1993: l’Italia politica esce dalla fase del craxismo ed entra nella fase del berlusconismo. 2013: L’Italia esce(?) dal berlusconismo e si avvia verso una fase di prove tecniche da terza Repubblica.
Tutte le forze politiche sono divise. Abbiamo tre centrodestra: quello berlusconiano, quello governativo e quello di “Fratelli d’Italia”; tre sinistre: quella renziana, quella lettonapolitana, quella vendoliana; un doppio centro: quello montiano e quello para-dc di Casini; una doppia lega: quella bossiana e quella maroniana. Anche il Movimento 5 stelle non è un monoblocco; già si sono registrate fuoriuscite e al suo interno ci sono i fedelissimi di Grillo e quelli più autonomi dal leader.
Questo quadro è il sintomo di una disgregazione politica che dopo aver posto fine alle ideologie, pone fine anche ad una visione monocratica-aziendale della politica introdotta da Berlusconi: “uno solo al comando, tutto il resto ad obbedire”. Ma verso dove va la politica italiana? Se, dopo tangentopoli, la caduta delle ideologie ha avuto i suoi risvolti positivi, è anche vero che con la fine dei partiti tradizionali è venuta meno nel nostro Paese la cultura politica quale elemento di progettualità e di indirizzo della realtà.
La cultura popolare democratico-cristiana, la cultura socialista riformista e la culturale liberale hanno lasciato il posto ad un bipolarismo che si è dimostrato un vero e proprio fallimento. Le scissioni cui oggi stiamo assistendo sono la prova non di una dialettica politica, normale in una democrazia compiuta, ma la reazione al fatto che non può essere preso a modello un bipolarismo politico configurato come insieme di strutture monocratiche di tipo aziendale, dove alla politica, che è dibattito, dialettica, confronto culturale e di idee, impostazione di scelte operative, si è sostituita la gestione personale tipica dell’azienda. Gli scandali dei rimborsi elettorali ne sono una evidente dimostrazione ed hanno confermato una configurazione della politica di tipo impiegatizio.
Solo mettendo mano alla riforma elettorale con un ritorno alla proporzionale con sbarramento, la politica, a mio giudizio, potrà tornare ad essere luogo di crescita democratica e di confronto pluralistico. Tutta la disgregazione attuale delle forze politiche è la conferma che l’Italia non è stata e non può essere il Paese dei partiti unici, poiché il suo DNA politico è radicato in una tradizione culturale e politica che dà spazio alla diversità della democrazia, al pluralismo delle idee e dei progetti politici, alla dialettica come “vis creativa” dei processi di cambiamento.
Voler dimenticare questo significa togliere alla politica italiana la sua memoria e omologarla ad esperienze di altri Paesi, che non solo non ci appartengono, ma rischiano di farci perdere la nostra identità.
Il berlusconismo ha sempre puntato sulla idea di partito unico, ma non è mai riuscito nell’impresa; i fatti di oggi dicono che sia nel centrodestra che nel centrosinistra tutte le forze politiche dimostrano di avere nel sangue la logica proporzionalista.
Sono convinto che la politica oggi abbia perduto il suo “quid connotativo” storico-culturale fondato sul pluralismo delle idee e dei progetti, sul confronto e la diversità per ridursi a mera strategia funzionale ad ottenere vittorie elettorali e non subire sconfitte come, purtroppo, si usa dire mutuando il linguaggio calcistico.
Questa immagine calcistica rispecchia proprio la politica attuale , e queste appaiono le preoccupazioni della nuova classe dirigente, che cerca la “nomina” e non l’elezione, che cerca lo spettacolo e non la riflessione, con buona pace dei vari personaggi che hanno fatto la storia politica d’Italia: De Gasperi, Moro, La Pira, Saragat, Spadolini, Berlinguer, Almirante, gli stessi Andreotti e Craxi, etc…, tutti personaggi politici che sicuramente conoscevano Montesquieu, Constant, Tocqueville, Einaudi o avevano buone frequentazioni con libri di Dottrina dello Stato o di filosofia del diritto.
L’Italia politica sembra aver perso le risorse intellettuali, culturali e, forse, anche morali per intraprendere la via del cambiamento. I continui conflitti tra i principali poteri istituzionali, l’incapacità di una classe dirigente – partiti, intellettuali, uomini politici – a saper interpretare il proprio ruolo all’interno della società civile, l’anestesia totale provocata da una comunicazione mass-mediale inquinata, faziosa, fangosa, irriguardosa ai limiti del penale, lasciano intravedere forti preoccupazioni per il futuro del nostro Paese.
Il Paese ha la classe dirigente che si merita e questa il Paese che più le si confà.
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