Si racconta – e pare che l’episodio sia realmente accaduto – che nel 1875, Garibaldi, tornato a Roma, ormai vecchio e disilluso, venne accolto alla stazione da una folla entusiasta (la folla esagera sempre nelle sue esternazioni: o è entusiasta o è incazzata e, nell’uno e nell’altro caso, non ragiona) che poi rimase a vociare in strada davanti all’albergo ove aveva condotto l’eroe trainando a mano la carrozza sulla quale egli era salito. Pare, a questo punto, che Garibaldi, affacciatosi al balcone della sua camera, abbia pronunciato le seguenti parole: “Italiani, siate seri” e sia, subito dopo, rientrato in camera.
Naturalmente la folla continuò imperterrita a schiamazzare, costringendo il vecchio eroe a lasciare l’albergo di nascosto. Ma l’accaduto gli rimase in mente se è vero che nel 1880, due anni prima di morire, scriveva nel suo diario: «Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa miserabile all’interno e umiliata all’estero e in preda alla parte peggiore della nazione».
Riporto l’episodio a beneficio dei miei dodici lettori perché la recente vicenda della condanna definitiva di Berlusconi, imputato nel processo Mediaset, pronunciata dalla Cassazione e quel che ne è seguito, mi ha fatto pensare che, dai tempi di Garibaldi, la situazione non è cambiata: gli italiani sono e restano, ahimè, inguaribilmente poco seri e l’Italia rimane preda della parte peggiore della nazione.
Veniamo ai fatti.
Come è ormai a tutti noto, la sezione feriale della Corte di Cassazione, cui ratione temporis, è stato affidato il processo Mediaset, ha confermato in via definitiva la condanna inflitta a Berlusconi dalle Corti di merito, limitandosi, per il resto, a disporre il ricalcolo della pena accessoria avuto riguardo a quanto previsto in materia dall’art. 12 del d. lgs n. 74/2000.
È altrettanto risaputo che la decisione anzidetta è stata preceduta da una campagna mediatica d‘inaudita violenza orchestrata da amici e sodali del celebre imputato, i quali, com’è ormai d’uso, hanno tuonato contro una magistratura a loro dire orientata a sinistra e pervicacemente antiberlusconiana. Per giorni e giorni i talk show di ogni tendenza e colore sono stati monopolizzati da parlamentari del PdL, i quali, con chiaro intento intimidatorio, hanno preannunciato, in caso di conferma della condanna, sfracelli istituzionali. Si tratta, com’è evidente, di un atteggiamento di notevole gravità e personalmente ritengo che le esternazioni più estreme configurino specifiche ipotesi di reato (mi riferisco all’art. 302, o, in alternativa, all’art. 414 c.p..). Ma è ancora più grave e inquietante che il palese tentativo di condizionare la Corte di legittimità, operato da componenti del potere legislativo ed esecutivo, sia stato posto (e continui ad essere posto) impunemente in essere nell’assoluta indifferenza generale. Ed è altrettanto grave che, una volta emessa la sentenza definitiva, lo scomposto vociare sia ripreso più violento di prima (i più agitati hanno parlato perfino di guerra civile, un giornale dell’area berlusconiana ha attaccato i giudici chiamandoli “banditi di Stato” e c’è stato anche chi ha fatto le liste di proscrizione dei giudici “rossi” che avrebbero perseguitato Berlusconi), questa volta nel dichiarato intento di costringere il presidente Napolitano a buttare la sentenza di condanna nel forno. Anche ‘stavolta si tratta di un atteggiamento a tutto dire sopra le righe se non anche decisamente eversivo (tanto più se si considera che proviene da chi si professa moderato), che ha lasciato indifferente la pubblica opinione. Lo stesso avvocato Coppi, che pure è una persona seria e si era prodigato per abbassare i toni, dopo la lettura del dispositivo non si è fatto scrupolo di alimentare la cagnara mostrandosi, prima ancora di conoscere la motivazione, meravigliato di una sentenza da lui definita errata ed ingiusta.
Le cose stavano a questo punto, quando Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Corte, il giorno successivo alla lettura del dispositivo, ha avuto la bella idea di rilasciare un’intervista nella quale tentava, con evidenti difficoltà dialogiche, di spiegare le ragioni che avevano indotto il collegio a confermare la condanna irrogata dai giudici di merito.
Ora, dite quel che volete, ammettiamo pure che in Italia, da qualche tempo a questa parte imperversa la sindrome da microfono, ovvero quella tal patologia trasmessa dal virus presenzialista che affligge in genere pubblici funzionari (per lo più magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine) e li trasforma in esseri decerebrati in preda a una incontenibile logorrea autocelebrativa, ma quel che è troppo è troppo. Nel nostro caso, le dichiarazioni di un giudice chiacchierone, pur se, a differenza di quel che comunemente si pensa, non incidono minimamente sulla validità della sentenza, tuttavia hanno fatto fare una pessima figura all’esternatore e, quel che è peggio, all’alta funzione da lui esercitata. Non è un caso, del resto, che al popolo berlusconiano non è parso vero di strapparsi le vesti e proclamare che le dichiarazioni di Esposito confermano che la sentenza sarebbe il frutto malato della persecuzione voluta dai magistrati di sinistra (dicesi di sinistra, qualsiasi giudice che dà torto a Berlusconi), per liquidare attraverso la via giudiziaria il leader dell’area moderata (moderata: si fa per dire…)
Nulla di più falso.
Anzitutto perché nelle dichiarazioni di Esposito v’è di tutto – un dialetto napoletano biascicato, un argomentare approssimativo e confuso come i concetti che vorrebbe esprimere – tranne che la denunciata manifestazione di astio o di preconcetta avversione nei confronti dell’imputato.
Dico questo, non per trovare inutili scusanti nei confronti di un magistrato che ha violato ogni regola di riservatezza e che, come tale, merita adeguata sanzione, ma perché si distingua il grano dal loglio e si eviti di cadere nella speculazione che vorrebbe fare di Berlusconi un perseguitato politico, che, come tale, è giusto e doveroso aiutare con ogni utile mezzo a mantenerne la cosiddetta “agibilità politica”. Insomma, è certo che l’incauto Esposito, affetto com’è dalla sindrome da microfono, non vide l’ora di far la ruota pavoneggiandosi nell’arduo tentativo di spiegare la differenza che corre tra una motivazione fondata su una circostanza di fatto (“l’imputato sapeva”) e, come tale, indiscutibile e una motivazione fondata su una deduzione logica (“l’imputato non poteva non sapere”), di certo percepita come verità, ma pur sempre frutto di un ragionamento deduttivo e, quindi, discutibile. È, però, altrettanto certo che in tale occasione non manifestò alcuna preconcetta prevenzione nei confronti del Cavaliere. Poco o niente, per il resto, contano le frasi antiberlusconiane che, a dire di alcuni, il loquacissimo Esposito avrebbe, anni fa, pronunciato in occasione di simposi beverecci, anzitutto perché il lungo lasso di tempo trascorso lascia dubitare dell’esattezza del ricordo e in secondo luogo perché, in una situazione del genere, è difficile capire se si tratta di testimonianze veraci ovvero di pettegolezzi mediatici indotti da quella tal sindrome da microfono.
Rimane il fatto che, comunque si consideri la vicenda, la situazione che si è venuta a creare nella surreale dialettica tra il fanatismo osannante del popolo berlusconiano e la bislacca improntitudine di un incauto magistrato affetto dalla sindrome da microfono, è grave, ma non seria.
Così come gravi, ma non seri sono gli argomenti attraverso i quali si tenta di giustificare la richiesta di ridurre un giudicato penale di condanna a carta straccia, prospettando la necessità di rendere giustizia a un uomo che si dice perseguitato da giudici senza scrupoli e che, in ogni caso, rappresenta una figura istituzionale di rilievo in quanto capo di un partito politico che riceve milioni di consensi.
Quanto al primo argomento, va detto che sono non pochi gli imputati che proclamano di essere vittime dei giudici incapaci, superficiali o in mala fede: chi giudica gli altri deve rassegnarsi a subire le contumelie di colui che non è disposto a riconoscere il proprio torto. Questa, tuttavia, è la prima volta che un imputato non si limita a chiedere un atto di clemenza da comune cittadino riconoscendo la propria colpevolezza, ma compie, invece, un atto di arroganza, pretendendo che la cancellazione della condanna e dei relativi effetti provenga motu proprio dallo stesso presidente Napolitano, il quale, in tal modo, smentendo platealmente il giudizio di condanna emesso a distanza di pochissimo tempo, agirebbe in spregio all’autorità giudiziaria che ha emesso la sentenza. In tal modo l’atto di clemenza si trasformerebbe in una sorta di anomalo quarto grado di giudizio utilizzato solo per confermare la tesi della persecuzione politica attuata per via giudiziaria. Una tesi, questa, la cui prova risiederebbe nel fatto che Berlusconi, a partire al 1994, anno della sua “discesa in campo”, fino al processo Mediaset, avrebbe subìto trenta e più processi non venendo mai condannato.
L’argomentazione, pur apparentemente suggestiva, è, in realtà, capziosa. È vero, infatti che, fino alla sentenza Mediaset, i numerosi processi in cui Berlusconi è stato coinvolto quale indagato o imputato si sono conclusi con il proscioglimento o l’archiviazione. È vero anche, però, che, non solo, come scrive, nel maggio del 2011, il Gup di Brescia nel provvedimento di archiviazione della denuncia presentata da Berlusconi contro i giudici milanesi, a suo dire responsabili di attentato ad organo costituzionale (leggi: lesa maestà…), “le iniziative giudiziarie … avevano preceduto e non seguito la decisione di scendere in campo”, ma, prescindendo da quelli ancora in corso, numerosi processi si sono conclusi con pronuncia di non doversi procedere essendo il reato estinto per amnistia (falsa testimonianza nel processo sulla P2) o prescrizione (primo processo All Iberian; processo Lentini; processo Medusa Cinematografica; processo terreni in Macherio) o per essere stato, il fatto, depenalizzato (All Iberian 2 e 3).
In altri termini, in parecchi processi, pur essendo stata accertata la responsabilità dell’imputato, non si è arrivati alla condanna solo perché il reato era stato coperto da amnistia, ovvero perché, nel frattempo, erano state approvate, con straordinario tempismo, su proposta di avvocati, membri del Parlamento eletti nelle file di F.I., le tristemente famose leggi ad personam. Non si tratta, dunque, di una vittima dei magistrati “rossi”, ma di un personaggio che è stato numerose volte perseguito (e non perseguitato) solo a cagione della sua visione che potremmo chiamare disinvolta della vita.
Decisamente singolare e, per molti versi, illuminante circa un certo modo d’intendere la democrazia rappresentativa, è la seconda argomentazione, in base alla quale, comunque sia, il consenso popolare conferirebbe una sorta di sacrale immunità che impedirebbe al giudice di condannare il leader di “un partito che raccoglie milioni di voti” (testuale). Da qui la necessità di trovare il modo di salvaguardare la democrazia in Italia, rendendo innocui i magistrati troppo invadenti che non rispettano la sacertas conferita dal voto e liberando il nostro eroe dal fastidio di condanne quanto mai irriguardose. Una tesi, questa, che, come già altre volte mi è accaduto di osservare, delinea un nuovo, originale tipo di regime statuale : quello della democrazia feudale (di cui il porcellum, con la sua allegra “commendatio”, costituisce un sintomo preoccupante). È la democrazia feudale a ben vedere, che ha consegnato in ostaggio l’elettorato moderato a chi se ne serve per proclamarsi leader di un partito–azienda che, in realtà, si muove e agisce esclusivamente in funzione del volere del suo capo, anzi, del suo proprietario.
Poco conta, a questo punto, il rimedio escogitato per superare una fastidiosa condanna e la pena accessoria che essa comporta, sia esso la grazia o la commutazione della pena o, sia pure, l’amnistia. Che importa se la grazia o la commutazione della pena presuppongono un sincero mea culpa che l’imputato sdegnosamente rifiuta di fare e se l’amnistia è un provvedimento di clemenza di carattere generale giustificato solo da esigenze di riassetto dell’ordinamento (tipica la seriale giaculatoria sullo svuotamento delle carceri, salvo poi sacramentare perché manca la certezza della pena) e non può essere concessa solo per fare i comodi del Nostro? Che importa se prudenza imporrebbe di attendere quanto meno la definizione di altri processi pendenti, alcuni dei quali già definiti in primo grado con sentenza di condanna (processo Ruby) ed altri (compravendita di voti in Parlamento) nei quali la posizione dell’imputato appare assai problematica? L’importante è far presto per potersi poi dedicare, come sempre, anima e corpo al bene della nazione e, in particolare, alla riforma della giustizia che si risolve in una legge di un solo articolo : “Il giudice è soggetto solo alla legge, ma è bene che si ricordi che la legge la fa e disfà chi è stato eletto, anzi l’ “Eletto”.
Nel frattempo l’ “Eletto” attende di aver restituite le prerogative feudali che gli spettano e si guarda bene dall’affacciarsi al balcone per raccomandare, ai vassalli che, alimentando la grottesca berlusconeide, lo acclamano, di essere seri.
Speriamo che lo faccia il presidente Napolitano
ITALIANI, SIATE SERI (berlusconeide)..di Salvatore Rizza(magistrato)
- Settembre 13, 2013
- 6:12 pm
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