DEI TERREMOTI, DEL GABINETTO IN SALOTTO E D’ALTRO ANCORA(noterelle un po’ per celia e un po’ per non morire su talune pronunce giurisprudenziali)

salvatore rizza. jpegAmmettiamolo pure,‘stavolta Berlusconi non c’entra: i giudici stanno facendo tutto da soli per screditarsi. Insomma, in questi ultimi tempi non si sono fatti ammirare per talune decisioni decisamente azzardate sotto l’aspetto dottrinario e per la conduzione dei processi (tralascio i magistrati che fanno politica perché meritano una trattazione a parte) . E poiché, da quel che appare, non si tratta di casi isolati e circoscritti, conviene, forse, esaminare il fenomeno per trarne, come ci capita di fare, qualche considerazione extra moenia.
Cominciamo, dunque, con la sentenza resa dalla Corte di Assise d’Appello di Perugia, nel processo per l’uccisione di Meredith Kercher, che è stata letteralmente spazzata via dalla Cassazione. Si badi, l’aspetto inusitato del fatto non sta nell’annullamento della pronuncia che può considerarsi un evento fisiologico nell’italico sistema dei gravami. È, invece, il tono sorprendentemente aspro usato dal Procuratore Generale, che, nella sua requisitoria, è arrivato a definire la sentenza di assoluzione “un monumento di illogicità”, quello che qui interessa.
Le sentenze, come si usa proclamare solennemente negli ambienti forensi, non si criticano; si impugnano o si riformano. Invece, nel nostro caso, a quanto pare, il Procuratore Generale sembra abbia perso le staffe, lasciandosi andare a giudizi non propriamente lusinghieri sulla conduzione del processo da parte della Corte di merito.
A questo punto, azzardo anch’io le mie perplessità su alcune recenti sentenze che, con buona pace della giaculatoria di cui s’è detto, appaiono decisamente problematiche quando non anche bizzarre.
Degna di nota mi pare, anzitutto, la sentenza del 22 ottobre dell’anno scorso, con la quale il Tribunale dell’Aquila ha condannato, per omicidio colposo, i componenti della Commissione Grandi Rischi, ai quali si imputava di non aver avvertito chi di dovere del prossimo verificarsi del terremoto che colpì l’Abruzzo il 6 aprile 2009, limitandosi a fornire, al riguardo, informazioni “imprecise e incomplete” (testuale). In buona sostanza, si rimprovera agli imputati di essersi limitati a dire che da quelle parti c’era rischio di terremoto, senza specificare il giorno e, magari, l’ora in cui esso si sarebbe verificato .
L’incolpazione è davvero singolare e non si comprende su quali argomentazioni si regga, ove si consideri che non v’è barba di scienziato che possa prevedere, senza l’ausilio della palla di vetro, quando si verificherà un terremoto e quale sarà la sua intensità. Si tratta, insomma, di un evento di competenza esclusiva del Padreterno, il quale, di tanto in tanto, se ne serve per ricordare all’uomo che è un povero disgraziato.
Orbene, che fa l’uomo? Se è un giapponese, fa l’unica cosa che un essere sensato, ancorché povero disgraziato, possa fare: costruisce le case utilizzando rigorosi criteri antisismici e, per il resto, attende che il terremoto arrivi e si sbizzarrisca come gli pare. Ciò fa si che, nel novantanove per cento dei casi, tutto si risolva nell’usuale balletto sussultorio e/o ondulatorio, dopodiché la vita riprende come prima.
Se invece l’uomo è italiano, le cose cambiano. L’italiano è furbo e navigato. È, insomma, un uomo di mondo. E un uomo di mondo sa che ciò che importa non è evitare o attenuare le conseguenze lesive dell’evento sismico, quanto trovare un responsabile cui addebitare il disastro. Perciò, invece di sprecare soldi per mettere in sicurezza il territorio, l’italiano crea una commissione. La commissione, com’è noto, non serve a niente, ma consente, in compenso, di lucrare cospicui emolumenti e, soprattutto, di trovare, in caso di terremoto, i responsabili dell’inevitabile disastro che ne conseguirà. Nel nostro caso, i responsabili saranno, per l‘appunto, i componenti della commissione medesima, ai quali una imperturbabile pubblica accusa contesterà il surreale capo d‘imputazione di cui s’è detto, cui seguirà l’altrettanto surreale sentenza di condanna. Nulla di grave, per carità, visto che la condanna è destinata a perdersi nel gran calderone della prescrizione. Restano i morti. Ma quelli, si sa, in un modo o nell’altro se ne dovevano andare. Giorno più, giorno meno ….
Nel frattempo, gli scienziati componenti la Commissione Grandi Rischi – anch’essi uomini di mondo – per evitare il rischio di una futura ulteriore condanna, hanno pensato bene, d’ora in poi, di dar per certo il terremoto tutte le volte in cui se ne paventerà il verificarsi nel raggio di mille chilometri.
Detto fatto, la trovata è stata brillantemente collaudata in occasione del recente terremoto in Garfagnana. Nel senso che, in realtà, il preannunciato evento non s’è verificato. In compenso, è stato sufficiente l’annuncio per creare l’inferno con conseguente fuggi fuggi generale a causa del panico diffuso tra la popolazione interessata, ancora scossa per i 309 morti del terremoto dell’Aquila. È finita che qualche poveraccio, nella confusione che ne è seguita, c’è pure rimasto secco per la paura. Ma nessuno, ‘stavolta, ha potuto accusare la benemerita commissione di negligenza. A pensarci bene, semmai, c’è stato un eccesso di diligenza. Anzi, per la verità, anche ‘stavolta, la notizia era “imprecisa e incompleta”, sicché, per dirla tutta, l’aver dato per certo il verificarsi di un terremoto in realtà non avvenuto configura il reato di procurato allarme (art. 658 c.p.), che avrebbe dovuto – questa volta, si! – essere contestato ai componenti della commissione. O mùtos deloi … La vicenda dimostra che i terremoti creano sconquassi, non solo nelle case, ma anche nelle teste dei giudici, visto che qualcuno di loro è caduto dalla padella di un reato contestato ancorché insussistente, nella brace di un reato sussistente, ma non contestato.
Un’altra sentenza degna di nota è quella che, il 12 febbraio di quest’anno, ha condannato il generale Pollari, già comandante del Sismi e il suo vice, rispettivamente a 10 e a 9 anni di reclusione, perché riconosciuti colpevoli di concorso con agenti della CIA nel sequestro di persona dell’imam di Milano Abu Hassan, avvenuto il 17 febbraio 2003.
Non stiamo qui a discutere se e in che modo i due illustri imputati abbiano effettivamente collaborato con gli agenti della CIA nel rapimento del buon imam. Ciò che qui interessa è che sull’intera vicenda è stato ripetutamente eccepito, senza esito, da parte dei tre ultimi governi (Prodi, Berlusconi e Monti), il segreto di Stato. Anzi, il Consiglio dei Ministri, l’8 febbraio scorso, constatato che la Corte di Appello intendeva proseguire il processo, ha deliberato di proporre alla Consulta il conflitto di attribuzione. Ciò nonostante, la Corte d’Appello, sul solco dalla sentenza con cui la Cassazione, il 22 settembre dello scorso anno, ha frattanto condannato gli agenti della CIA (ritenuti responsabili di “un atto illegale che ha violato la sovranità territoriale e delle leggi italiane”), ha deciso di tirar dritto ed è pervenuta alla pesantissima condanna di cui s’é detto. Ciò ha fatto, disconoscendo, in buona sostanza, non solo l’opponibilità del segreto di Stato, ma anche l’utilizzabilità dei cosiddetti “USA PATRIOT Act” (acronimo che designa quegli atti che, pur non essendo propriamente legittimi, sono, tuttavia, ritenuti indispensabili per la sicurezza nazionale) in nome dei limiti imposti da non meglio specificate “operazioni rientranti nelle finalità istituzionali del servizio”. Tra queste, a quanto pare, non rientrano le operazioni tese a rendere in ogni modo innocui individui considerati pericolosi per la sicurezza mondiale. Ma queste sono proprio quelle “finalità istituzionali di servizio”che giustificano l’esistenza dei servizi segreti. Ciò è tanto vero che l’USA PATRIOT Act è nientemeno che una legge federale emanata dagli Stati Uniti d’America a seguito dell’attentato dell’11 settembre 2001, con lo scopo di combattere il terrorismo internazionale. Non solo, ma “le finalità istituzionali del servizio” (non a caso, “segreto”) sono, in tutto il mondo, proprio quelle che giustificano la extraordinary rendition, ovvero, per dirla in parole povere, il rapimento di soggetti considerati pericolosi. Va, poi, aggiunto che la extraordinary rendition è stata largamente praticata nel passato (valga, per tutti il rapimento, avvenuto nel 1960 in Argentina, con l’unanime plauso della comunità occidentale, del criminale nazista Adolf Eichmann, ad opera di agenti di Israele).
Con il che si ricava che la Cassazione sembra si sia, questa volta, intorcinata su sé stessa, facendo rientrare dalla finestra quel che aveva fatto uscire dalla porta. In primo luogo, perché ha dimenticato di rilevare che un’operazione come quella di cui stiamo parlando doveva necessariamente essere conosciuta dai vertici dello Stato italiano, Ministro dell’Interno e Presidente del Consiglio in testa, che, dunque, andavano, quanto meno, doverosamente indagati (come si suol dire, “non potevano non sapere”…). In secondo luogo, delle due l’una: o si ammette che in certe situazioni di emergenza è consentito il compimento di atti, considerati, in condizioni normali, illegittimi dall’ordinamento interno (il divieto di uccidere, com’è noto, non vale, oltre che nel caso di guerra, che è la cosa più sporca del mondo, anche nel caso di legittima difesa) e, dunque, anche tali atti rientrano nelle finalità istituzionali del servizio (in questo caso, militare), ovvero non lo consente e, in tal caso, non ha senso mantenere in vita, non solo i servizi segreti, ma anche le forze armate in genere.
Quanto ai servizi segreti, sono segreti perché debbono fare cose che, pur essendo “sporche”, sono indispensabili per l’umana sopravvivenza e non debbono esser rese note. Sono, insomma, come i gabinetti nelle case di abitazione: tutti sanno che esistono, ma nessuno ne parla e nessuno, tanto meno, ha mai sostenuto che vanno aboliti perché in essi si compiono atti che non è lecito compiere in salotto. Se così non fosse, del resto, non avrebbe senso neanche il cosiddetto segreto di Stato.
In conclusione, il generale Pollari e il suo vice sono stati dichiarati colpevoli in quanto capri espiatori di un ipocrita (e ignaro) legittimismo in forza del quale si disconosce l’esistenza di norme che, come quella che impone il segreto di Stato, giustificano attività svolte nell’ambito di “finalità istituzionali” per così dire atipiche.
Colpevoli, naturalmente, perché si sono imbattuti in un giudice che, in barba al segreto di Stato e al conflitto di attribuzione, ha trasportato il gabinetto in salotto.
Termino con l’incidente verificatosi nel processo per l’omicidio Scalzi, in cui la presidente della Corte di Assise di Perugia, si è fatta sorprendere mentre, a microfoni accesi, indugiava, con la collega a latere, in amabili conversari, nel corso dei quali venivano espressi giudizi non propriamente asettici sul comportamento processuale di alcuni imputati. La situazione, già di per sé intuitivamente compromessa, è ulteriormente peggiorata con il rigetto della domanda di astensione che pure era stata presentata dalle poco accorte componenti togate del collegio, dal momento che il provvedimento di rigetto mal si concilia oltre che con il tenore delle frasi incriminate, con il disagio manifestato da chi aveva, proprio per questo, chiesto di astenersi.
Domanda finale: che sta succedendo ai giudici?
Non sarebbe, forse, ora di cambiare un sistema di reclutamento che sembra far acqua da tutte le parti?

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