A PROPOSITO DELLO SCIOGLIMENTO DEL CONSIGLIO COMUNALE DI SCICLI, PER CONCLUDERE

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Nel mio recente intervento sulla dibattuta questione del grado di mafiosità della Nazione e sul conseguente scioglimento del consiglio comunale delle città in cui la mafia è riuscita ad infiltrarsi nell’amministrazione locale, condizionandone le scelte, pervenivo a una conclusione che, a ragione, può definirsi paradossale. Dopo aver, infatti, constatato che il maggior aiuto ad infiltrarsi nei gangli vitali dello Stato,

veniva dato alla mafia proprio da quell’ormai famoso art. 15 bis della legge 55/90 che, disponendo lo scioglimento del consiglio comunale e le conseguenti nuove elezioni, dava modo all’organizzazione criminale, non solo di riorganizzarsi più e meglio di prima, ma anche, procedendo come solo lei sa fare, ad allargare la schiera di amici e di simpatizzanti più o meno criptici e a consolidare, in tal modo, il suo dominio sulla città. Concludevo sostenendo che, così le cose, era necessario sciogliere, semmai, non già i consigli comunali, ma lo stesso Parlamento che aveva votato una legge così sciagurata.
Sarà pure, come già detto, una conclusione paradossale, ma sfido chiunque a dimostrarmi il contrario.
A questo punto, tuttavia, occorre aggiungere che la normativa in questione è, di fatto, divenuta l’“apriti sesamo” nelle mani di sedicenti eroi della sesta giornata che acquisiscono notorietà assegnando la patente della mafiosità in base a criteri del tutto personali e giudicando, come Minos, secondo che avvinghia.
Inutile contestare il giudizio espresso dai moralizzatori di ruolo, i quali, non gradendo le pur fondate contestazioni, relegano de plano le critiche loro mosse nel novero dei comportamenti omertosi posti in essere da loschi figuri arruolati nel campo di Agramante.
È, questa, una considerazione che, lo si voglia o no, ci riporta al caso Scicli.
Ovviamente, nessuno può dire come finirà la triste vicenda che affligge uno dei paesi più belli e più ricchi di storia della Sicilia. Tuttavia, leggendo le carte e valutando taluni episodi che hanno caratterizzato la fase delle indagini ispettive, si rimane sorpresi per la presenza di alcune incongruenze che contraddistinguono, per così dire, l’accusa e la dicono lunga sul fondamento della stessa. Tre esempi per tutti
In primo luogo, la relazione, per così dire, ispettiva, caratterizzata da una serie infinita di “omissis” che impediscono di individuare l’ubi consistam della contestazione (qui il diritto alla riservatezza non c’entra, visto che si tratta di atto ricorribile, ragione per cui è lecito chiedersi cosa potrà fare l’interessato che si ritrova in mano un atto che lo priva di diritti fondamentali ma è, al contempo, talmente criptico da impedirgli ogni difesa, soprattutto quando i termini per ricorrere scadono prima che si provveda alla regolarizzazione degli atti). Nel merito, poi, essa si basa, per la gran parte, su episodi di comune disamministrazione o su episodi che potremmo definire di illegalità spicciola. Ove comportamenti del genere – che, si badi, vanno comunque severamente puniti – dovessero essere davvero indice di infiltrazione mafiosa, in Italia non si salverebbe un solo Comune. Per contro, la vicenda che riguarda il sindaco, che viene ritenuto concorrente esterno in associazione mafiosa che farebbe capo a quel tal Mormina indicato come personaggio di spicco della criminalità organizzata, non solo si regge su affermazioni generiche, ma non fa cenno di un fatto determinante al fine di valutare gli effettivi rapporti tra i due: viene, infatti, totalmente omesso di riferire che Mormina e i suoi familiari, assunti dalla ditta aggiudicataria dell’appalto per la nettezza urbana quando il Comune era retto da altra Amministrazione, vennero, viceversa, in effetti licenziati proprio in conseguenza dell’iniziativa dell’amministrazione Susino che ricondusse tutto a legalità rifiutandosi di corrispondere alla impresa datoriale il costo dei nuovi assunti. Il travisamento dei fatti che ne deriva è fin tropo evidente per meritare un commento.
In secondo luogo, si rimane sbalorditi di fronte alla stupefacente intervista resa dal presidente Crocetta a dire del quale Scicli avrebbe evitato lo scioglimento del consiglio solo se avesse optato per un candidato “appartenente alle forze dell’ordine” (sic!) facente parte della coalizione che lo sostiene. Si tratta di una dichiarazione gravissima, ove si consideri che l’opzione indicata dal presidente della Regione, avrebbe finito per dar vita a un vero e proprio illecito, impedendo, di fatto (non si sa per quali vie), l’adozione di un atto dovuto.
L’ultima e, riteniamo, per molti versi, più macroscopica incongruenza (last, but not least) riguarda la soppressione dei Tribunali minori. Originariamente, nella Sicilia orientale, era prevista la soppressione dei Tribunali di Sciacca, Caltagirone e Modica. Ebbene: i primi due non sono stati soppressi perché ritenuti ad alta intensità mafiosa (ma, ciò nonostante, conservano integro l’apparato amministrativo). Il terzo, nella cui circoscrizione ricade anche Scicli, è stato, viceversa, soppresso. Il che dimostra che le strade del Signore sono veramente infinite, dal momento che a conti fatti, è stato soppresso l’unico Tribunale nella cui circoscrizione ricade il territorio di Scicli, rinomata città mafiosa.
Et de hoc satis.
In conclusione, è vero: noi apparteniamo a quella “certa stampa” sprezzantemente menzionata dal senatore Lumia nella sua interrogazione al ministro Alfano.
Forse anche, se questa è un’aggravante, apparteniamo anche a quella tal “certa società che si fa arruolare dal “negazionismo”.
Ma che importa ?
Meglio “certa stampa” che sa quello che scrive e lo fa, non in difesa del proprio particulare, ma in difesa di una comunità onesta e laboriosa, che la sedicente antimafia .
Non ci convince, perciò, chi, con la sicumera degli ignari, si rifugia nello stereotipo e nel luogo comune, l’unico, del resto, che viene ritenuto credibile dall’opinione dominante che, ignorando totalmente il problema, trova comodo sospettare di tutto e di tutti e guarda con sospetto chi tenta di separare il grano dal loglio per dare un senso a quella che pomposamente viene chiama la lotta alla mafia.
Inutile tentare di affrontare con obiettività e coerenza i problemi; inutile, soprattutto, evitare di cadere nelle prese di posizione generiche e senza un reale processo d’identificazione delle vere cause della progressiva espansione del fenomeno mafioso; inutile criticare a lume di logica e a ragion veduta una legislazione senza senso. Inutile, in proposito, rifarsi Weber e Arlacchi, che, pure, nel loro piccolo, qualcosa sull’argomento pur sanno.
I cultori dell’antimafia di ruolo trovano le risposte che loro si aspettano da una società dominata dalla retorica.
Rimane, si capisce, quel tal “giudice a Berlino”, che nel nostro caso, è il Tar del Lazio, al quale parecchi consiglieri e assessori comunali hanno fatto ricorso.

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