Modica, Via Trani…. Aspettando la malaria

paolo oddoTrani è una ridente cittadina della Puglia, da qualche anno capoluogo di provincia in condominio con Barletta e Andria, che forse nemmeno sa di avere dato il nome, a Modica, ad una delle più tormentate e tormentose strade dell’ex Contea. Quando decisero di farne una strada alternativa alla Via Nazionale (‘a çianata râ Surda) – con una decisione già di per sé storica perché in questo posto gli amministratori preferiscono farsi spellare vivi piuttosto che aprirne una, fosse solo di dieci metri – si accorsero che il progetto prevedeva l’abbattimento di un vano che si trovava, così, parcheggiato in sosta vietata. E in un siffatto loco, già capitale di una Contea dove ogni cavaliere, vassallo, massaro o guardiano di porci faceva il suo bravo mestiere senza giammai aspirare a diventarne amministratore, ci si convinse che il diritto del singolo fosse prevalente su quello comune e che il locale dovesse rimanere lì, a sfidare i secoli, il diritto e le palle dei transitanti. Nella parte di questa strada, che collega la Via San Giuliano con la Via Nazionale, attraversante nel suo percorso un torrente naturale, vi fu decisa la costruzione di un condominio, proprio a cavallo dell’alveo di questo torrente e che ebbe, a detta dei costruttori, dei proprietari del terreno, della Sovrintendenza, della Forestale, del Genio Civile e infine del glorioso Ufficio Tecnico del Comune di Modica tutti i permessi per poter portare a termine l’opera. Sembrava che mancasse solo – ma non richiesto perché non previsto – l’Alto Patrocinio del Presidente della Repubblica.
Alle proteste di chi abita già sul posto, in condomini costruiti sull’alveo (ma tant’è), che adombrava un rischio idro-geologico, si rispose che le carte davano l’occhei e del resto la zona era stata dichiarata edificabile. Carte o non carte, la Procura decise di sequestrare il cantiere e di far interrompere tutti i lavori in attesa di chiarimenti dall’esito di ulteriori indagini.
Le abbondanti piogge dello scorso autunno e lo sbancamento di quasi due metri sotto il piano del cavalcavia hanno portato alla luce un rivolo dalle incerte origini e natura. Di cosa sia fatta quest’acqua e da dove provenga resta uno di quei misteri che si aggiunge a quello della scomparsa dei Maya, alla costruzione del cerchio megalitico di Stonehenge, alla funzione delle teste dell’Isola di Pasqua e all’utilità di quelle che frequentano l’Ufficio Tecnico di Palazzo San Domenico. Dopo mesi di “scorrimento” e la scopertura di un pozzetto d’ispezione (vedi foto) nei quali – sembrerebbe – si incanalino, con un inciucio d’attualità, acque bianche e nere, mai più richiuso, si sviluppano odori e larve di zanzare con una frequenza e un’intensità che dovrebbe preoccupare l’Ufficio Igiene.
Sarebbe utile, anzi necessario, che la Procura desse il permesso per accedere ai luoghi e chiudere questo “puzzetto” d’ispezione e, magari, ordinare di ricoprire con terra, almeno, quella parte dell’alveo che ha portato alla luce una perdita storica.
Alla fine, se prevenire è meglio che curare, e se non si può curare è meglio lenire, è giusto che si adottino, almeno, queste misure.
L’estate, benché ritardataria, incombe, come le zanzare tigre convinte, ormai, che non ci siano domatori sulla piazza.

articolo pubblicato l’8 luglio 2013 sul mensile La Pagina

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