“Iu scrivu ‘n sicilianu e mi ni vantu!” E’ il verso di una poesia di Franca Cavallo che mi piace citare nell’accostarmi alla sua ultima raccolta poetica “Scàmpuli ri cielu”(2012), perché esprime l’essenza, il profumo, la profondità, l’orgoglio e la passione di una donna che crede nel dialetto siciliano e nella sua poesia.
Nonostante tutto quello che spesso si dica di male e di superficialmente falso della poesia in dialetto, cioè che sia figlia di una musa minore; nonostante si affermi che la poesia, in genere, è morta, che è èlitaria, che è ostica, che è sorpassata, e nonostante molto spesso la si marginalizzi, la poesia invece, e il verso citato ce ne dà una conferma, è quanto mai viva e vegeta.
Anzi, in un’epoca nella quale la comunicazione è iper-veloce ma le parole stanno perdendo sempre di più significato e forza, la poesia resta una delle poche armi per non arrendersi all’impoverimento e banalità del linguaggio e alla pigrizia mentale.
Tuttavia la poesia soffre di alcuni paradossi. Ne dico solo uno, per la verità un po’ triste e che dà la cifra della situazione attuale: moltissimi scrivono o hanno scritto poesie, ma sono in pochi a leggerle.
Quella di Franca Cavallo è una poesia che si fa apprezzare e che trova un certo consenso, perché è, anzitutto, una poesia scritta osservando delle regole fondamentali.
Dai suoi quattro volumi di poesia pubblicati in 13 anni , emerge che Franca Cavallo legge molta poesia. E questa è una regola importante, d’altronde comune in tutte le arti: prima di scrivere bisogna leggere tanta poesia e di tutti i generi, senza barriere di stili.
Come per la musica, la pittura, il cinema: gli artisti più innovativi, originali e geniali sono quelli che conoscono le varie dimensioni e sfaccettature dell’espressione artistica nella quale operano, tenendosi aggiornati, avendo un’insaziabile curiosità intellettuale che vuol dire anche apertura mentale.
Una seconda regola che nella poesia di Franca Cavallo si trova pienamente osservata è il superamento degli stereotipi e del cosiddetto “poetese” che tanto faceva irritare il buon Edoardo Sanguineti. Il poetese è la poesia come mero esercizio letterario e linguistico, che non comunica nulla. Che poesia è quella della Cavallo? E’ una poesia semplice, descrittiva, lirica, satirica, memoriale, affabulante, sentimentale, diretta, che colpisce la mente e il cuore, sfuggendo alle insidie delle alchimie.
Spesso si è portati a pensare che le cose semplici della vita di ogni giorno non si possano fare assurgere a “poesia”, non si prestino a essere chiamate “poesia”.
Io credo che bisogna uscire da questo equivoco, evitando di pensare che ci sono cose poetiche e cose non poetiche. Cosa può avere di poetico un guscio d’uovo? Eppure il poeta Giovanni Raboni gli ha dedicato una poesia scrivendo: “La tenerezza del guscio d’uovo/dolcemente svuotato con la bocca/ e ornato con paesaggi lontani…” Cosa può avere di poetico un calzolaio? Eppure Montale gli dedica dei versi: “L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe,/il cornetto di latta arrugginito ch’era/sempre con noi..” Cosa può avere di poetico una moneta? Eppure un altro importante poeta del 900, Giovanni Giudici, vi ha dedicato una poesia, scrivendo: “Provvido dal taschino del panciotto la moneta/ Parsimoniosa estraendo e snocciolata/Sul polpastrello pensieroso…”
Franca Cavallo dimostra di ricordare sempre a se stessa, quando scrive versi, che la poesia è ispirazione, è un’arte, deve trasmettere emozioni, o comunque qualcosa che faccia vibrare i sensi, che ci dia un altro punto per vedere le cose. Le poesie di “Scampuli ri cielu” sono portatrici di una semantica, di metafore e di simbolismi, di tematiche liriche autonome sia sul piano della lingua che della dinamica contenutistica. Ogni poesia della Cavallo è l’espressione del cuore che diventa “parola”, la trasfigurazione di un sentimento che si fa “storia”, poiché dalla storia parte e alla storia ritorna. La tessitura del suo più che decennale itinerario poetico poggia su un trittico caratterizzato da tre versanti tematici: il rapporto tra “io” interiore e natura; il rapporto tra storia e memoria; il rapporto tra tempo ed esistenza.
Il lemma “scàmpuli”, utilizzato nel titolo, è presente nella poesia di apertura che dà il titolo alla raccolta. E’ una poesia i cui fondamenti lirici sono due verbi desiderativi: “vuliri” e “risiari”. Il verbo volere usato dalla Cavallo richiama l’ atto della volontà e dipende da noi; quando invece usa il verbo desiderare, indica l’oggetto di desiderio, che può anche non dipendere dalla nostra volontà. Che cosa vuole e desidera la poetessa? Scrive: “vulissi abbivirari / ri spiranza/ i viola”, “nutricari…li sonnira annacati” …. “Risiassi ca sta negghia / ccu ‘na carizza ‘i suli/si scuagghiassi/ pi pruìrimi / scàmpuli ri cielu…”
Questa poesia è come il manifesto poetico di tutta la raccolta. Ciò che “vuole e desidera” la poetessa è ciò che vuole e desidera ognuno di noi: e cioè che quello che è stato seminato in vita qualcuno lo si raccolga; ed è proprio vero, perché ogni essere umano non auspica di vivere nel grigiore delle nebbie che richiamano tristezza, solitudine, amarezza, angoscia, tenebra, ma – come dice la poetessa – “risia scàmpuli ri cielu”, desidera e magari si accontenta di piccoli spazi di cielo azzurro, ove la vita possa essere vissuta in pienezza, positivamente, come “nu fistinu”, cioè una festa. Ma andiamo alla poesia “Scali e scaliddi”, ove è rilevante la dialettica tra passato e presente. E’ un testo di intensa liricità, poggiato su un quadro elegiaco dove la poetessa incastona una pluralità di elementi: “sbattuta r’ali”, “palummi janchi , “cuticci ammutoliti”, “mura ciaccati”, “petri cinnirini” e altro. Una poesia strutturata volutamente in modo dialettico e contradditorio, perché tale è lo scorrere della vita con i suoi i giorni, le ore e il tempo; se da una parte la Cavallo invita a “Nun scaliàri ‘u passatu” a “nun circari i to passi ‘nthe vaneddi”, dall’altro lato ripropone il passato colto nella sua semplicità, durezza e spontaneità: “Ddu pani ca scìpitu sapia/ora fussi mangiatu/ a muddicheddi!-…. “ammàtula m’allappu/scunzulata/a lu tiempu”.
In realtà il tempo della fanciullezza non si cancella nella nostra memoria, come si evince dalla poesia a “Luna ristau”, ove c’è l’esaltazione del mito dell’infanzia, allorquando – come scrive la Cavallo – “nto bagghiu /Scutaumu muti/ddi cunti cuntati/ ccò llustru rà luna /nte siri ri stati”. Il rimpianto di questo tempo che non c’è più ( “Finieru ddi siri…Spirieru ddi scacci..”) diventa la chiave di ricongiungimento tra il passato e il presente, ove l’unica cosa rimasta è solo la luna: ‘A luna ristau/ è sempri a stissa”.
Significativa e rilevante è anche la poesia “Puntu e a capu”, che riscrive con l’efficacia della parola vernacolare il cammino della vita come “metafora del ricominciamento”. I versi della Cavallo fanno pensare al “vado punto e a capo” del testo della canzone di Gianna Nannini “Sei nell’anima”.
Dalla poesia “Puntu e a capu” traiamo sicuramente un insegnamento importante: la vita è una avventura, una corsa ad ostacoli; spesso si sente dire che non bisogna mai mollare, che bisogna sempre lottare per conquistare gli obiettivi in cui si crede senza considerarli falliti alla prima sconfitta: “Rici – scrive infatti la poetessa – ca rogni tantu/s’anciuri ‘na porta / e si rapi ‘n purtucatu / e puoi puntu e a capu”. Ma è sempre davvero così? O in certi casi bisogna arrendersi , abbandonare le speranze perché davvero si capisce che realmente non si può ottenere tutto quello che si vuole e, quindi, ci si rende conto che si sta perdendo tempo ad inseguire qualcosa di impossibile?
Il rischio del ricominciamento, del dire “punto e a capu” potrebbe essere quello di “arriccòghiri / sulu fumieri!”. Ecco perché – come si deduce dalla poesia della Cavallo – a volte bisogna saper dire “basta”: “miegghiu ca ci mintièmu/puntu fermu””, dice la poetessa.
Scorrendo ancora la silloge “Scampulu ri cielu” si incontrano versi come i seguenti: “Sula/m’arritruovu…Sula/vaju arrancannu..Sula vuogghiu sintìri.. Sula/mi piaci stari/sula/ che ma pinzera”. Sono i versi della lirica “Cusà cchi truovu!”, dove rifulge il tema della solitudine. Questo ritornello “sula…sula… sula” mi richiama il sapore e la delicatezza dell’incipit del sonetto del Canzoniere del Petrarca “Solo et pensoso i più deserti campi/vo mesurando a passi tardi et lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti / ove vestigio human la rena stampi”.
Ci sembra di vedere per un attimo l’immagine della poetessa Cavallo che entra in rapporto con il paesaggio naturale della sua Frigintini per ritrovare se stessa, per trovare nella solitudine interiore la forza di “natari ntà stu smaniusu/mari(cioè il mondo, la città, la società, le relazioni) anfitusiatu ro cirunu/ri maschiri/ ‘i cartuni”.
La solitudine non è per la Cavallo isolamento sociale , ma è possibilità di estraniamento dal sistema delle ipocrisie, è desiderio di conquista della pace interiore e della libertà, è raccoglimento per comprendere le ragioni profonde dell’esistenza dell’uomo, del senso della vita, dell’amore e della morte.
Se è vero che la sapienza popolare ha sempre insegnato che “suli nè bbuono mancu ‘n pararisu”, è anche vero, ed è questo il senso della poesia della Cavallo, che c’è bisogno di una solitudine come recupero di se stessi, della propria interiorità e spiritualità, come ritrovamento dell’àncora che non ti fa annegare dentro “stu smaniusu mari”.
Simbolismo e metafora attraversano dinamicamente la poesia “Essiri cava”, ove sono presenti due realtà tratte dallo scenario tipico della nostra terra iblea e trasfigurate in due belle metafore: a “cava” e a “ciumara r’acqua”. Tutto quello che raccoglie una cava è immaginabile: “tutta ‘a suzzura/ri stu munnu” – afferma la poetessa. La vita è spesso una cava ove si raccolgono “lacrimi siccagni”, “sonnira sfalluti”, “pintimenta atrassati”… Poi arriva l’acqua furiosa e “lava ‘a rugghini rò tiempi”, cioè fa smaltire le amarezze, i colpi bassi ricevuti, le incomprensioni e “cunnuci a pirdunari”. Efficace l’epilogo della lirica: “Essiri cava/ si po’!”
Il tema dell’attesa, che ha riempito grandi pagine della poesia del Novecento , risalta nella lirica “ ‘N ucciddu i suli”. Diverse cose aspetta la poetessa, e sono forse le stesse che attende ogni uomo, tant’è che usa il nominativo plurale. Anzitutto il “nunc fluens”, cioè il fluire e il divenire del tempo(“aspittamu / ‘u tiempu ca passa/n’punta ‘i peri”); poi il dono di una mano sconosciuta( a cosa si riferisce la poetessa? Forse alla mano divina!?): “na manu scanusciuta /ca n’aiutassi a fari senza affannu l’accianata”; e ancora, la resa speranzosa dei conti tra immanenza e trascendenza, tra terra e cielo come lascia intendere l’immagine della bilancia (aspittamu..’u trenu/chiddu gghiustu/ cinu ‘i spranza/ circamu r’appaciari / la vulanza ..); e infine, l’amor benevolentiae che dà senso al nostro esistere: “carizzi”, “palòri ri cunfuortu”, ‘n’ucciatedda r’amuri”.
Tutte queste attese servono a rendere meno fredda la vita; come ‘n ucciddu i suli /ca nesci aruci aruci/ ri ‘n cantiddu!” rende meno freddo l’inverno, così ci sono piccole cose attese dalla vita, perché possono – dice la poetessa – “dari sènziu / a stu nuostru campari”.
Molto bella, ricca di lirismo e di significati sociali è la poesia “Vientu”, dove la poetessa apre una sorta di dialogo con il vento, cui da connotazioni antropomorfiche.
Il vento cammina (“ùnni vai”), si riposa (“Sièri”), guarda (“talìa”), è nauseato(“Sì schifiatu?”), fa piaceri e fa anche l’ operatore ecologico(“ scupa i vaij ri stu munnu pazzu!”). La poetessa ricorre al vento per stigmatizzare in modo dolente “stu tiatru ri la vita”; gli occhi del vento guardano “strati strati/ tanti maschiri ri cira”..; guardano
“dda signura tutta scicchi”; guardano “u puliticu ..(ca) stravìa sulu pruvulazzu!, cu’ èni ‘n saccu ri lamientu/ e si pila ri cuntinu..”
Gli occhi del vento sono in realtà gli occhi della poetessa, la quale affida al vento la sua osservazione del reale, chiudendo i versi della sua poesia con un invito al vento: “Fammi ancora nu piaciri: “ ‘nsiemi,u è pampini e ò pruvulazzi /scupa i vaji ri stu munnu pazzu!”.
Una particolare efficacia lirica si sprigiona dalle poesie “Risbigghiu” e “Pruvuli r’oru”, due testi che si propongono come esaltazione del dato naturalistico e paesaggistico. In essi c’è, infatti, la celebrazione della natura in quanto luogo di vita; c’è l’esaltazione del rapporto vitale con il creato: “Chi spittaculu arrijala sta natura ..” Così scrive la poetessa perché, per lei, la natura è fonte di significati, è la sorgente di una esegesi dell’esistenza correlata, nel contesto di una dinamica analogica, alle modificazioni del dato naturale.
Dentro questo atteggiamento amorevole verso la natura, la Cavallo legge e disegna la parabola della sua vita e con la natura stabilisce una sorta di colloquio, testimoniato, del resto, a livello, di vocabolario, anche dal ricco uso di elementi paesaggistici di cui i versi sono intrisi: “scurpiddu”, “ramu o gghiummu”, “rinninedda”, “lucerta”, “ramistedda”, “ummira”, “luna”, “stiddi”, “arba”, “cielu”, “muddura”, “mari”, “luna”, etc…
È questo, insomma, l’entourage entro cui trova senso il poetare di Franca Cavallo; è questo il campo ideazionale del suo itinerario lirico e il mondo ove tratteggia le linee di un processo spesse volte autobiografico.
Un’altra significativa connotazione della poesia della Cavallo è sicuramente la dimensione morale, sociale e satirica. Ci sono liriche che offrono una acuta rappresentazione dell’ethos degli uomini, osservato in alcune realtà più comuni: l’amicizia, l’avarizia, il lavoro e la cassa integrazione.
La poesia “A via ri l’acitu” ripercorre tante questioni morali del nostro tempo. I versi, però, non scorrono con timbro moralistico, ma canzonatorio e ironico; c’è, nella poesia, più il desiderio di suscitare la risata che l’intento gnomico, tant’è che il costrutto dialettale si snoda con quella agilità capace di passare dai toni giocosi a quelli più riflessivi, dai toni ironici a quelli più direttamente parenetici.
In quest’orizzonte di realismo satirico la versificazione della Cavallo riesce a farsi lezione etica in maniera indiretta, ricostruendo il quadro dei vizi più comuni dell’uomo contemporaneo; e la sua scelta di affidare al verso dialettale temi etici è sicuramente indice della sua sensibilità sociale, del suo radicamento nella fisicità dell’esistenza.
Dice il poeta dialettale Giuseppe Cavarra “ ‘un pueta mori se nu canta”. Franca Cavallo è una poetessa che canta con passione indefessa la vita tra passato e presente, e che trova nella poesia dialettale la risposta al bisogno di dire, di descrivere, di sognare, di immaginare la vita, di emozionarsi, di meravigliarsi, di capire il suo e il dolore degli altri, di ricostruire il tessuto del suo cammino esistenziale. In “Scàmpuli ri cielu” tutto questo trova sicuramente ampio spazio e diventa bellezza poetica. Ecco perché questo libro piace e vale la pena di leggerlo!