Diffamazione a mezzo stampa. Come stanno realmente le cose? di Francesco Puleio

La recente sentenza con cui la Cassazione ha confermato la condanna a 14 mesi di un giornalista per diffamazione a mezzo stampa nei confronti di un giudice, è stata presentata come l’ennesima espressione di una tutela aberrante, apprestata dalla magistratura a sé stessa e resa possibile da un sistema penale autoritario, superato dalla storia e dalla coscienza civile della nazione ed in contrasto con le decisioni delle Corti Europee . Nessuna democrazia al mondo punisce – si afferma e si grida – con il carcere l’autore di un reato di opinione, bastevole essendo una sanzione pecuniaria.Stanno davvero così le cose? Non sembra. Nella civilissima Europa, molte sono le nazioni che puniscono con il carcere i diffamatori. In Francia le offese pubbliche a carattere discriminatorio sono punite con pena detentiva; in Germania la diffamazione è reato punibile con due anni di reclusione, e se avviene a mezzo stampa la pena sale fino a cinque anni. In Spagna il codice penale prevede una pena da sei mesi a due anni. Negli USA la diffamazione è punita con pena detentiva in 17 degli Stati federati. Insomma: chi, utilizzando le pagine di un giornale, denigra qualcuno ricorrendo ad affermazioni palesemente false, rischia la galera in buona parte del mondo cd. progredito. E la nostra legge, introdotta nel 1948 – il riferimento (pure sbocciato qua e là tra le tante gemme) alle leggi fasciste è dovuto all’ignoranza o alla malafede – prevede la pena della reclusione da uno a sei anni, oltre alla multa ed al risarcimento del danno. L’articolo contestato si intitolava: ‘Il dramma di una tredicenne. Il giudice ordina l’aborto’. Ora, è stato pacificamente accertato (ed ammesso – sebbene con ritardo – dallo stesso responsabile della menzogna) che la notizia pubblicata era falsa, dal momento che la giovane non era stata affatto costretta ad abortire, risalendo ciò a una sua autonoma decisione, e l’intervento del giudice si era reso necessario solo perché, presente il consenso della madre, mancava il consenso del padre della ragazza, la quale non aveva buoni rapporti con il genitore e non aveva inteso comunicare a quest’ultimo la decisione presa. Nel corpo del testo, si invocava tra l’altro, con toni da apocalisse (sulla base, si ribadisce, di una premessa consapevolmente falsa e cioè la coercizione all’aborto) la pena di morte per i genitori della minore, per il ginecologo ed il giudice. Si dice che la pena inflitta è severa. Ma la diffamazione a mezzo stampa è un reato della cui gravità forse non ci rendiamo sufficientemente conto: essere vittima di una gogna mediatica non è lieve né indolore e la sanzione prevista deve poter avere adeguata funzione deterrente. Non si tratta, come si dice in questi giorni, di una lesione del diritto di cronaca. Al contrario: per tutelare un diritto e riconoscerlo bisogna delinearne correttamente i confini, assicurarne il corretto esercizio, reprimere ogni abuso. È quando i confini sfumano e gli abusi sono tollerati che il diritto rischia di perdersi. La pena inflitta (14 mesi di reclusione) è vicina a quella minima prevista dalla legge e questo consente anche la sospensione dell’ordine di esecuzione, e l’applicazione di sanzioni alternative al carcere (semilibertà, affidamento in prova, ecc.) che sfumano la concretezza della sanzione in una mera dichiarazione di principio, mentre non risulta che analogo trattamento di favore venga riservato agli autori di furti nei supermercati. Ma più in generale: veramente si ritiene che la pena pecuniaria sia la più adatta per il reato di diffamazione a mezzo stampa? Non è che, così facendo, si conferisce (come a quei Romani della decadenza che giravano per il Foro accompagnati da uno schiavo con una borsa piena di quattrini, schiaffeggiando il prossimo e tacitando il malcapitato con un pugno di sesterzi) a chi possieda adeguati mezzi economici la libertà di insulto e di maldicenza e si consente la libertà di pianificare vere e proprie campagne stampa denigratorie? Con il rischio di esporre l’opinione pubblica agli smarrimenti della maldicenza elevata a sistema e di discriminare tra una stampa che ha alle spalle editori danarosi (e disinvolti) ed una stampa che è forte solo della correttezza del suo agire. Detto in altri termini: quando sono in gioco interessi milionari, quale efficacia deterrente può avere la pena pecuniaria? Proprio la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, all’art. 10 secondo comma (anch’essa impropriamente citata da qualche Catone), prevede che l’esercizio della libertà di stampa possa essere sottoposto a “formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.” Dunque, la sanzione detentiva non è affatto incompatibile nel sistema europeo di protezione dei diritti. Vero è il contrario: sanzioni che non fossero effettive e realmente dissuasive sarebbero in contrasto con la Convenzione europea. Ed uno dei beni che la Convenzione pone come limite alla libertà di manifestazione del pensiero è la garanzia dell’autorevolezza e della credibilità del potere giudiziario. La diffamazione di un magistrato per il modo in cui ha esercitato le sue funzioni – come nel caso di cui ci stiamo occupando – colpisce non il soggetto in quanto tale, ma l’intero ordine giudiziario nella sua funzione di arbitro, garante della legalità e tutore dei diritti in una società democratica. Si tratta quindi di un reato di specifica e particolare gravità in un sistema di democrazia evoluta.Concludiamo, dunque. Nessuna restrizione alla libertà di espressione costituzionalmente garantita può ravvisarsi nella sentenza della Cassazione ed improprio appare anche il riferimento alle decisioni della Corte di Strasburgo (che dicono ben altra cosa e svolgono distinzioni precise tra libertà di espressione e limiti che ogni legislatore nazionale può imporre alla stampa ed al diritto di libera manifestazione del pensiero dei suoi cittadini).

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