CORTE COSTITUZIONALE E SATRAPIA di Salvatore Rizza(da Dibattito)

salvatore rizza. jpegDue recentissime sentenze della Corte Costituzionale mi offrono l’occasione per alcune considerazioni extra moenia sul modo d’interpretare la Costituzione da parte dei tuttologi e sulla nefasta influenza di certa tuttologia mediatica su quello che viene in genere chiamato il comune modo di pensare e, in particolare, sui congegni che contribuiscono al formasi della pubblica opinione. La prima sentenza alla quale mi riferisco (per l’esattezza la n. 106 del 2013) riguarda i cosiddetti “riservisti”, ovvero coloro che, nei pubblici concorsi, beneficiano della riserva di un certo numero di posti, destinati ad essere ricoperti dai concorrenti in possesso di specifici requisiti legittimanti.
Nel nostro caso, la Consulta, accogliendo integralmente la questione egregiamente prospettata dal dott. Fiorentino, all’epoca giudice del lavoro presso il Tribunale di Modica (la notizia viene commentata in altra parte del giornale), ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 7, 1 co, della L.R.S. n. 27 del 1991, laddove, tra i requisiti necessari per conseguire il diritto alla riserva, richiede, tra l’altro, che il candidato, non solo abbia partecipato per non meno di 180 giorni alla realizzazione dei cosiddetti “progetti di utilità collettiva” di cui alla LRS 67/88, ma anche che risulti “in servizio alla data del 31 ottobre 1995”.
Con riguardo a tale ultimo requisito, rileva la Consulta che, seppure è vero che “il legislatore può e deve fissare un termine certo per delimitare l’ambito soggettivo di applicazione della disciplina” , è anche vero che “il modo con cui detto termine è stabilito non può essere irragionevolmente discriminatorio”, così come avviene quando, come nel caso di specie, si tratta di un termine che, essendo fissato in via “puntuale”, vale a dire “riferito a una specifica data, … favorisce in modo arbitrario e irragionevole l’occupazione di alcuni soggetti in danno di eventuali altri che, ancora iscritti nelle liste di collocamento, avrebbero potuto anch’essi beneficiare della riserva per tutto il periodo in cui la disciplina è rimasta in vigore”. Ciò, a giudizio del remittente e della Corte, comporta la violazione dell’art. 3 della Costituzione.
È evidente, in sostanza, che la inopinata norma finisce per fare l’identikit del concorrente privilegiato, discriminando senza alcuna plausibile ragione sostanziale, tutti gli altri concorrenti, perfino quelli che, pur in possesso, in ipotesi, di una professionalità maggiore dei concorrenti favoriti, non hanno la ventura di figurare tra quelli in servizio alla data fatidica del 31 ottobre 1995. Se si considera, poi, che tale data venne fissata nel 1996, vale a dire dopo che il requisito si era realizzato e si conoscevano coloro che potevano fruirne, si comprende bene come l’identikit sia estremamente somigliante al “soggetto tipo” che s’intendeva favorire.
Tralascio, per carità di patria, ogni considerazione sugli escamotages escogitati in genere da un sindacalismo che sembra non gradire la selezione basata sulla valutazione del merito e adottati ormai da vari decenni per evitare l’espletamento di pubblici concorsi seri (pur previsti espressamente dall’art. 97, 3° co. della Costituzione per l’ingresso nella pubblica amministrazione), che rendono difficile l’assunzione per titoli e pedate. Mi limito a rilevare che un tal modo di procedere ha certamente contribuito ad abbassare il livello di efficienza della pubblica amministrazione. In questa sede sarà, comunque, sufficiente rilevare che, nel nostro caso, il legislatore regionale si è letteralmente inventato fantasiosi e non meglio precisati “progetti di utilità collettiva”, in genere inutili o rientranti nella normale attività già svolta nell’ambito del pubblico impiego, per consentire a un precariato in attesa di sbrigativa sistemazione di conquistare il posto di lavoro attraverso selezioni concorsuali in realtà meramente formali e, comunque, utilizzando comode scorciatoie, precluse a chi non è politicamente inquadrato. Tale profilo d’indagine, per la verità, non sembra sia stato finora sufficientemente preso in considerazione tutte le volte in cui il giudice di merito o la stessa Corte Costituzionale si sono trovati di fronte all’ espediente, in uso soprattutto in ambito regionale, con il quale sempre più di frequente vengono trasformati incarichi lavorativi a termine o, perfino, libero-professionali in assunzioni a tempo indeterminato. Ma questa è un’altra storia. Nel nostro caso, come s’è detto, la Consulta, facendo propri i puntuali rilievi formulati dal giudice remittente, ha, comunque, dichiarato l’incostituzionalità della norma, ritenendo, a ragione, che essa crea una “irragionevole disparità di trattamento tra soggetti che dovrebbero trovarsi nella eguale possibilità di usufruire di una disciplina diretta a favorire l’occupazione e a non disperdere il patrimonio di professionalità formato sia con fondi statali, sia con fondi regionali”.
Il termine “irragionevole”, individua, come si vede, la regola iuris utilizzata dal giudice delle leggi per pervenire al giudizio d’incostituzionalità. Si tratta, per l’appunto, del principio di ragionevolezza, che, com’è noto, sta alla base della motivazione (a proposito: a quando l’allegra e sbrigativa motivazione “sintetica” delle sentenze della Corte Costituzionale ?) tutte le volte in cui il giudizio di costituzionalità di una legge, o, ancor più, la decisione sui conflitti di attribuzione, impongono un bilanciamento tra due opposti principi o poteri di pari rango costituzionale. In altri termini, esclusa una prevalenza intrinseca di una delle due norme o di uno dei due poteri in conflitto, la valutazione va fatta verificando, di volta in volta, in concreto, le ragioni che impongono la contingente compressione di un principio o potere in favore dell’altro. Ciò, naturalmente, comporta che i valori di civiltà giuridica cristallizzati nella Costituzione vanno valutati e applicati, per l’appunto, secondo il fondamentale parametro della ragionevolezza, che fa da interfaccia tra l’astrattezza della norma e la concretezza dei comportamenti e trova la sua massima espressione nell’art. 3 della Carta e, in particolare, nel divieto di dar vita a ingiustificate e arbitrarie disparità di trattamento (cfr., segnatamente, le sentenze n. 88 del 1995 e 525 del 2000 ).
Un compito delicatissimo, quello affidato alla Corte, chiamata a giudicare inappellabilmente l’attività dei massimi poteri dello Stato, proprio laddove questa diviene irragionevole (perché arbitraria) ovvero conflittuale, tanto più che, come previsto dall’art. 28 della legge n. 87 del 1953 il controllo esercitato dalla Corte sui poteri dello Stato, specie, per l’appunto, quando impone il ricorso al principio di ragionevolezza, che ha natura metagiuridica ed è argomentabile sul piano eminentemente logico, “esclude ogni valutazione politica ed ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”. Va da sé che lo stesso divieto dovrebbe valere quando si tratta di valutare le sentenze della Corte. E qui, come si suol dire, casca l’asino, giacché, mentre la Corte si è sempre rigidamente attenuta al precetto di legge, non altrettanto è stato fatto dai soggetti interessati dalle sentenze da essa emanate, specie quando si è trattato di dirimere i conflitti tra potere giudiziario e potere esecutivo, ovvero, per dirla tutta, quando i massimi organi statuali, soggetti al giudizio dell’ordine giudiziario, mal sopportano le decisioni non gradite. È, questo, il caso trattato nella seconda sentenza (la n. 168/2013).
Sto parlando, ovviamente, della vicenda che, di recente, ha dato vita alla pronuncia della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzioni sollevato dalla difesa di Berlusconi, all’epoca presidente del Consiglio, nel processo Mediaset, a seguito del rigetto della ennesima richiesta di rinvio. In tale occasione, il tribunale di Milano motivò il rigetto rilevando che, dopo ben tre successivi rinvii (richiesti, per motivi politici, dall’imputato–Presidente del Consiglio, il quale, peraltro, non era mai comparso alle udienze che erano state in precedenza tenute), la quarta udienza, fissata, a seguito dell’ennesima richiesta di rinvio, per l’appunto alla data del 1° marzo 2011, era stata prescelta dallo stesso imputato e accettata pro bono pacis dal collegio, il quale, ciò nonostante, qualche giorno dopo apprendeva dai difensori che, sempre l’imputato, nella veste, questa volta, di capo del Governo, aveva pensato bene di riconvocare il Consiglio dei Ministri alla stessa data del 1° marzo, così facendo insorgere strumentalmente l’impedimento a comparire. Constatato ciò, il diniego venne dal tribunale motivato sul rilievo che l’imputato non aveva provato “la specifica e inderogabile necessità di sovrapporre i due impegni” e che, a tal fine, la nuova istanza di rinvio avrebbe, semmai, avuto senso – vale a dire, sarebbe stata “ragionevole” – solo nel caso in cui fosse stata data plausibile contezza dei motivi che avevano impedito al Capo del governo–imputato di spiegare le ragioni per cui non era stato possibile rifissare la seduta ministeriale a data diversa da quella precedentemente indicata dall’imputato–Capo del governo, per l’udienza (la quarta di seguito) di rinvio.
La Corte, come si vede, ha ritenuto l’obiezione fondata, utilizzando, anche in questo caso, il discrimine della ragionevolezza.
Nondimeno, mentre la prima sentenza è, com’è logico che sia, passata inosservata, per mancanza di interesse mediatico, la seconda è stata largamente commentata dai tuttologi – ossia da coloro che sanno quasi tutto di quasi niente – che, rimanendo influenzati dalle vibrate poteste dell’imputato e dei suoi difensori, hanno, in larga parte, ritenuto il provvedimento ingiusto, persecutorio e perfino errato in punto di diritto. Particolarmente gravi le dichiarazioni rilasciate dagli avvocati Ghedini e Longo, a dire dei quali “la preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica [sic!]”, per cui la decisione della Consulta “fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto”. A dire di un deputato del Pdl la Corte Costituzionale sarebbe – udite udite – un “organo politico” e c’è, infine la deputata Biancofiore (nomen omen?) che minaccia di ricorrere alla Corte di Strasburgo (magari lo facesse! scoprirebbe, se non altro che nel diritto processuale esiste un oggetto misterioso chiamato legittimazione).
Si tratta, com’è noto, del tam tam mediatico che, pur di far passare Berlusconi come la vittima designata di una feroce persecuzione giudiziaria, non si fa scrupolo di includere tra i persecutori, finanche la Consulta, la quale ha detto ben altro rispetto a quello che pretende di farle dire un collegio difensivo che ormai è arrivato al vaneggiamento. La Corte, in particolare, non si è mai sognata di affermare la preminenza del potere giudiziario su quello esecutivo. Ha detto, invece, che, ferma restando la loro reciproca autonomia nei rispettivi campi d’azione, nessuno dei due può arbitrarsi di prevaricare sull’altro e che, pertanto, il rinvio dell’udienza, pur richiesto per la quarta volta di seguito, da un imputato che riveste anche la carica di capo dell’esecutivo, può e deve essere accolta, all’unica condizione, tuttavia, che vengano contemporaneamente spiegate le ragioni che hanno imposto di rinviare la riunione del consiglio dei ministri proprio alla stessa data in cui, su indicazione dello stesso presidente–imputato, era stato già in precedenza rinviato il procedimento penale. Ragionare diversamente e ritenere che il presidente del consiglio dei ministri, in quanto tale, possa impunemente e insindacabilmente gestire il processo che lo riguarda come imputato fino al punto di portarlo, a seguito di ingiustificati rinvii, alla prescrizione, è “irragionevole” e, pertanto costituisce pretesa contrastante con la Costituzione. Una pretesa, del resto, che si era tentato spudoratamente di blindare con la legge n. 51/2010 (cosiddetto Lodo Alfano), dichiarata incostituzionale in parte qua, con sentenza della Consulta del 3 gennaio 2010.
Altro che persecuzione giudiziaria! Qua siamo al cospetto del tentativo di sovvertire i principi costituzionali e democratici, per fare di chi governa un satrapo che non deve render conto ad alcuno, libero di fare i propri comodi, quale che sia la sua posizione nell’assetto sociale e ordinamentale.
Un tentativo portato avanti con ogni utile mezzo, compreso quello di condizionare la pubblica opinione creando un pensiero dominante fondato sulla eversiva manipolazione della notizia.

Condividi su facebook
Facebook
Condividi su twitter
Twitter
Condividi su whatsapp
WhatsApp
Condividi su email
Email
Condividi su print
Stampa