in punto di perniciosità pubblica, vengono solo dopo quell’altra pestilenza detta in lingua italiana dei “periti” e più conosciuta nel linguaggio internazionale ginevrino sotto il nomadi “esperti”. Dottrinari ed esperti sono congiunti strettissimi, perché afflitti dal medesimo vizio mentale, che è la convinzione di essere chiamati da Dio a risolvere “problemi”(pag. 4-5). Il timore che abbiamo è che i professori siano lontani dalla realtà, che conoscono bene il mondo della finanza ma non quello dell’economia reale, per intenderci quella che produce e quella che vende, cioè la vera ricchezza della nazione, di cui il denaro è solo lo strumento della circolazione delle merci e dei servizi, di tutto quello cioè che ha un valore commerciale. Le teorie sono belle, funzionano nell’astratto dei calcoli matematici, ma non sempre nella guerra che contrappone materie prime e lavoro, produzione e domanda, offerta e potere d’acquisto, valore reale dei beni e speculazione. E poi le teorie non sono dogmi di fede. Gli economisti diventano grandi quando inventano nuove dottrine che in teoria appaiono affascinanti. Ma funzionano solo quando prendono atto di esperienze precedenti che essi teorizzano. Diversamente restano quelli che non hanno previsto neppure questa crisi che per la verità era una crisi annunciata.
A fare scendere dalle nuvole i professori, se ci si sono seduti, ci stanno pensando le categorie sociali. Sabato 14 gennaio a Ragusa ci sarà una grande manifestazione che vede impegnate tutte le sigle presenti nelle nostra città: Confidustria e CNA, CGIL CISL e UIL, UGL, CUPLA, ANCE, Confcommercio, Confesercenti, Lega Coop, ACLI, Confagricoltura, CIA, Confconsumatori, Lega Consumatori e Codacons. E, veramente notevole, le diocesi di Ragusa e Noto. Che cosa chiedono? Sostanzialmente quello che abbiamo descritto. Sottolineando alcuni punti: 1.Piano straordinario per il lavoro;
2. Infrastrutture coerenti ed integrate;
3. Misure contro l’evasione fiscale, per una tassazione più equa e solidale;
4. semplificazione burocratica e puntualità dei pagamenti della Pubblica Amministrazione;
5.Abbattimento dei costi della politica.
Solo poche note: come può lo Stato esigere il pagamento delle imposte e, puntuale, se il primo evasore nei confronti delle imprese è esso stesso? L’ESPRESSO ha pubblicato una mappa delle amministrazioni che più ritardano nei pagamenti ai fornitori, regione per regione. Non è certo edificante.
Inoltre: come è possibile fare impresa quando per avviarla occorrono trenta visti ed autorizzazioni? Quando occorrono da sei a 18 mesi per espletare tutte le pratiche quando in Germania si fa tutto in un mese?
Ancora: é possibile che Ragusa, la provincia più lontana dal Centro dell’Italia e dell’EUROPA, sia la meno dotata d’Italia di infrastrutture? La ferrovia praticamente soppressa, non un chilometro di autostrade, il porto di Pozzallo ormai ampiamente insufficiente, l’aeroporto di Comiso neppure avviato.
Occorre sbloccare subito tutti i lavori pubblici pronti e cantierabili; e predisporne altri dato che l’edilizia, prima risorsa industriale della provincia, non può continuare nell’edilizia privata, mentre c’è necessità di opere pubbliche.
Infine studiare le possibilità di difendere il prezzo della nostra produzione agricola tutelando non solo l’origine ma limitando l’invasione di falsi prodotti similari, ma non uguali.
Io non scrivo per Monti. Scrivo per me e per la gente: per chi vuole leggere e discutere. Ma queste grandi associazioni che rappresentano tutta l’attività produttiva della provincia scrivono, e sabato manifesteranno, proprio per Monti e per il suo governo. Queste egli deve ascoltarle.

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