SCICLI. DIALOGO IMMAGINARIO DI UN GESUITA “CODINO” E DI UN SINDACO POSTMODERNO

Una sera fu visto, raccontano le cronache, a Piazza Italia dove s’affaccia la chiesa Madre di Sant’Ignazio, un uomo vestito di tonaca, dall’aspetto mite e timido, palliduccio e sparutino, invecchiato anzitempo, dalla cui faccia traspariva un misto di obbedienza devota e di attaccamento caparbio a una tradizione veneranda.
Aveva uno sguardo umano e compassionevole e in un’astratta contemplazione fissava la pompa sontuosa e mostruosa della costruzione che aveva davanti e che aveva sostituito l’antico collegio dei gesuiti. Che egli ricordava con grande malinconia, dove tutto si annidava tra stridi di rondini e il barocco dei palazzi nobiliari. Di ingegno generoso, testimone di una pensosa saggezza di vita, dotato di una maestria senza prosopopea o altezzoso sussiego, rimuginava il segreto dell’antico collegio, una peculiarità dei gesuiti propiziata dall’eredità controriformista. Ondeggiando tra la prudenza e la curiosità, accompagnato da una sorta di horror, s’imbattè in un signore che si qualificò come il sindaco della città. Una persona per se degnissima e un uomo pieno di dinamismo.
Il sindaco ammise di essere (sostenuto beninteso da compagni e amici) lo stratega di quella operazione sciagurata (la demolizione del collegio) che non è stata solo un sacrilegio, ma un’assurdità. Si iniziò tra i due un dialogo serrato. Il gesuita, sgombro da quel clericalismo aggressivo, irridente, pagano, che suona insulto a Cristo, ma con un atteggiamento di educata fierezza smaschera subito la cattiva coscienza del sindaco. Un fanatico della modernità che, arrampicandosi sugli specchi, disvela l’approccio culturale che lo spinse a trasformare l’antico collegio. Per questo sfodera un’eloquenza intrepida e prepotente, ma in fondo plateale e ostentata. Che grettezza di piccola bottegaia la sua autodifesa; che monotono emporio di frasi fatte, che banale spaccio di luoghi comuni, il suo. Un substrato ideologico che cozza contro l’evidenza, che è subdola, maledetta e sfacciata e non conosce freni e sensi unici, lei. Usa parole come pietre il gesuita nel rigido e inesorabile ministero della giustizia. Parole di fuoco che bruciano le motivazioni pretestuose e sempre più irrilevanti del sindaco.
Dice: il paese è la sua interiorità, la sua anima, non una reificazione culturale. Come mai è stato possibile attuare quella violenta, volgare operazione che ha lacerato irreparabilmente il tessuto urbano, grazie anche alla temerarietà di un architetto? che accettò con cecità deliberata e inaudita incoscienza di svuotare la cultura architettonica che, come si sa, è elemento unificante della cultura visiva di un paese?
Come ha potuto un architetto, ci si chiede, mettere mano a un progetto siffatto? E per soprammercato trasportare una costruzione di Brasilia (con la perdita dell’originario valore significativo) in un contesto così diverso, con una tecnica trasandata che ha distrutto il ritmo interno di una piazza? Procedendo col capo all’indietro come gli indovini danteschi? E che faceva la Soprintendenza? È inutile fare l’anagrafe dei nomi dei corresponsabili dello scempio perpetrato con schifiltosità ruvida e strepitante, ignorando il valore della grande tradizione dei collegi gesuitici. Dove si impartiva un insegnamento superiore, col privilegio della laurea in vari rami, da dove uscivano uomini celebri in tutte le scienze.
Così irriducibili postmoderni e spensierati policitiens hanno soffocato una centralissima zona urbana fatta di equilibrio, di ordine, di ritmo, di armonia. Spregiando la tradizione che “è sempre vecchia, e in pari tempo sempre nuova, perché di continuo rivive, rinasce ad ogni generazione, per essere vissuta e applicata in maniera sempre nuova, e creatrice, sempre originale, essa che dischiude sempre nuovi orizzonti a un vecchio viaggio”. Mentre la novità è del tutto priva di originalità, è una imitazione da schiavi che si racchiude su se stessa e porta alla sterilità completa. Ed ecco un edificio inelegante, sgraziato, ridicolo, goffo. Una truculenza di stile, tedioso, incapace di suscitare interesse, di destare l’attenzione, del tutto insignificante, monotono, opprimente, tutt’altro che suggestivo, impuro.
Lo stile non è acqua. Lei, signor sindaco – riprese il gesuita – glielo dico con profonda amarezza, è stato un vero dissacratore. A questo punto il sindaco turbato ma con malignità lieta e con ribrezzo del sillogismo, si prende la rivincita. Dice: abbiamo esposto per tanto tempo il modello agli sciclitani, ma non un solo cittadino ha presentato critiche o dissenso.
È vero, purtroppo; ciò che ha fatto dire a un sagacissimo spirito che gli intellettuali dell’epoca intenti a discettare sui massimi sistemi, non badavano a queste cose.
Resta il fatto però che un sindaco involontariamente iconoclasta, complice l’incultura filistea di un amministrazione irresponsabile, ha spento per sempre il fascino austero che promanava da un edificio che rapiva gli occhi non meno per la sua maestà che per la sua bellezza. Dunque lei, signor sindaco, è un piccolo Erostrato, colui che per odio metafisico incendiò l’Artemision di Efeso per passare alla storia. Nella sua collera sublime il religioso stava per dire: merita, signor sindaco, che si eriga in piazza una colonna infame per additare alla posterità questa vergogna. Un palazzone che è un vero obbrobrio. Ma si trattenne. Glielo impediva il suo essere cristiano e per giunta sacerdote.
Scomparve invocando anzi per il suo interlocutore zittito un misericordioso perdono. Non servono, no, pannicelli caldi, cioè interventi parziali e provvisori per restituire tutte le qualità, gli attributi, la chiarezza, la profondità, la misura che il collegio conteneva in sé.
Il gesuita pensava sicuramente alle celebri parole del generale della Compagnia che disse: “Sint ut sunt, aut non sint”. Pensava che occorresse una soluzione radicale: destruam et aedificabo. Una utopia
. R.

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