Magistratura e Politica una storia complicata dalla Costituente ai nostri giorni.

C’è un fenomeno che sta caratterizzando questa molto particolare fase politica italiana con al centro la formazione delle liste e dei soggetti politici in campo: l’imponente partecipazione di magistrati, tutti in attività ed impegnati in importanti ruoli nella funzione giudiziaria anche per le indagini o i processi che li vedono protagonisti. E’ un fenomeno che riguarda trasversalmente tutti gli schieramenti in campo.
La presenza di magistrati in politica, impegnati direttamente nelle competizioni elettorali ed eletti in parlamento, non è una novità. Sin dalla Costituente e dal primo parlamento democraticamente eletto nel 1948, una consistente pattuglia di magistrati è scesa in campo (faccio per esempio due nomi importanti come Oscar Luigi Scalfaro (DC), magistrato eletto alla Costituente nel 1946 e quindi sempre presente in parlamento fino alla sua elezione a Presidente della Repubblica e, successivamente, come senatore a vita, prerogativa degli ex presidente della repubblica, o come Bucciarelli Ducci (DC) presente in parlamento dal 1948 che divenne anche Presidente della Camera nel 1963 e finì la sua carriera come giudice costituzionale). Ma il fenomeno era marginale e riguardava in particolar modo i due maggiori partiti (DC e PCI) senza tuttavia creare scompensi e distorsioni significativi. Ciò fino al 1966, anno in cui venne approvata la c.d. legge Breganze(si tratta della legge con la quale la carriera del magistrato viene con avanzamenti automatici legati ai solo anni di servizio: si poteva rimanere a fare il Pretore nel più piccolo paese d’Italia e avanzare in carriera fino a magistrato di cassazione senzamai assumerne effettivamente le funzioni connesse ai diversi passaggi di carriera (insomma il Pretore dopo un po’ passava a magistrato di Tribunale e quindi a Consigliere di Corte d’Appello ed infine a Consigliere di Cassazione, pur rimanendo a fare il Pretore ed automaticamente, sulla base di un giudizio non negativo sul suo operato. Diciamo subito che i giudizi negativi, impeditivi all’avanzamento in carriera, erano praticamente in percentuale sempre vicina allo zero)). Fu l’anno cruciale il 1966, perché il CSM, sempre attento alle aspettative dei magistrati, si pronunciò in favore ad una estensione retroattiva della legge (e ciò comunque era nelle cose) ma soprattutto si pronunciò in favore alla sua estensione ai magistrati collocati fuori ruolo perché eletti in parlamento: ciò malgrado l’art. 98 della costituzione consentisse ai pubblici impiegati le promozioni solo per anzianità (quella norma il CSM aveva ritenuto fino ad allora riguardasse anche i magistrati). Con quella posizione del CSM il parlamento divenne un luogo più appetibile per i magistrati. Ricordano quelli che seguivano le vicende politiche del tempo e si occupavano di questioni attinenti alla magistratura che nel CSM, durante il dibattito che precedette quella risoluzione, non mancarono interventi nei quali si sottolineava che quella interpretazione era doverosa come giusto riconoscimento (gratitudine) del lavoro fatto dai tanti magistrati in parlamento perché venisse approvata la legge (una nota di colore: Oscar Luigi Scalfaro e Bucciarelli Ducci, che pure avevano svolto, prima di essere eletti, per pochi mesi le funzioni giudiziarie, si ritrovarono ad essere Consiglieri di Cassazione). La pattuglia dei magistrati quindi tra la fine degli anni 60 e gli anni 70 si ingrossò sempre di più ( e tra loro si segnalarono figure di grande spessore e prestigio. Ricordo per tutti Cesare Terranova, magistrato impegnato in importanti processi contro la mafia, eletto nel 1972 alla Camera come indipendente nelle liste PCI e quindi impegnato in parlamento nella commissione antimafia dove si distinse per i suoi sapienti e spesso inascoltati contributi sui rapporti mafia e politica, e che alla fine dei due mandati parlamentari ritornò nel 1979 a fare il magistrato come consigliere d’appello a Palermo, ma venne subito ucciso dalla mafia, assieme al suo fedelissimo agente di scorta Lenin Mancuso, a pochissimi mesi dal rientro in ruolo).
Ma erano altri tempi. Era la vituperata prima repubblica. Un po nei ranghi ci sapevano stare tutti e le forme istituzionali fondamentali si cercava di non distorcere.
Ma tra la fine degli anni sessanta e soprattutto negli anni settanta si affacciava un nuovo fenomeno che è quello dell’affermarsi delle correnti come componenti stabili edorganizzate dentro la magistratura. Il suggello alla legittimazione correntizia venne dato con la modifica del sistema elettorale per i componenti togati (i dure terzi dell’intero CSM) con la l. 22 dicembre 1975, n. 695 che prevedeva,per la prima volta, l’elezione per liste su base proporzionale ed in un collegio unico nazionale (successivamente i collegi diventarono quattro). Era il riconoscimento formale e di fatto che la rappresentanza della magistratura era affidata alle correnti. Quindi all’interno della magistratura si rafforzarono scenari per i quali i magistrati si organizzavano sulla base delle “affinità poitiche”. Si parlava infatti di correnti di sinistra (MD per esempio) , di centro (Unicost), conservatrici (MI). E questa connotazione politica si rifletteva nella vita stessa del CSM, dove le varie maggioranze erano di volta in volta formate dai componenti togati e dai laici sulla base dell’orientamento poltico. Non entro nel merito delle distorsioni che il sistema correntizio (pur riconoscendo almeno nella sua prima fase e nelle intenzioni il merito di aver sottratto la magistratura a forme di controllo interno basato sulle gerarchia o sull’oligarchia ed anche dato voce alle diverse e nuove sensibilità di un Paese in trasformazione) ha prodotto perché ci porterebbe fuori tema.
Il risultato è stato quello di avere una magistratura sempre più politicizzata e, a seconda della corrente, più o meno vicina a questa o a quella forza politica. Ed i magistrati divennero anche prezzi pregiati per i partiti da presentare nelle competizioni elettorali. Infatti il numero dei magistrati eletti al parlamento si impinguava sempre di più. Si arriva con questi scenari alla fine della prima repubblica. Fine che avviene per via giudiziaria a seguito delle inchieste di Milano e poi in tutta Italia. Se da un lato i risultati delle inchieste portaro in evidenza le derive anche delittuose del sistema dei partiti su cui si era retta la prima repubblica dall’altro legittimo fù il sospetto che molte di queste inchieste rispondessero a precise logiche politiche nella scelta degli obbiettivi da colpire e ancora di più in quelli da evitare: fu il frutto della collocazione politica, ostentata in alcuni casi, di molti magistrati titolari delle indagini ed anche d magistrati giudicanti. Il pedigree politico del magistrato veniva ricostruito sulla base della appartenenza a questa o a quella corrente dell’ANM, alla sua partecipazione (fenomeno sempre più frequente a partire da quegli anni) a manifestazioni politiche e di partito (sia pure nella veste di magistrato- giurista). Ma si assistettero anche inquietanti fenomeni di “comunicazione” diretta tra “magistrato e popolo” . Non mancarono momenti in cui i magistrati del pool di Milano si appellarono direttamente ai cittadini come per esempio nel 1993 quando per manifestare il loro dissenso su un decreto legge del ministro Conso convocarono una conferenza stampa rivolgendosi all’opinione pubblica (il danno lo completò l’allora Presidente Scalfaro – oddio! il magistrato di cassazione da sempre fuori ruolo per incarico parlamentare – che non firmò il decreto legge perché incostituzionale: era la prima volta che accadeva nella storia repubblicana). Questo episodio segnò una svolta (simbolica perché il processo era già i atto e si manifestava in tutta la sua evidenza) nel rapporto tra la magistratura e la politica. I magistrati “ufficialmente e come corpo” entravano nel gioco della politica determinando i destini delle coalizioni, dei partiti e delle leadership.
Sparirono quasi (sottolineo il quasi) tutti i partiti storici della prima repubblica sotto il peso delle inchieste e delle iniziative giudiziarie Milano, come in tutta Italia.
I magistrati impegnati in molti dei più importanti processi ed inchieste passarono direttamente alla politica. Il caso più evidente fu quello di Di Pietro, magistrato simbolo dell’inchiesta “mani pulite” del pool milanese. Ma non fu né l’unico ne il solo.
Con la seconda repubblica il numero dei magistrati in parlamento crebbe ancora (e tutti magistrati di rango e noti per le indagini di cui erano stati titolari e contitolari: il fenomeno ha riguardato soprattutto magistrati inquirenti, e questo dovrebbe indurre a riflettere).
Ma crebbe anche il conflitto tra la politica e la magistratura che si manifestò in tutte le direzioni. Sono gli anni dello scontro totale. Gli anni dell’avviso di garanzia (o mandato di comparizione come qualcuno vuole, con un formale distinguo, precisare) a Berlusconi in concomitanza con un importante vertice internazionale in Itala (che fu, causa anche se non esclusiva, delle dimissioni del primo governo Berlusconi a poco più di otto mesi dal suo insediamento e del conseguente primo “ribaltone” della nuova repubblica). Sono noti i fatti successivi ed è nota la cronaca degli ultimi anni dello scontro magistratura politica, soprattutto segnata dallo scontro tra una parte della politica (il centro destra in particolare) e la magistratura. Scontro dentro il quale hanno recitato la loro parte da protagonisti l’ANM e lo stesso CSM.
In questo clima negli ultimi anni è ancora di più cresciuto il numero dei magistrati presenti in parlamento o come “laici” nei diversi governi. Il fenomeno è assolutamente trasversale e riguarda tutte le forze politiche. Ma sono cresciute anche le occasioni di partecipazione attiva al dibattito politico dei singoli magistrati, con la partecipazione a convegni ed addirittura a manifestazioni di piazza. La gravità della situazione non è sfuggita al Presidente Napolitano per esempio che è oramai da anni (è stato il primo tra i Capi dello Stato e quindi anche come Presidente del CSM ad aver sollevato la questione ) che invita con interventi pubblici e nella sede deputata (il CSM) la magistratura ad auto correggersi soprattutto per dare una immagine pubblica di imparzialità ed indipendenza, sottolineando che la riservatezza e la sobrietà anche nella partecipazione al dibattito politico sono requisiti indispensabili. Da ultimo, lo scorso mese di aprile, davanti all’adunanza pubblica del CSM sollevò anche la questione dello svolgimento di ruoli ed incarichi politici, elettivi o non, da parte dei magistrati e del modo disinvolto con cui chi tali incarichi ha svolto torni alle funzioni giudiziarie con grave nocumento quantomeno alla immagine di indipendenza ed imparzialità del magistrato stesso. Il Presidente Napolitano sollecitò il parlamento ad intervenire con legge. Ovviamente l’appello del Capo dello Stato è stato assolutamente disatteso da tutti i destinatari: parlamento compreso.
Anzi la tornata elettorale in corso è la piena dimostrazione della deriva che sta prendendo la situazione.
Molti sono i magistrati (a partire dal capo della direzione nazionale antimafia) che scendono in campo nei diversi schieramenti politici e vengono esibiti dai vari leaders come trofei.
Ce n’è, tra costoro, uno che addirittura scende in campo come leader dopo aver diretto importanti indagini di rapporti mafia politica a Palermo, mi riferisco al dott. Ingroia.
Il caso Ingroia è emblematico: dopo aver avuto la scena (ed il palco per la verità) con le sue inchieste (ed anche molto delicate) che coinvolgono la politica, ..lascia baracche e burattini (cioè al loro destino le inchieste) , accetta per un paio di mesi di purgarsi in Guatemala, e torma come protagonista della vita politica contro quei soggetti nei confronti dei quali ha indagato (parlato e straparlato). Ora al di la della fondatezza o meno delle ipotesi di accusa del dottor Ingroia ed al di la della legittimità o meno del suo ingresso in politica, quale immagine di imparzialità ed indipendenza può ricevere la sua stessa inchiesta? L’immagine dico e cioè quella parte dello status di un magistrato il quale non solo deve essere imparziale, indipendente ed autonomo (i termini andrebbero approfonditi sul piano tecnico specie con riguardo alle funzioni requirenti) ma anche apparire tale.
Andiamo al punto quindi.
E’ tempo che il parlamento (il nuovo) si occupi della materia della partecipazione dei magistrati alla vita politica ed alla loro eleggibilità (la questione riguarda in parte anche gli avvocati). I magistrati sono cittadini “uguali” agli altri e non può essere limitato il diritto elettorale attivo e passivi. Hanno quindi il diritto di essere eletti e di partecipare alla vita politica nei limiti previsti dall’ordinamento giudiziario e dal codice etico (va ricordato che le norme dell’ordinamento giudiziario inibiscono ai magistrati a partecipare in modo continuativo ed organico all’attività di un partito politico e la violazione di questo precetto è prevista come illecito disciplinate esterno all’esercizio delle funzioni ai sensi dell’art. 3 lett. H del D.l.vo 109/2006, e che tale inibizione, secondo una sentenza della sezione disciplinare del CSM (caso Bobbio) su estende anche ai magistrati collocati fuori ruolo.
La delicatezza della funzione e l’esigenza di garantire non solo la loro indipendenza e imparzialità ma anche l’immagine pubblica di indipendenza ed imparzialità dei magistrati ( e, a questo punto, direi, della magistratura) esige, a costituzione vigente, una limitazione ragionevole al diritto all’elettorato passivo dei magistrato. Dico la mia in proposito: innanzitutto va ribadita la esclusività delle funzioni giudiziarie, in secondo luogo andrebbe disciplinata ‘l’eleggibilità del magistrato partendo dal presupposto che il magistrato che intende partecipare alle elezioni dove dimettersi dalla magistratura almeno sei mesi prima (o in caso di scioglimento anticipato della legislatura entro la convocazione dei nuovi comizi elettorali), andrebbe prevsto che il magistrato non eletto può ritornare a svolgere le funzioni in un distretto diverso e neppure limotrofo a quello in cui si è presentato, che il magistrato eletto alla fine del mandato parlamentare non può ritornare alle funzioni giudiziarie (trovando una soluzione nella possibilità di transitare alla dirigenza statale anche in sovrannumero).
Ma occorrerebbe pure intervenire per legge sul fenomeno, oramai insopportabile, del collocamento fuori ruolo per lo svolgimento di incarichi di governo o incarichi nell’amministrazione limitando lo svolgimento di tali funzioni ai magistrati per le implicazioni che ciò comporta sull’indipendenza e sulla separazione dei poteri. Questo tema aprirebbe nuovi argomenti che semmai mi riserv0o per altra occasione, per non tediare chi legge.
Dicevo degli avvocati. Credo che anche l’elezione degli avvocati al parlamento andrebbe regolamentata. Gli avvocati non abbiamo un problema di “imparzialità” (siamo parziali per definizione e per funzione). Ma un problema esiste e sarebbe legato alla partecipazione alla formazione delle leggi che avrebbero diretta applicazione nelle cause (civili, penali o amministrative non importa) con conseguente conflitto virtuale di interesse. Dovrebbe prevedersi l’incompatibilità tra la funzione parlamentare e la professione di avvocato (come avviene per il CSM). L’avvocato eletto si sospende dall’ordine fino alla fine del mandato parlamentare. Si eviterebbero quelle scene inquietanti come quella di un noto avvocato milanese difensore di una dei più illustri imputati della storia giudiziaria italiana uscendo dall’aula a voce alta per essere sentito da tutti, non contento dell’applicazione di una norma da parte dei Giudici, diceva “cambieremo in parlamento la legge”. Ed inoltre si eviterebbe quella che appare come una “posizione di oggettivo vantaggio” dell’avvocato (o professionista) parlamentare rispetto ai loro colleghi. Direi che la regola andrebbe applicata sulla base del principio di esclusività della funzione parlamentare e l’incompatibilità dello status di parlamentare con l’iscrizione ad un albo o ordine (vale per gli avvocati come per i notai, i commercialisti etc)..

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