Inaspettatamente e provvidenzialmente veniamo a sapere qualcosa che conferma un sospetto: il sindacato più potente dei lavoratori, la CGIL, non è così immacolato come vorrebbe farci credere, anzi, ha una certa consuetudine con i peccati che, a suo dire, commettono i loro nemici di sempre, gli imprenditori, bersaglio scontato di attacchi e rivendicazioni da parte del mondo tradizionalmente della sinistra. Chi ci ha svelato particolari interessanti sulla questione è Alma Bianco, ex contabile ed ex ispettore regionale della CGIL di Messina.
La signora, guarda caso, indagata per falso e appropriazione indebita, fa sapere che il sindacato per il quale ha lavorato, non sempre tratta con i guanti i propri dipendenti come invece pretende facciano le imprese. Pagamenti in nero, assunzioni fittizie o a tempo determinato, rimborsi artificiosi, distacchi retribuiti dallo Stato e licenziamenti facili, pare non siano infrequenti. E siccome girano tanti soldi, c’è chi non disdegna usarli per esigenze personali o per togliersi qualche sfizio: Rolex d’oro, cene, regali e via dicendo. La trasparenza dei bilanci poi non esiste perché i sindacati, pur essendo associazioni di fatto, sono immuni dal controllo dello Stato grazie ad una forma giuridica, quindi il reato di falso in bilancio per questi privilegiati non è previsto. E a mali estremi, estremi rimedi: note di finte spese possono, alla bisogna, porre riparo ad una gestione allegra e fuori controllo. I conti in rosso della CGIL di Messina sono la conseguenza di comportamenti non certo irreprensibili, alla faccia della dignità del lavoratore invocata a giorni alterni e difesa così elegantemente dai sindacati dimentichi però della propria. Nella sinistra un atteggiamento siffatto è normale, e non c’è da stupirsi se si considera che una quarantina di parlamentari provengono dal mondo del sindacato, diversi dalla CGIL per entrare nel PD. Il travaso dalle segreterie sindacali agli scranni del Parlamento, afferma Cofferati, altro ex sindacalista “regalato” alla politica, contribuisce all’arricchimento della politica grazie all’esperienza fatta nel sindacato. Che contribuisca all’arricchimento del sindacalista è un dato di fatto, che immetta nuova linfa in Parlamento è opinabile, semmai contribuisce al consolidamento di una visione del mondo del lavoro da antiquariato delle idee, che invece di favorire il lavoratore, nuoce sia al lavoratore che all’impresa. E veniamo all’articolo 18, perno attorno al quale si muove tutto un giro di interessi e di diatribe. Abolirlo o no? Chiunque avesse un dipendente assenteista e negligente sarebbe ben contento di sbarazzarsene, e non si sognerebbe mai di rinunciare ad un dipendente operoso e bravo, anzi, se lo terrebbe ben stretto. La CGIL, al contrario, protegge ad oltranza l’assenteista senza proteggere il lavoro. Quello che non fanno i sindacati in Germania, dove i rappresentanti dei lavoratori, iscritti o no al sindacato, partecipano al “board” delle grandi e medie imprese, in posizione paritaria con i proprietari di quote. Questa forma di partecipazione fa sì che tutti decidano ed agiscano per il bene dell’azienda che corrisponde al bene di quelli che ci lavorano. In Italia i sindacati sono corporazioni rigide che salvaguardano prevalentemente se stesse e coloro che pagano la tessera, escludendo tutti gli altri. Il senso dell’articolo 18 e della sua eliminazione non è quello di licenziare, ma di mettere dei paletti al superpotere dei sindacati. Eliminiamolo e riformiamo il lavoro in modo finalmente democratico.