L’Osservazione dal basso…di Direttore. La riforma di una scuola “irriformabile” e bisognosa di un nuovo umanesimo

PISANA

Il Governo Renzi sta mettendo mano all’ennesima riforma della scuola, ma sono del parere che la scuola sia “irriformabile”. Da Berlinguer a De Mauro, dalla Moratti alla Gelmini, da Fioroni alla Giannini di strada se ne è fatta, ma la convinzione generale e sempre più diffusa è che la scuola italiana, pur essendo in forte crisi di identità non è disponibile al cambiamento. Governi di sinistra e governi di destra ci hanno messe delle pezze, hanno fatto aggiustamenti, hanno apportato correttivi, hanno cambiato le regole stabilite dal governo precedente, ma il risultato è stato sempre lo stesso: cambiamento zero.

C’è da chiedersi perché! Le forze sindacali ora divise, ora unite, ora collaterali ai governi, ora conniventi e compiacenti ora di rottura, hanno mantenuto aperto il dibattito sulla scuola, ma neppure loro hanno contribuito ad un cambiamento.
Quella del Governo Renzi sarà un’altra “riforma-pezza”, una sorta di vino nuovo in un otre vecchio; colui che scrive, che lavora con gli studenti da oltre 35 anni, è ormai entrato nella prospettiva, chiaramente personale e opinabile, che la scuola è “irriformabile”. E, direi, sia per colpa della politica , dei governi, del sindacato, ma anche, se pur in tono minore, per colpa di tutte le componenti della scuola: docenti, studenti, genitori, personale non docente. Se infatti la scuola è il luogo della “formazione e dell’educazione”, non è cambiabile solo per effetto di una legge, di una riforma, ma esige un “cambiamento mentale”, un nuovo umanesimo, una destrutturazione degli stereotipi pregiudiziali, degli “atteggiamenti pre-comprensivi” e una “ristrutturazione onto-etica” che non si può, certo, ottenere per decreto e per via parlamentare o sindacale.
In questi ultimo trentennio il discorso sulla scuola si è chiaramente sviluppato facendo emergere quattro antinomie fondamentali.
1.La prima antinomia ha ruotato tra umanesimo e scienza. E difatti, molti hanno contestato una scuola incentrata su contenuti umanistico – letterari proponendo e richiedendo un allargamento del sapere a contenuti più propriamente scientifici e tecnologici secondo le esigenze della società, ma subito dopo si è elevato un grido di protesta contro chi stava cercando di far scivolare la scuola in una sorta di scientismo fine a se stesso, con il conseguente rischio di costruire tecnici robotizzati anziché persone e uomini capaci di riferirsi a significati e orizzonti umani più ricchi e consapevoli.
2. La seconda antinomia ha avuto come fattori di riferimento il passato e l’attenzione alla attualità. Non sono mancati, infatti, coloro che, specie tra gli studenti, hanno criticato con forza una cultura ed un insegnamento scolastico troppo attenti al passato, battendosi per una scuola che mettesse l’attualità al centro dell’apprendimento, ma poi si è subito originata una energica contestazione per opporsi ad una visione di scuola in cui la pura attenzione all’attualità stava per porre le basi per la riduzione dell’insegnamento a curiosità per l’effimero e in cui l’attualità non era difficilmente comprensibile per la mancanza di un riferimento alle sue radici e alle sue ragioni storiche.
3. Apertura alla realtà sociale e ideologizzazione: sono i poli di interesse della terza antinomia. In pratica, si è attaccata una scuola distante dai problemi concreti della società(politica, sindacato, emarginazione, disoccupazione, lavoro, mafia, ambiente, etc…) e si è preteso uno scambio diretto tra vita scolastica e società, ma immediatamente si è alzato un coro di lamenti per protestare contro una scuola soggetta a strumentalizzazioni da parte delle forze sociali e politiche e in procinto di diventare “serva del sistema” o di lasciarsi ideologizzare in modo fazioso.
4. Infine, la quarta antinomia: esigenze di una riforma ed autonomia scolastica. Da parecchi anni si protestava per avere una riforma della scuola con programmi di studio e discipline nuove, con sperimentazioni e innovazioni, ed ecco spuntare la tanto decantata “autonomia scolastica”, contro la quale ora si protesta perché si è ridotta ad una offerta di nozioni insegnate pur sempre alla vecchia maniera, aprendo una fase di scontri all’interno dell’Istituzione scolastica.
Certo, mettere mano alla riforma della scuola è stato ed è un problema complesso, ma è pur vero che molte questioni sono ancora aperte e che occorre organizzare la cosiddetta “rete scolastica”, mettendo di più al centro i percorsi di formazione che dovrebbero garantire la crescita culturale ed umana dell’alunno, evitando sbilanciamenti ed unilateralismi, sottovalutazioni dei saperi e sopravalutazioni della tecnica gestionale ed amministrativa. Insomma da un equilibrio di gestione che tenga conto di tutti gli elementi del sistema delle autonomie, può avvenire il rilancio di una scuola capace di offrire un servizio efficace, efficiente e di qualità. Il Dirigente scolastico, in questa direzione, ha sicuramente un compito di vitale e fondamentale importanza.
Uno dei punti della riforma della scuola del Governo Renzi è proprio il rilancio dell’autonomia scolastica. Non c’è dubbio che l’introduzione dell’autonomia scolastica è stata una conquista positiva, perché ha favorito il pluralismo educativo, stimolato nuovi processi culturali formativi e creativi relazionati al territorio in cui opera la scuola, e perché ha aperto orizzonti di attività curricolare con cui è stato superato il fenomeno della omologazione didattica, che, spesso, costringeva a camminare su percorsi di insegnamento troppo rigidi e standardizzati. La legge sull’autonomia scolastica, in sostanza, ha determinato un mutamento dei principi e dei criteri che hanno orientato la Scuola italiana dalla legge Casati del 1859 e dalla riforma Gentile del 1923 ad oggi.
Il concetto di base che, nel passato, prevaleva nel sistema scolastico italiano era quello di “scuola apparato”, tant’è che la scuola, in quanto uno degli Uffici dell’Amministrazione dello Stato, era concepita e organizzata secondo tre criteri: a)il centralismo; b)il verticismo burocratico; c)la rigidità dei modelli organizzativi.
Con l’introduzione dell’autonomia scolastica si è inteso modificare questa visione concettuale e si è realizzata la creazione di una scuola nella quale i criteri di orientamento sono divenuti altri, e cioè:
a)l’autonomia, intesa come atto di affidamento alle singole unità scolastiche del compito di organizzare l’attività didattica, tenendo conto del contesto situazionale, umano, territoriale, che, senza dubbio, appare diverso da una realtà ad un’altra;
b)il decentramento, ossia l’attribuzione di poteri decisionali secondo le funzioni e le mansioni proprie di ogni componente scolastica;
c)la flessibilità dei modelli didattici ed organizzativi, cioè la possibilità di costruire percorsi culturali e di formazione adeguati alle esigenze personali e sociali degli alunni e in grado di determinare la loro crescita culturale.
Stando così le cose, nessuno dovrebbe avere di che lamentarsi; eppure girando per le scuole italiane c’è un clima di sfiducia e di disorientamento e molti docenti, con una lunga esperienza professionale alle spalle, non vedono l’ora di andare in pensione nonostante, ancora, nelle condizioni di poter rimanere in servizio. Perché? Perché, a mio avviso, la realizzazione dell’autonomia scolastica si è mossa in maniera sbilanciata: più che focalizzare e porre attenzione al discorso sui saperi, sulle conoscenze, sulle competenze, sui percorsi modulari e sulle dinamiche formative che una scuola in regime di autonomia deve saper offrire per educare le nuove generazioni, si è invece evidenziato e rimarcato l’aspetto “gestionale-burocratico”,” manageriale e d’immagine”, dei “progetti ad ogni costo”, dei PON, POR e quant’altro, (anch’essi certo importanti ma, quasi sempre, fattori di divisione e di conflitti dei collegi docenti per motivazioni economiche) così da indurre le singole scuole a darsi una “verniciatura d’immagine” legata ad una progettazione di attività e iniziative di stampo aziendale. Sta qui uno dei grossi limiti!
Decentramento e flessibilità dei modelli organizzativi della scuola sono in sé principi positivi, in quanto aprono gli Istituti al territorio, al mondo del lavoro, agli Enti locali , ma in concreto hanno omologato la scuola a qualsiasi altra struttura erogatrice di servizi. E difatti, così come oggi si parla di azienda Rai, azienda unità sanitaria locale, azienda Regione, azienda Ferrovie, azienda Poste, si è anche imposta, volente o nolente, la cultura dell’azienda scuola, alla quale tutti i docenti si sono dovuti necessariamente, alla faccia del principio di libertà di insegnamento, convertire.
Purtroppo questa aziendalizzazione ha una causa ben precisa: gli accorpamenti indiscriminati degli Istituti scolastici a partire dal 2000. Gestire ed organizzare una scuola autonoma con 20 classi non sarebbe difficile, ma non è la stessa che gestire una scuola che, invece, ne ha 40, 50 o 60. La verità è che tutti i governi di centrodestra e centrosinistra che si sono succeduti in questo ultimo ventennio hanno risparmiato sulla scuola, facendola precipitare in una sorta di “assemblaggio autonomistico” ove, per forza di cose, il numero elevato dell’utenza ha prodotto caos, confusione di ruoli, burocrazia, conflitti tra docenti e dirigenti, non favorendo certamente una attività serena e un processo educativo di tipo testimoniale, ma soltanto una conversione della cultura e dell’educazione in un “prodotto di marketing”.
La scuola ha perso di vista il suo essere comunità educativa per divenire una agenzia di servizi scolastici; il suo volto, in alcuni casi, potrà forse apparire ipocritamente bello ed attraente per il mercato, ma nella realtà stenta a formare uomini di cultura e cittadini laboriosi per la società di domani.
Una vera riforma non dovrebbe parlare solo di contratti e di salari, di precariato e di poteri del dirigente, di organizzazione e di progetti, di contratti e di regole, di merito e demerito, ma dovrebbe parlare di nuovo umanesimo, di nuove relazioni umane tra scuola e famiglie che dovrebbero affiancare i docenti nel ruolo educativo e non delegittimarli con forme di lesivo protezionismo. Una vera riforma dovrebbe parlare di bellezza del sapere e della cultura, di impegno e di sacrificio , di diritto e di doveri, di democrazia e di innovazione, di educazione al senso critico che faccia degli studenti non semplici utenti, fruitori di servizi, recipienti da riempire, ma personalità da far crescere con l’apprendimento, lo studio, la ricerca, la sperimentazione, lo stimolo della fantasia e della creatività, la comprensione dei valori fondamentali della vita, così da potersi inserire con consapevolezza e maturità nella vita sociale e nel mondo del lavoro. E in questo senso va da sé che una riforma, come è nell’intenzione di quella in corso, che promuova anche il contatto degli studenti con i mondi vitali della società, quali le aziende, le associazioni, gli enti formatori, le istituzioni in cui si articola una società civile, potrebbe essere condivisibile nella misura in cui si mostrerebbe in grado di aprire le nuove generazioni alla speranza di un futuro vero e significativo nel quale umanesimo e certezza di avere un lavoro diventerebbero mete per le quali impegnare la loro vita di studenti.

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