IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. La morte “ladro nella notte” e “dies natalis” nel poemetto lirico del palermitano Di Marco

foto poemetto

salvatore_di_marco1“Nella vita l’unica cosa certa è la morte, cioè l’unica cosa di cui non si può sapere nulla con certezza”. Pensando a queste parole di Sören Kierkegaard, mi sono accostato con piacere alla lettura del poemetto “Il canto della mia morte” di Salvatore Di Marco, intellettuale palermitano che ha attraversato da protagonista, sia nella veste di poeta che in quella di letterato, gli ultimi cinquant’anni della storia letteraria siciliana, e che ha altresì segnato con la sua attività letteraria, poetica e critica, il cammino culturale del ‘900 siciliano. Un personaggio che ha indagato, in particolare,

i processi più significativi della poesia dialettale siciliana, dando un contributo di grande spessore alla valorizzazione della nostra lingua.
Di Marco apre i versi del suo poemetto, edito dall’ Accademia di studi Cielo d’Alcamo di Palermo, con un riferimento al testo paolino di 1 Cor.15,55, dove Paolo elabora una teologia della morte e risurrezione di Gesù e testimonia che nella prospettiva della fede biblica Cristo ha vinto la morte. Se, dunque, “ è certa la morte” ed è certa l’incapacità della ragione di comprenderla pienamente, come si evince dalle parole del filosofo Kierkegaard, è altresì certo, che c’è una visione “altra” della morte, che la fede delle comunità paoline ha accolto e vissuto.
E cos’è la morte per Di Marco?
Non è un semplice dato biologico, quanto un “evento”, da un lato, e, dall’altro, il più intimo e singolare dei vissuti umani: “essa m’è dentro nell’anima, / s’è annidata dove arde la mia mente…”(…) “…essa possiede il mio volto, la voce,/ i sensi, s’impossessa della mia storia, / pratica le mie virtù e confida nei peccati, / non rimessi, ama i miei pensieri…”.
Il “canto” di Di Marco ci offre, dunque, due modi diversi di rapportarsi alla morte, i quali corrispondono alle due figure della ragione e della fede. In quanto costituisce un “fatto”, la ragione poetante oggettiva la morte , mentre, in quanto vissuto interpretato dalla fede, la morte costituisce l’essenza stessa del vivere umano ed è indissociabile da esso, per cui il senso del morire già appartiene al senso del vivere.
Nella stesura del poemetto trovano, anzitutto, chiara oggettivazione razionale le domande di senso del “nous meditativo” del poeta, che descrive la morte come “spaesamento” e “logoramento”: “..mi sottrae d’un colpo vorace / un tratto fondo della vita: essa raccoglie / un grumo di cellule e qualche stilla / del mio sangue…”(…) “… ed essa mi si fa punta maligna di freddo,/ infausta tramontana, o morte sorniona,/ morte ladra, morte beffarda, morte sovrana…”.
Il poemetto si pone , poi, in posizione critica rispetto alla tesi condivisa da una gran parte della letteratura contemporanea che punta su una “rimozione della morte”: una rimozione pratica, a livello di condotte sociali, ed una rimozione teorica, relativa alla mediazione culturale del fatto.
Il poeta, invece, non la rimuove, la affronta come un “frattempo”, come un tempo intermedio, non trasformandola in fantasma che prende possesso della mente degli individui come interrogativo tanto inquietante quanto inespresso.
Il poemetto di Di Marco si snoda, ancora, con una serena prosodia lirica ove la geometria delle immagini supera la sofferenza del trapasso e fa’ della morte non più un evento di paura, ma un “esodo spirituale”, un passaggio liberatorio verso uno stato di beatitudine, in cui la morte si rivela “sapiente”, la morte “è suprema durata, e noi / suoi perenni testimoni e suoi padrini…”.
La morte , è per il poeta, “ ladro nella notte” ”, è fine subita, “è punto di arrivo”, è raggiungimento della propria definitività, ma è anche azione , nel senso che viene da lui percepita come accadimento che conclude definitivamente il processo attivo della vita vissuta in libertà.
Di Marco nella sua lirica sembra voler affermare che la morte non fa più paura perché c’è la risurrezione, e che la morte non va subita ma vissuta nel suo senso più pieno; così facendo, egli allinea la sua versificazione al linguaggio dei santi che chiamavano la morte “sorella”, non perché non ne sente o non ne avverte la crudezza e il dramma, ma solo perché la inserisce in una prospettiva di fede più ampia, in una visione teologica nella quale la morte è per l’ esaltazione della vita, la morte diventa “… il dono / finale atteso oltre la nostra precarietà / oltre la fatale alleanza terrena, oltre / il nativo connubio che già trascende…”
La fede del poeta, in sostanza, integra e accompagna la sua ratio, che si arrende di fronte al mistero della morte, fa’ un atto di umiltà affermando “Non so, Signore, che significhi la morte,/ nulla comprendo della mia morte personale, / e non lo sa lei, e mai lo seppe chi mi generò…”. Insomma, la morte è , per il poeta, avvolta nel segreto di Dio, e le sue orme sono incise nel cammino dell’uomo che viaggia in attesa di capirne il senso.
Di Marco rivive nel suo canto della morte il pensiero paolino quando afferma che “i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio (cfr. 1 Cor 2,11); e la morte di Cristo è un segreto di Dio e uno dei più abissali. La morte, nel poemetto, non è allora l’annientamento nel nulla , ma la cattedra dalla quale si apprende il valore della vita( “… è la mia sola, la mia vera maestra / la morte …), si fa esperienza del “dies natalis” (“…rinasco uomo millenario, / piccolo vagabondo in eterno viaggio / verso Dio…”), si comprende la propria finitudine. Da questa cattedra Di Marco non mostra paura a parlare della morte, proprio in un tempo in cui, direbbe Pascal , “gli uomini, non avendo potuto guarire la morte hanno ritenuto per vivere felici, di non pensarci”.
Di Marco canta la morte con naturalità e questo colpisce fortemente proprio oggi che viviamo in una società “a-mortale”, che pretende di rimuovere la morte negandola, riducendola ad un tabù oppure spettacolarizzandola in modo banale.
Il poeta , al contrario, vi si fa incontro con la meditazione lirica e non vi sfugge perché mai gli è sfuggito il senso ultimo della vita; si apre all’ascolto di Dio che – si legge nei versi – “mi parla con voce pacata / che qui mi cade come una pioggia/ e ogni cosa resta intrisa d’acqua, /quieto stilla il suo lieve canto/ ‘ama la tua morte che pure ti ama’ …”.
Sono , quest’ultimi, versi che tralucono di fede e di attesa e che attestano come della morte si fa esperienza nella vita, ancor prima della morte biologica, nell’esperienza della finitezza, nell’esperienza della malattia e della sofferenza, nell’insuccesso; e come l’uomo convive con la morte, nella “prolissità della morte”.
La “prolixitas mortis” di cui parlava Gregorio Magno, ossia il suo riflesso sulla vita, attraverso le esperienze di fragilità, di finitudine, di mutevolezza è il leit motiv che attraversa tutto il poemetto e che approfondisce in chiave poetica l’universalità della morte, l’interpretazione della separazione e del distacco tra anima e corpo, l’ermeneutica della morte come fine dello status viatoris, da intendere non solo come conclusione, ma come compimento definitivo dell’uomo, recuperandone un ruolo di compartecipazione “attiva”. “Il canto della mia morte” di Salvatore Di Marco è sicuramente la rappresentazione della sua parabola umana in chiave poetica ed escatologica, nella quale è presente la dialettica tra dimensione naturale e carattere di “poenalitas” della morte, tra passività ed attività, tra finitudine ed eternità, tra distacco dal mondo e accoglienza della morte come dono, come “carità della fine”.
Nel canto di Di Marco morte e vita – “confluiscono- direbbe Einstein – in uno e non c’è evoluzione né destino, soltanto essere”; morte e vita convivono nell’unità di un’anima, quella del poeta, che alla sua veneranda età ci testimonia , come direbbe Paulo Coelho , che “la consapevolezza della morte ci incoraggia a vivere”, mentre il suo cuore e la sua mente sono in attesa di entrare nella Verità, nella mensa “dell’ultima cena”, dove la morte non sarà più “velata” ma avrà il sapore di una “morte senza morte” di quasimodiana memoria.

Condividi su facebook
Facebook
Condividi su twitter
Twitter
Condividi su whatsapp
WhatsApp
Condividi su email
Email
Condividi su print
Stampa