IN PUNTA DI LIBRO..di Domenico Pisana. La corrispondenza Cucinotta – Di Giovanni (1903-1928) nel libro edito dal Centro studi di Agrigento “Giulio Pastore”

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L’epistolario è sempre un genere letterario che rivela sorprese e che mette a contatto con la personalità di un autore, in modo libero e senza condizionamenti e filtri mentali. La prima impressione che si ricava dal volume curato da Rosalba Anzalone e Franco Biviano, dal titolo “Corrispondenza, 1903-1928”,

Edizioni Centro studi “Giulio Pastore” di Agrigento, potrebbe indurre a considerare la corrispondenza tra Silvio Cucinotta, sacerdote nato in Sicilia il 13 marzo 1873 a Pace del Mela, e Alessio Di Giovanni, poeta e scrittore nato a Cianciana, in provincia di Agrigento, l’11 ottobre 1872, come il vettore privato di due intellettuali che hanno trovato nella corrispondenza lo sfogo silenzioso di affetti e sentimenti e la terapia per una sofferenza interiore macerata dal tempo. E non nascondo che, ad una prima lettura, anch’io sono stato tentato di collocare in tale orizzonte questo epistolario.
Ad un approccio più attento e riposato mi sono invece accorto che quello riportato alla luce da Rosalba Anzalone e Franco Biviano è sicuramente un documento che offre alla cultura, quella siciliana in particolare, un interessante spaccato storico, politico, letterario e religioso della fine dell’800 e l’inizio del ‘900.
I soggetti al centro di questo libro sono, senza dubbio, due personaggi che hanno dalla loro parte la consapevolezza di essere stati uomini pensanti, liberi, non asserviti a giuochi ideologici, mossi dalla necessità di far riflettere la “cultura del loro tempo”. E in questa prospettiva il lavoro dei due curatori ha il merito di offrire un percorso nel quale si trovano disegnate le connotazioni di due anime accomunate dagli stessi sentimenti e da eguali idealità.
Dai testi delle lettere emerge con chiarezza che i due hanno in comune l’amore per la cultura, la giustizia e la verità; la passione per l’innovazione, il cambiamento, il riscatto della loro terra; e ancora la persecuzione, il bisogno di difendere “il loro bastone di dignità”; la fede in Dio, testimone silenzioso delle loro sofferenze, dei dolori e delle povertà.
Il carteggio ricostruito da Anzalone e Biviano si snoda su quattro connotazioni fondamentali: la prima psico-affettiva, la seconda socio-culturale, la terza teologica e la quarta di carattere letterario.
Iniziando a leggere il libro , colpisce subito lo stato d’animo sia di Cucinotta che di Di Giovanni , stato d’animo che traluce, come costante, da alcune lettere inviatesi reciprocamente tra il 1904 e il 1910. Così si esprime Silvio Cucinotta in alcune lettere inviate all’amico poeta Alessio Di Giovanni:
– “… barriere mi dividono dalla vita…” ; “…Povero amico mio che soffri l’ingiustizia degli uomini…” (22 agosto 1904);
– “…Mi pare che ambedue siamo nati per soffrire…nelle nostre lettere non riusciamo ad altro che a manifestare le nostre pene…(…).una congiura sempre più fosca mi circonda, una congiura settaria che mi preclude l’adito ad altre diocesi”…( 4/09/1904);
– “…La congiura fosca ha disteso bene, da per tutto, i suoi tentacoli…” ( 12/09/1904);
– ”Ho molti nemici…(21/10/904) ; “..La malvagità degli uomini ci rende, malgrado noi, scettici..” (22/10/1904);
-“ …Ci ho avuto, poi, tanta noia addosso, che mi è mancata ogni volontà di scrivere. Che vuoi! Qui mi sento “luntanu”, assai luntanu di stu munnu. Mi chiudo sempre in una sterile rievocazione del passato, in una contemplazione egoistica della natura…”( 31 Maggio 1905);

– “…Che avrai potuto pensare, tu, soave fratello, del mio lungo silenzio? Non ho mai animo di scrivere… ..tra l’inerzia angosciosa che mi opprime….”( 29/11/1905).
Gli stessi atteggiamenti e sentimenti interiori si ritrovano anche nelle lettere che Alessio Di Giovanni scrive in risposta, nello stesso periodo, all’amico Cucinotta, e nelle quali il sacerdote di Pace del Mela così si esprime:
– “Accoglimi fra le tue braccia e lascia che io sfoghi fraterna-mente teco il dolore del mio animo, così dolorosamente triste, questa sera!…” ( 4 maggio 1905);
– “…M’è toccato aver da fare, per tre mesi continui, con gente vile, interessata, crudele. M’è toccato vederne di tutti I colori. Pazienza…” ( 20 ottobre 1905);
– “…No, non sono sdegnato con te: sono soltanto addoloratissimo da questo stato d’invincibile inerzia in cui ti sei buttato a capo fitto, con grave danno del tuo bell’ingegno e del tuo animo buono. Comprendo, anzi nessuno meglio di me può comprendere quello che hai sofferto e che soffri, ma, Dio buono, chi non ha sofferto a questo mondo, chi non ha avuto delle traversie? Ora se tutti facessero come te, se ognuno stesse in perpetua adorazione del passato, cosa ne sarebbe della vita? Coraggio e avanti! Scuotiti, muoviti, fatti vivo! Verrà un po’ di sole anche per te. Uscirai da cotesta solitudine che ti opprime….”( 8 dicembre 1907);
– “Quanto ho pianto in queste sere, solo, nella mia cameretta(da un pezzo non piangevo, così!…)pensando a te e al Chinigo, principalmente , e poi a tanti buoni, cari indimenticabili amici di Messina…” ( 4 gennaio 1909);
– “…A vivere in mezzo a gente infida, gretta, invidiosa, in mezzo a continue lotte sleali, l’animo s’inasprisce e non ci si riconosce più. Qui faccio una vita da romito, in contatto immediato con la natura buona, grande ed infinita, che mi parla di Dio e dà ali al mio spirito…” (23 0ttobre 1910)

Queste citazioni, che naturalmente potrebbero continuare, sono sufficienti a delineare la prima connotazione di questa corrispondenza: quella psico-emotiva.
I due amici, legati anche da vincoli di comparatico, risentono di una componente affettiva travagliata, sofferta, logorata da eventi che insistono sul cammino esistenziale di ognuno. Se Cucinotta trova nell’affetto dell’amico il conforto per superare la congiura di quanti si adoperavano per farlo espellere dal Seminario della diocesi di Messina a causa della sua professione delle idee del modernismo, nonché di fare in modo di ostacolare la sua attività di insegnamento e di conferenziere, Alessio Di Giovanni trova in Cucinotta il rifugio soprattutto per le sue difficoltà economiche: “….Per questo ricorro a te – scrive Di Giovanni – come ad un fratello, anzi meglio che ad un fratello, perché mi voglia fare l’eccezionale favore di prestarmi fino al quindici dicembre, e con gentile sollecitudine, Lire 30. Caro Silvio, tu che mi conosci, sai bene che io non ti seccherei se non si trattasse di cosa che molto mi preme…” (Lettera di Di Giovanni a Cucinotta del 13 novembre 1904).

Le parole contenute in questi stralci di lettere esprimono amarezza, delusione, rammarico, uno stato psicologico lacerato causato dal vedere intorno a sè “nemici” , “la malvagità e ingiustizia degli uomini”, “gente vile, interessata, crudele”. “gente infida, gretta, invidiosa”, nonché “lotte sleali”.
C’è nell’epistolario tutta l’ humanitas di Cucinotta e Di Giovanni, la sensibilità umana dei quali è tale che li prostra, li fa soffrire; si tratta, tuttavia, di un dolore composto, che non appare segnato da astio, né da livore e veleni verso gli altri.
La viltà, la malvagità, l’invidia, la grettezza della gente lamentate dai due amici, non appaiono “sentenze di condanna” o “giudizi moralistici” sul prossimo, ma si palesano come constatazione di quanto era difficile la vita di relazione dei due personaggi con la società del tempo, specie a motivo delle loro qualità intellettuali.
Di Giovanni e Cucinotta vivevano il dramma di chi sapeva di essere ostacolato a causa della propria arte, cultura, passione, capacità di leggere la storia, che suscitavano in alcuni ammirazione ma in altri persecuzione.
Ma veniamo al livello socio-culturale del carteggio, che ci offre uno spaccato delle problematiche socio-culturali di fine ‘800 e inizio ‘900. Qua e là, dalla stesura delle lettere, emergono alcune tematiche al centro dell’interesse della Sicilia dell’’800: la questione sociale, il disagio dei contadini e degli zolfatari, i fasci dei lavoratori, le affittanze collettive, il murrismo, il modernismo cattolico in Italia, l’imporsi del marxismo e il cooperativismo cattolico.
E’ certo che la mano dei curatori di questo libro risulta molto preziosa per capire l’intersecarsi di queste tematiche nel succedersi della corrispondenza. Le note esplicative sono infatti un vettore di indirizzo fondamentale per la comprensione di ciò che stava accadendo nella vita dei due scrittori e nel periodo storico, politico, culturale e religioso in cui operavano; senza questi approfondimenti critici della Anzalone e di Biviano l’epistolario avrebbe potuto rischiare di ridursi ad una cronaca di sapore diaristico, ad un circuito comunicazionale privato tra due figure che si scambiano informazioni, sentimenti, affetti, umori e tremori che attraversano la loro esistenza con periodicità e continuità.
Chiaramente questo spaccato storico e socio-culturale risulta appena evidenziato, ma è significativo ai fini di una ermeneutica dei due personaggi della corrispondenza.
L’adesione di Cucinotta al modernismo italiano non sembra apparire dettata dal bisogno di ricerca del nuovo, né da smanie di protagonismo nella Chiesa o di dissenso verso il Magistero ecclesiastico. Le parole sofferte che egli scrive a Di Giovanni, i toni riflessivi e pacati evidenziano come ci fosse in lui una “passione civile ed etica”, la necessità di testimoniare un cristianesimo che non fosse solo insieme di principi e norme razionali, ma che si caratterizzasse per la sua forza pratica nella storia e per la coerenza intima con i principi e i valori professati e annunciati.
In fondo quel che caratterizzava il Programma modernista italiano, rispetto ad altre forme di modernismo europeo, e che Cucinotta condivideva, era l’ assillante ed apertamente confessata preoccupazione di innestare i nuovi indirizzi della religiosità sul tronco delle aspettative e delle esperienze sociali.
L’adesione di Cucinotta al modernismo ebbe la sua stroncatura in occasione di una conferenza , presente Mons. Mario Sturzo, sullo scrittore Antonio Fogazzaro (1842-1911) che con i suoi molti romanzi, in particolare “Il santo”, pubblicato nel 1905, aveva suscitato una vasta attenzione per la visione critica che esprimeva della liturgia. Non a caso il romanzo venne posto all’Indice l’anno successivo.
Cucinotta tiene una erudita presentazione sulla “psicologia del Santo” di Antonio Fogazzaro” evidenziando l’esercizio eroico delle virtù di Benedetto, il santo del romanzo , e concludendo con l’episodio della morte di Benedetto che bacia il Crocifisso e della conversione di Geanne che pronunzia il suo “Credo”. Se per Cucinotta Benedetto appare come il santo del XX secolo, per il settimanale palermitano “Letture domenicali”, già organo ufficiale dell’Opera dei Congressi in Sicilia, Benedetto , al contrario, viene definito un eretico o per lo meno un impostore o l’uno o l’altro insieme.
Il settimanale, in pratica, sferza un forte attacco a Cucinotta, che viene annoverato, insieme a Romolo Murri che si trovava alla testa dei fogazzariani, tra coloro che fanno “l’occhio di triglia al mistico romanzo”. Cucinotta percepisce tale attacco come un colpo di grazia che lo induce a rinunciare alla conferenza che doveva tenere a Palermo sullo stesso argomento e a lasciare il seminario di Piazza Armerina per ritirarsi in solitudine nel “romitorio” di Pace del Mela, abbandonando il suo anelito per le battaglie sociali.
Una domanda appare d’obbligo a questo punto: la visione modernista di Cucinotta era dello stesso tenore di Murri? Certo, le lettere non consentono di poter avere una risposta, tuttavia la sofferenza, il rammarico, il dolore, la macerazione interiore e silenziosa che traspaiono dalle parole che egli scrive al poeta Di Giovanni nonché l’ubbidienza alla gerarchia, lasciano pensare che il modernismo di Cucinotta si muovesse su binari composti e pacati, su una dinamica di sensibilità sociale autentica e non viziata da ideologizzazioni di tipo politico. L’apertura alla cultura moderna e alle istanze della società nasce in lui da una condivisione della sofferenza dei più poveri e dalla necessità di dare al cristianesimo il suo vero respiro sociale.
Sarebbero necessarie ulteriori ricerche per capire se Cucinotta fosse sulle stesse posizioni radicali avanzate di Romolo Murri, il quale riteneva che i cattolici dovessero scendere in campo, confrontarsi con le altre correnti politiche ed ideali, vivere la democrazia e mettersi in concorrenza con le forze socialiste.
In questo spaccato storico presente nelle lettere di Cucinotta, le lettere del poeta Di Giovanni hanno quasi un “sapore distraente”, nel senso che costringono l’amico sacerdote ad allontanare la mente dalle sue vicende personali ecclesiastiche e a leggere le opere dell’amico poeta, a farne recensioni e commenti sui giornali. Spesso Cucinotta chiede scusa a Di Giovanni per il ritardo con cui risponde, ma la tenacia del poeta di Cianciana, che lo incalza in modo ossessivo, lo costringe a prendere la penna e a scrivere. Anche le lettere di Alessio Di Giovanni consentono di capire che al centro della sua opera letteraria, al di là del bisogno ansioso di diffonderla che la pervade, vi fossero delle tematiche sociali. La lettera a Cucinotta del 22 ottobre 1904 evidenzia, ad esempio, come la rivista di letteratura dialettale di Milano definisca Di Giovanni, in un articolo di Boffi, “poeta della zolfatara”. Dietro questa definizione c’è in fondo la rappresentazione realistica e dolorosa delle miniere di zolfo agrigentine e delle condizioni di vita delle persone; c’è lo spaccato di una realtà sociale attraversata dalla miseria e dal dolore, ove i versi del poeta di Cianciana risuonano come “vox clamans in deserto” . La voce poetica del Di Giovanni, come si evince dalla corrispondenza in cui vengono citate riviste, giornali,periodici, quindicinali, mensili che ospitano interventi sulla sua attività scrittoria, viaggia per tutta l’Italia, cantando amori e passioni, sofferenze e dolori, miserie e povertà di contadini, zolfatari, uomini e donne. E’, quello del poeta Di Giovanni , il canto della socialità, della testimonianza, dell’amore per la propria terra, è il canto che varca i confini paesistici per diventare dichiarazione di poetica e rappresentazione di un processo culturale che riscuote l’interesse anche del Verga, con il quale Di Giovanni entra pure in polemica a proposito dell’uso del dialetto. Nella lettere del poeta di Cianciana c’è una gamma di riferimenti che portano alla luce la sua vasta produzione letteraria ed artistica e che lo riproducono come una figura versatile, eclettica, capace di scrivere di poesia, di critica letteraria, di teatro; un poeta della natura, del feudo, del popolo, degli uomini, del Cristo, del povero, della madre, così come si evince dalla lettera del 13 aprile 1909, ove Cucinotta riferisce della conferenza tenuta a Ribera sulla poesia di Di Giovanni: “La conferenza – scrive Cucinotta – è piaciuta: applauditi tutti i brani delle tue poesie. Ho dovuto sintetizzare per non abusare della pazienza degli uditori non abituati a sentir conferenze. È durata un’ora e mezza: ascoltata con piacere, trattata sotto tutti i punti: poeta della natura, del feudo, del popolo, degli umili, del Cristo, del Puvireddu, della madre.”
Dalla corrispondenza emerge che Di Giovanni allarga i confini della sua attività letteraria anche in Francia, ove è in contatto con Frédéric Mistral, 1830-1914, premio Nobel 1904, fondatore, insieme a Roumanille e altri, del Felibrismo, movimento impegnato ad impedire l’estinzione del provenzale e delle parlate occitane e a far sorgere, sulle ceneri della cultura della Provenza, una nuova letteratura, ispirata alla poesia popolare e alla lirica trovadorica. Di questo movimento si occupa il “Corriere della Sicilia” di Palermo, che pubblica diversi articoli dei padri fondatori del felibrismo e che annuncia come su proposta del Mistral nella seduta concistoriale tenutasi a Montpellier il 4 giugno 1911, Di Giovanni sia stato “eletto, all’unanimità, e tra grande entusiasmo, socio del Felibrige”. E veniamo alla terza connotazione del volume, quella di natura teologica.
Cucinotta e Di Giovanni sono sicuramente uomini di fede e la fede è stata per loro un riferimento ideale e valoriale che ha sempre accompagnato il loro cammino. Ma quale fede è presente nella loro corrispondenza ? Noi crediamo che nell’epistolario sia presente la testimonianza di un vissuto nel quale la fede non appare una verniciatura, una devozione, una alienazione dalla storia, un atteggiamento sentimentalistico, ma il fondamento delle loro esistenze su cui poggiano le risposte a tante domande di senso. Il carteggio ci offre infatti un vissuto di fede caratterizzato da due atteggiamento fondamentali: – un atteggiamento orante: più volte nelle lettere Cucinotta afferma di chiedere nella preghiera forza al Signore: “…prego per te il Signore e per la tua famigliola affinché, povero naufrago, tocchi la sponda…( 22 agosto 1904); – un atteggiamento di fede aperta alla storia e ai segni del tempo: Cucinotta e Di Giovanni riportano nei loro scritti le ansie dei poveri e degli umili, avvertono che la fede non può essere una alienazione dalla vita ma l’annuncio di una liberazione, e questo atteggiamento – quando si scrivono – si percepisce con estrema chiarezza. Se Cucinotta proietta la sua fede nel sociale con le sue battaglie nel quadro dell’affermarsi della modernità, Di Giovanni, per esempio, con la sua Ode “Cristu” attira l’attenzione di critici, studiosi e docenti universitari, i quali tessono lodi dell’opera che ha una visione teologica nella quale Cristo viene incarnato nella storia, non rimane chiuso nelle chiese o appeso alla croce, ma cammina nel mondo accanto alla dolente voce dei contadini, ai reietti della zolfara, in cui personaggi di un nuovo inferno dantesco sono dannati da vivi e attendono di essere liberati: “una carnaia, no di morti ma di vivi, un ‘caracaruni’ che di notte, ‘fuma scunsulatu’, mentre ‘supra la montagna’/s’allarga scuru lu celu stiddatu, /si fa cchiù visitusa la campagna”. Questo libro ha infine una duplice connotazione letteraria: sia sul versante intrinseco che su quello estrinseco della scrittura epistolare. In vari passaggi si nota chiaramente che nel carteggio si incontrano le note di due poeti di grande sensibilità umana e con grandi capacità trsfigurative.
Nella lettera di Cucinotta a Di Giovanni del 2 novembre 1904, ad esempio, c’è una partitura ricca di soavità lirica e di capacità diegetica ed estetica che trasforma il testo della lettera in un bozzetto lirico di grande efficacia: “Qui si sente la montagna coi freddi intensi. Colline silenziosissime: viali splendidi, fronteggiati di pini, pioppi, querci..Da la mia finestra vedo uno sfondo poetico di colline e gruppi di cipressi e…una noce…”
Questa capacità lirico-trasfigurativa non passa inosservata a Di Giovanni, che, nella sua missiva del 13 novembre del 1904, così risponde: “Ho visto nelle tue pittrici parole il paesaggio montano di Piazza Armerina e la poetica quiete della tua stanza con quello sfondo incantevole della finestra, di colline, gruppi di cipressi…una noce”.
Cucinotta e Di Giovanni non scrivono dunque per fare opera di erudizione, ma perché credono nell’arte, nella poesia come strumenti per “animare” la storia del loro tempo; concordo quindi con i curatori dell’opera quando affermano che “L’arte diviene strumento salvifico, sia in senso materiale che in senso spirituale”.
Questo volume curato da Rosalba Anzalone e Franco Biviano costituisce sicuramente un “patrimonio valoriale” per accrescere la memoria storica e culturale del nostro tempo. Riportando alla luce queste lettere, i due curatori ci hanno consentito di accostarci ad una scrittura epistolare dallo stile originale e necessitata da una forte esigenza di comunicazione: ai due letterati non interessa tanto la teoresi, il pensiero astratto ed asettico, quanto invece la sua applicazione nell’esperienza quotidiana.
Per Cucinotta e Di Giovanni tutto è espressione vita, ed è per questo che fanno ricorso a strumenti linguistici idonei a comunicare con immediatezza ed efficacia, ad un linguaggio non cavilloso, ma semplice, convincente, lineare ed aperto, poiché finalizzato non all’ estetica ma all’etica della vita, considerato che questi due intellettuali del primo Novecento non volevano sicuramente incantare, ma comunicare la testimonianza del loro cuore, che, a distanza di anni, è venuta alla luce grazie a questo lavoro di Rosalba Anzalone e Franco Biviano, la cui pazienza e ricerca certosina meritano tutto l’apprezzamento possibile e il riconoscimento della cultura regionale siciliana.

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