“Le città iblee dai Borboni all’unità d’Italia”. L’ultimo libro di Giuseppe Barone

“Le città iblee dai Borboni all’unità d’Italia”, è l’ultimo lavoro del professore Giuseppe Barone. Narra l’apporto delle città della ex contea di Modica all’unità d’Italia.
Se è vero che senza la conoscenza del passato non si può capire il presente e, sopratutto, non programmare il futuro quest’opera è indispensabile non solo per conoscere l’apporto del territorio ibleo all’unità d’Italia ma ancor più l’animo vero di questa gente che oggi è la provincia di Ragusa, la statura delle sue élites (per usare un termine caro al prof. Barone) e la passione della gente comune che in quello storico periodo diede prova di alto sentire e mostrò un coraggio e una fierezza che forse non riteniamo più possibile. Il libro, difatti, è un eccezionale spaccato della società della ex contea attraverso la narrazione degli eventi risorgimentali che la caratterizzano, inquadrate e orientate al cuore della trattazione: il processo che porta all’unità della nazione, passando ovviamente attraverso la straordinaria impresa di Garibaldi. L’unità d’Italia è nello sfondo; le idee liberali, come l’ansia mazziniana, vivono nelle aspirazioni e nei comportamenti dei protagonisti; gli avvenimenti scorrono davanti agli occhi dei lettori come cartoline che ci mostrano uomini e fatti locali, con la ovvia preminenza del capoluogo, ove figure come Francesco Giardina e l’abate De Leva dominano la scena nel contrasto delle idee e nell’accordo finale delle azioni atte al raggiungimento dell’obiettivo: la Sicilia liberata dai Borboni e consegnata all’Italia, federale, repubblicana o monarchica. A fianco la ricca città di Ragusa, dilaniata dalla lotta fra i due campanili: S. Giovanni e S. Giorgio. Attorno, sempre da protagoniste, Scicli, la prima a organizzare una forte guarnigione militare; Comiso, che invia la sua guarnigione a sollevare Vittoria contro i Borboni; Pozzallo, ove, chiusosi il ruolo di caricatore della contea di Modica, sorge un centro di traffici mediterranei che attirano investitori e famiglie che vi creano un largo traffico di velieri che portano grano, vino, carrube, granaglie e bitume nei paesi del Mediterraneo; Spaccaforno, da un pezzo libera dal giogo della contea, presenta una classe nobile in cui svetta la storica famiglia degli Statella, borbonici ma pronti ad abbracciare la causa dell’unità d’Italia; mentre altri, i baroni Modica, Alfieri, i Curto e i Gambuzza, conquistano il potere locale senza riuscire né a dividerselo né ad accordarsi sulla gestione; Vittoria, ove l’assenza di una nobiltà, spinge la borghesia agraria e delle professioni a prendersi la scena promuovendo iniziative di sviluppo infrastrutturali al servizio della produzione; Comiso, industriosa e scontenta, anch’essa da tempo affrancata dal dominio dei conti di Modica, ma che li ha inseguiti nelle riforme e li ha preceduti nelle iniziative economiche, vive un’intensa stagione di crescita. Anche Biscari ha il suo principe e vive la sua vita tranquilla aspettando la riscossa liberale.
Perché questa storia è vista e narrata nella vasta ottica dello storico che è Giuseppe Barone. Per lui questo secolo, il secolo XIX, è fatto dalle élites che guidano e a volte dominano le masse popolari e a volte soccombono davanti ad esse. Difatti prima della grande lotta per l’unità nel 1860, le città iblee vivono insieme rivoluzioni e insurrezioni. Il prof. Barone non chiama mai le grandi famiglie classe dirigente, salvo pochissimi casi a Modica e Ragusa. Credo sia perché egli non riconosce loro di avere svolto questo ruolo. Le élites, le famiglie emergenti per nobiltà o censo, sono al di sopra del popolo, ricoprono cariche, le esercitano in nome del padrone del momento, i Borboni, Ruggero Settimo e i Savoia, ma non sono mai vere guide, cioè classe dirigente, capace di capire i problemi della comunità, dirigerne le istanze verso obiettivi realizzabili, controllarne i movimenti, sedarne i moti eversivi. E questo appare chiaro nelle molte insurrezioni della prima metà del secolo.
I moti descritti da Giuseppe Barone non sono solo quelli politici del 1820, 1848, e 1860; c’è anche quello del 1836, provocato dalla psicosi del colera.
L’epidemia scoppiò in tutta Europa. Nel 1829 si ebbero i primi casi in Russia e in Polonia; nel 1831 in Inghilterra e nel 1835 scoppiò nella penisola. In Sicilia si contarono 70.000 morti. Al tradimento di Ferdinando I°, all’attività repressiva di Ferdinando II°, in Sicilia si aggiungono dapprima le idee liberali, poi quelle mazziniane che si vanno diffondendo rapidamente, e infine anche l’epidemia che semina terrore ma anche sospetti per la sua rapida diffusione. La rivolta scoppia a Palermo, ma Catania e Siracusa sono i punti più caldi. A Siracusa si uccidono alti funzionari. Interviene l’esercito napoletano: 750 arresti e 180 condanne a morte. Nella ex contea la rivolta scoppia nel capoluogo, subito dopo a Comiso e a Monterosso. La narrazione di quei fatti è impressionante. Comunque a Modica, quando interviene l’esercito, la rivolta è già sedata in parte per la paura delle condanne e un po’ per l’azione del notabilato. La rivolta invece infuria a Comiso e a Monterosso. Vanno a reprimerla i fedeli soldati napoletani Particolare interessante: a Monterosso vanno duecento svizzeri, rafforzati da cento gerratanesi. Gli stessi svizzeri riportano la calma a Vittoria.
Sono episodi che dimostrano da una parte le inquietudini del popolo, dall’altra la capacità o meno delle élites di essere classe dirigente in attesa di eventi più significativi. La descrizione di questi eventi come delle condizioni economiche e politiche dei singoli centri sono la premessa indispensabile per la trattazione centrale: la rivoluzione del 1848 e poi la guerra con Garibaldi nel 1860. Queste analisi descrivono in modo mirabile i caratteri delle comunità locali. Ma è ovvio che quelli su cui si appunta l’attenzione dell’autore e l’interesse dei lettori sono i moti politici. E sono molti.
Prima quelli del 1820. E’ il moto separatista guidato dall’aristocrazia palermitana, che difatti diventa una guerra civile perché ci sono comunità che non aderiscono ma restano fedeli al sovrano. Il 15 agosto la rivolta scoppia a Spaccaforno con incendi di palazzi e falò di ipoteche e censi. La vicenda è complessa e narrata con dovizia di particolari. Vittoria invece pensa ad altro. Per accogliere a Scoglitti velieri di maggiore tonnellaggio si procede a lavori di spianamento e prolungamento delle banchine del porto, costruzione di magazzini, ampliamento delle strade di collegamento. E per non gravare sulle finanze locali i proprietari “più illuminati”, ma anche più ricchi, si autotassano. Fatto, credo, interessante e generoso, che non credo abbia nella storia locale molti altri casi. E qui è descritta la seconda rivoluzione agraria che vive la giovane e dinamica città: la trasformazione delle colture, abbandonate carrube e grano, in vigneti, un terzo dell’intero suolo coltivabile di Vittoria.
Questa di Uccio Barone è veramente storia totale. L’obiettivo dello studio è la transizione dai Borboni ai Savoia, ma abbraccia il quadro sociale economico e politico delle città iblee.
In questo affresco si concentra il finale: l’impresa di Garibaldi e l’unificazione al regno d’Italia. Qui ci sono momenti che assurgono a livello di epica, e i personaggi a veri attori della storia: Francesco Giardina, l’abate De Leva, il barone Voncenzo Statella, Filippo Garofalo, Carlo Papa, Luciano Nicastro, i fratelli Mormina, Raffaele Scala. Dal primo comitato rivoluzionario costituitosi a Vittoria, scoperto e distrutto per le molte polemiche con i conseguenti processi e relative condanne, mentre si verifica il boom internazionale della vendita di vino, per cui “dalla parte dell’Ippari vino e Risorgimento vanno veramente a braccetto”, fino alle organizzazioni clandestine di Comiso e Modica. Poi la preparazione dei gruppi liberali e moderati che culmina nelle luminose giornate di maggio: il 16 a Ragusa Luciano Nicastro innalza il tricolore sulla cattedrale tra una folla plaudente; a Modica, presa di contropiede, si verificano le vicende, pressoché romanzesche, dei due gruppi, moderati e democratici, che conquistano il potere locale e varano le prime riforme, fra cui l’abolizione della tassa sul macino. Seguono Comiso, Vittoria, S. Croce, Pozzallo, Chiaramonte, tutte opera di una grande passione che non guarda a spese e a rischi. Mentre i vascelli della flotta pozzallese da Malta portano armi e gli esuli, con in testa Nicola Fabrizi, che, ospite a Modica dell’abate De Leva, gira nelle città per organizzare formazioni di volontari da inviare in soccorso di Garibaldi per la battaglia di Milazzo. Ma più che impresa dei Mille dopo Calatafimi non è forse ormai l’impresa dei siciliani quella con Garibaldi?
Il lavoro non finisce con la vittoria della rivoluzione e con i problemi dei vincitori, che per altro iniziano subito a litigare. Il prof. Barone prosegue con un altro capitolo a conferma che la storia non si esaurisce nella vittoria, ma ancor più importante è l’uso che di essa si fa: “Il circolo virtuoso dello sviluppo”, ove parla “dell’oro rosso, grano, miniere e banche”. E’ la vera conclusione. Ma è anche l’inno della storia al progresso civile ed economico delle popolazioni iblee.
Sottintesa è forse una domanda: ma ne valeva la pena? I moderati furono traditi perché il giobertismo fu messo completamente da parte, che anzi la Chiesa pagò il prezzo più duro; i democratici furono traditi perché fu instaurata la monarchia; i contadini perché le terre rimasero ai proprietari; il popolo perché le riforme furono revocate assieme alla tassa sul macino, che fu riconfermata dai governi sabaudi; i garibaldini perché non ammessi nell’esercito nazionale a differenza degli ufficiali borbonici che vi furono accolti; la Sicilia che ne uscì impoverita nelle sue risorse economiche; il Meridione sfruttato e depresso. Allora: ne valeva la pena? I sacrifici e gli ideali di tanti uomini non sono valsi a nulla? Il “generale tripudio” con cui fu accolta la bandiera tricolore il giorno in cui fu issata sul braccio di uno degli apostoli nella scalinata di S. Pietro era giustificato considerati i risultati che piombarono sulle popolazioni? Abbiamo motivi di continuare in questo tripudio?
Anche la risposta, come la domanda, non c’é. Ma è presupposta e presente in tutta la narrazione: ne valeva la pena. Perché è sorta una grande nazione, che può avere momenti difficili, ma che, ad onta dei tempi tristi e dei governanti mediocri, può sempre risorgere nel momento in cui uomini e valori come quelli del Risorgimento tornino a guidare ed indirizzare le speranze dei popoli.
Qust’opera è splendida anche per la stampa e le foto, accuratamente scelte da Luigi Nifosì. La Banca Agricola Popolare di Ragusa ha finanziato una iniziativa degna della sua tradizione. Ma il lavoro storico di Giuseppe Barone non può essere relegato nella bellissima edizione del centocinquantesimo anniversario celebrato dalla Banca. Credo che tutti abbiano il diritto di accedere a un testo unico, originale e splendido, che ricorda ed esalta gli uomini che nella nostra terra fecero la rivoluzione per fare l’Italia. C’è da augurarsi che il prof Barone voglia pubblicare il solo testo storico a beneficio di quanti vogliano sapere che cosa fu la popolazione della ex contea nel Risorgimento, che cosa voleva, che cosa produceva, quali erano le classi sociali che vollero l’unità e che cosa fecero per essa. La storia non è ricordo ma esaltazione attuale di avvenimenti che hanno segnato l’umanità. Forse, più che in altri tempi, in questi così tristi e decadenti, c’è bisogno di chi elevi la speranza che sorgano uomini e idee capaci di restituire alla società iblea quella dignità e capacità di risorgere che è stata a lungo la sua caratteristica primaria. Il libro del prof. Barone cedo che questo scopo lo abbia raggiunto.

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