IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. PRIMA GUERRA MONDIALE: MEMORIE DI SOLDATI E FAMIGLIE DEGLI IBLEI

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“Prima Guerra mondiale. Memorie di soldati e famiglie degli Iblei”: è questo il titolo di un interessante volumetto, edito nel giugno 2015, che contiene un diario, cartoline, lettere e racconti di guerra raccolti e redatti da alcuni studenti del Liceo Classico “Galilei –Campailla di Modica, sotto la sapiente guida del docente di Lettere Emanuele Nifosì.

A cimentarsi nella ricerca sono stati gli studenti Carolina Cavallo, Graziana Oddo, Paola Fargione, Sara Blanco, Rosamaria Noto, Jacopo Lauretta, Erika Avola, Pietro Spadaro, Myriam Russo, Marianna Frasca, Giorgio Blandino, Mariapia Scollo, Giulia Gulino, Francesca Riccotti e Francesca Calabrese, i quali si sono addentrati, con la passione e l’intelligenza della lettura , nell’analisi di fonti orali e nella rielaborazione di documenti storici che riportano alla luce accadimenti e riflessioni, sentimenti e sofferenze, drammi di uomini, donne e fanciulli posti di fronte alla guerra, alla fame e al dilemma tra la vita e la morte.
Il testo, che si avvale di una nota di prefazione del Dirigente scolastico del “Galilei-Campailla”, prof. Sergio Carrubba, si apre mettendo il lettore di fronte al Diario di guerra del Sottotenente – Medaglia d’argento al valor Militare- Francesco Monisteri. A scandagliare il diario è la studentessa Carolina Cavallo, la quale , prendendo spunto dal personale blocchetto del taschino di Monisteri, di cent. 12×7 e del 1 luglio 1915, mette i lettori a contatto con la testimonianza di questo ufficiale che, partito da Catania, intraprende il suo viaggio raccontando tutte le peripezie della vita in guerra, tra un rancio che non arriva, la nebbia che avvolge tutto, la mancanza di pane, il sibilo degli spari che attraversano i campi di guerra e i bombardamenti che si profilano all’orizzonte, i morti e i feriti che vengono curati negli accampamenti:
“Quanta acqua stanotte! Poveri compagni delle tende e delle trincee – scrive Monisteri il 25 luglio 1915 nel suo Diario riportato da Carolina Noto -. Io non ho potuto dormire affatto perché si era troppo stretti! Verso le 4 ci hanno fatto allontanare dall’alloggio perché si deve intraprendere dalle nostre artiglierie un bombardamento. Addossati ad una roccia assistiamo difatti allo spettacolo. I proiettili ci passano a centinaia sul capo. Quelli austriaci scoppiano soltanto su una nostra batteria. Essi sono col fumo di due colori: bianco e rosso. Quanto fuoco! Ecco passare, diretta al cimitero, una barella con un soldato morto. E’ caduto ieri, colpito da un fulmine, mentre era nella trincea. Quattro suoi compagni sono stati feriti e sono passati essi stessi sulle barelle (pag.36 del diario)”.
Le parole del soldato Monisteri rivelano la grande forza d’animo di un uomo che soffre, che lotta per una causa, che cerca di fare il suo dovere mentre si barcamena per non cadere nella trappola della morte, ma che ha anche nel cuore l’amarezza di vedere scivolare davanti agli occhi cadaveri che vengono seppelliti:
“Oggi – scrive il Sottotenente – ho assistito ad una mesta cerimonia. Il seppellimento di un mio amico dell’8^ colpito da una pallottola austriaca sopra il labbro superiore. E’ stato fulminato ieri. Il cimitero ha ora 8 tombe perché alle prime 5 si sono aggiunte quelle del soldato fulminato, quello di un caporale precipitato nel cogliere stelle alpine e quest’ultima”.
Leggendo il diario di Francesco Monisteri, che occupa ampiamente la prima del volume, si ha davvero la sensazione di assistere ad un percorso dove storia e memoria si intrecciano nell’unità di una testimonianza – come scrive Emanuele Nifosì nell’introduzione del libro – “avvincente e palpitante nella narrazione”, attenta e puntuale “nella registrazione dei giorni e delle ore”. La narrazione, infatti, si dispiega come il “moto dell’anima” dell’estensore, che fissa lo sguardo su drammatici momenti bellici provocando nel lettore del suo diario sentimenti contrastanti, grazie anche all’utilizzo di similitudini e metafore che fanno del diario, in alcuni casi, un testo di pregio letterario.
Anche la vicenda del soldato Paolo Oddo, nato ad Avola nel 1898, ritornato nella sua terra con una paralisi al braccio e con un fratello caduto tra gli orrori bellici, vicenda riportata dalla studentessa Graziana Oddo, affonda il bisturi nella tragicità della Prima Guerra Mondiale, durante la quale – come si legge nel volume – “uomini analfabeti venivano fatti ubriacare e poi mandati tra le prima fila degli schieramenti come ‘carne da macello’ , mentre una forte commozione assale il lettore nel leggere la storia di una donna del 1918, della quale si occupa la studentessa Paola Fargione. Si tratta di Maria, vedova di guerra, che viveva in un paesino al confine tra l’Italia e l’Austria, con due figlioletti piccoli: uno di sei anni e il secondo di appena dieci mesi. La narrazione ricostruita dalla giovane studentessa, ci mette al cospetto di una donna coraggiosa, orgogliosa o forse incosciente, che in preda alla disperazione, – al vedere il soldato che gli strappa con ferocia il bambino dalle mani mettendolo “sulla bocca di quei grossi cannoni in segno di minaccia per la sua insistenza” nel chiedere spiegazioni -, non si fa intimidire e, spinta dall’amore per il figlio, si aggrappa, urlando, alla divisa del soldato per farlo desistere dal suo gesto.
Il fatto raccontato nel testo suscita davvero sconcerto e indignazione e aiuta i giovani di questo tempo a riflettere su tutto ciò che ha scatenato la Grande Guerra, ma offre anche una riflessione sul fatto che l’uomo-soldato, pur se ridotto a carnefice, sente di avere dentro di sé un cuore, un’anima, tant’è il soldato non ebbe il coraggio di uccidere il bambino e – come si legge nel testo – “Ebbe grande rispetto per quella povera donna, le consegnò il bambino che piangeva”(…), forse perché anche lui “aveva pur sempre un cuore, era probabilmente anche lui un padre e un marito, che non aspettava che ritornare a casa dai suoi figli”.
L’universo memoriale di questo libro è ancora costellato di racconti tanto interessanti quanto dolorosi, come quello riguardante la storia di Giuseppe, un ragazzino di dieci anni che nel 1917, pur di portare qualcosa da mangiare alla sua famiglia, costretta dalla guerra alla miseria e per questo desideroso salvarla dalla fame, ruba un contenitore di marmellata; oppure come quella che narra la studentessa Sara Blanco, la quale offre ai lettori una storia di sacrifico e di coraggio: quella del suo bisnonno, Pietro, che ha vissuto un pezzo della Prima Guerra Mondiale.
Il racconto della giovane studentessa è inquietante e descrive la testimonianza di Pietro in uno dei posti più terribili della guerra, ossia la trincea, luogo nel quale abbondano pidocchi e infezioni, dove la morte è a un passo, ma dove, nonostante tutto, si va con la speranza di non morire e di poter ritornare agli affetti dei propri familiari.
La testimonianza di Pietro, sposato con Mariannina, è molto ricca di pathos interiore, lascia intravedere il dramma del soldato che, da una parte, sa di dovere lottare per la libertà e la sua patria e, dall’altra, vive dentro di sé la paura della morte e la tentazione di nascondersi, oppure di alzare il braccio per essere ferito e, quindi, tolto dalla trincea per essere curato nel campo e probabilmente rimandato a casa:
“Il mio bisnonno – scrive la studentessa – non alzò mai le braccia per essere colpito, continuò a sperare di sopravvivere a questa follia. Passò molto tempo prima che Pietro potesse ritornare a casa; fortunatamente non fu mai colpito e così la speranza si tramutò in realtà. Potete immaginare la gioia di Mariannina quando vide tornare suo marito vivo a casa”.
Avvincente, dolorosa e connotata di sentimenti interiori sofferti e laceranti, è la testimonianza di Sebastiano Guastella, nato il 1883 a Pozzallo e sposatosi con Rosa Agosta il 24 maggio 1915, testimonianza raccolta dalla studentessa Rosamaria Noto, che è riuscita ad averla dalla voce e dai ricordi della nonna e di un suo nipote.
Ciò che traspare dalla narrazione è la storia di un uomo che, emigrato in America per motivi di lavoro, si vede costretto a rientrare in Italia per entrare a far parte della macchina della Grande Guerra, portandosi al fronte al confine tra Austria e Italia per essere collocato nel reparto sanità come portantino dei feriti. Una storia, dunque, poggiata sulla condivisione del sangue dei feriti, del dolore di uomini che tornavano dalla trincea, e che ci dà lo spaccato di ciò che era la guerra: un tempo di vita dura, precaria, di “una vita da cani”(…), di una vita in cui “si alternavano – scrive la giovane studentessa – giorni di indescrivibile noia, solitudine e nostalgia per la vita precedente e giorni, invece, di indescrivibile orrore e strazio atroce e continuo, scanditi dalla tetra falce della morte che, così come si miete il grano in primavera, non faceva altro che mietere vittime su vittime”.(p.47).
Il Guastella raccontato dalla giovane Mariapia Noto è quello di un uomo analfabeta che si affaccendava a prestare soccorso ai feriti, a corpi lacerati e straziati, a corpi con le cancrene in atto, a corpi amputati e moribondi, nonché a dare tutto se stesso per medicare ferite, alleviare sofferenze , infondere forza e coraggio a sé e agli altri al fine di “vincere quel senso di smarrimento – si legge nel testo – , di orrore, di furore che di fronte a quell’esecrando scenario di tanta devastazione e di tanta gioventù mutilata, martoriata, abbattuta, gli opprimeva animo e cuore” , facendogli gridare in aria un urlo alla notizia della morte di un suo caro compagno di guerra : “malaritta sta guerra!Era nu uommunu buonu”. Un storia, quella di Sebastiano Guastella, che vede fortunatamente il suo ritorno nella sua amata Pozzallo , ove si risposa con Santa Maltese vivendo da contadino.
Il patrimonio storico di cui questo volume è dotato, è rappresentato anche da varie lettere presenti nel testo, nonché cartoline e foto. Molto bella e pervasa di sentimenti semplici e sinceri appare la cartolina di guerra, datata 26 ottobre 1916, che Francesco scrive alla moglie e che viene riportata da Jacopo Lauretta, come pure interessante risulta la lettera, fornita da Erika Avola, che il 3 luglio 1942 il soldato Rinaldo Cassisi scrive ai suoi genitori annunciando loro, fra le altre cose, che “lo stipendio che mi danno è quello di Ufficiale, ed è il distretto di Ragusa che dovrà farvi avere l’importo” , e dove, inoltre, dà coraggio ai suoi cari invitandoli a stare” tranquilli che tutto andrà bene ed il pericolo o i pericoli saranno felicemente superati”(p.57).
La tessitura narrativa di questo libro si arricchisce ulteriormente con le storie di altri soldati in guerra. La storia di Giuseppe Calvo, nato a Modica il 23 aprile del 1890, e raccontata dallo studente Pietro Spadaro, ci mette a contatto con un uomo che lascia la moglie incinta, la madre e parte per svolgere il proprio dovere di difesa della patria. E’ una partenza dolorosa, che si ritempra, nonostante la guerra, all’arrivo di una lettera che gli comunica di avere una figlia, Orazia. Una gioia, la sua, che si unisce alla speranza di poterla vedere ed abbracciare, speranza che si concretizza quando arriva il momento del ritorno a casa con il titolo di cavaliere di Vittorio Veneto e con una ricompensa in denaro di 300 mila lire, una medaglia d’oro e due crocette di bronzo.
Altra storia avvincente è quella narrata della studentessa Francesca Riccotti, che raccoglie nel volume la testimonianza di un suo bisnonno, Francesco Riccotti, piccolo orfanello accolto da una signora che lo allevò e lo fece crescere, e che all’età di 19 anni fu chiamato a partecipare alla Prima Guerra Mondiale. Partì ma senza lasciare affetti, persone care, tant’è che, nonostante gli fossero dati giorni di licenza, non aveva nessuno da cui tornare. La storia del soldato Riccotti risulta connotata anche da fughe dalla prigionia(ben tre volte) e si conclude con la sua esperienza matrimoniale al ritorno dalla guerra. E ancora altre testimonianze si trovano nel libro, come quella di Rosario, anch’egli partito per il fronte; quella di Emanuele Cucchia, secondogenito di nove figli, che venne destinato al rifornimento di truppe e che durante la Grande Guerra ritornò in Sicilia solo una volta e che si ammalò di polmonite morendo dopo giorni di febbri violente; quella raccontata dalla studentessa Mariapia Scollo e riguardante il soldato Giovanni, che riesce a scampare alla morte per puro miracolo, essendosi allontanato dalla tenda qualche attimo prima che venisse attaccata e distrutta. Fu dato per morto, come tutti gli altri, ma così non fu, tant’è che potette ritornare nella sua Modica e abbracciare la moglie Carmela e i due suoi figli.
Chiudono infine il volume le storie raccontate da Giorgio Blandino e da Giulia Gulino. Quest’ultima offre al lettore la testimonianza di Emanuele Bartoli, pecoraio di Barrafranca, e di Peppino che si “trovò a sperimentare che cosa fosse la guerra vera e propria. Avvenne in un paesino del Trentino Alto Adige, un posto pieno di neve. Lo schieramento fu attaccato all’improvviso, colto di sorpresa dal nemico. Si erano difesi – racconta la giovane studentessa, ma alla fine il terreno era pieno di cadaveri e il bianco della neve mischiato al rosso del sangue. Tanti, troppi uomini erano morti, colti in fallo dalla sporca mossa del nemico. I superstiti s erano pochi…ma tra loro c’era Giuseppe”(p.86).
Questo libro ha sicuramente un suo valore letterario perché le “storie di vita” che racconta disegnano una sorta di prosopo-grafia “dal basso”, distribuita su racconti articolati sia su momenti soggettivi che su momenti comunitari, con un livello narrativo di memoria storica: da un lato la guerra e i suoi effetti distruttivi, i rapporti tra soldati, le lettere alle persone care, le paure nella trincea, la fame, la sete, la prigionia, le vittime accavallate come animali e la morte; dall’altro lato i valori della libertà e della patria, della la solidarietà e dell’amicizia.
Credo che di fronte alla considerazione dei giovani che hanno ormai perso il senso della memoria (quella che conservava e tramandava in primis la famiglia con i suoi riti, le sue occasioni periodiche di incontri parentali allargati e la trasmissione per narrazione da parte degli anziani), il compito di un racconto letterario sia quello di far capire che non può esserci “oggi senza passato”. E questo è quello che in fondo scaturisce dalle pagine del libro curato da Emanuele Nifosì e dai suoi allievi, pagine che mirano a far capire come e perché la società di oggi è diventata quella che è, e dunque come siamo fatti noi, uomini dei nostri giorni.
Questo volume che assume storie di vite, vicende e accadimenti come quelli che hanno caratterizzato la Prima Guerra Mondiale e che vengono raccontati dai giovani studenti del “Galilei – Campailla”, non costituisce – come potrebbe sostenere Nietzsche – “un’occupazione da vecchi”, un “culto dei morti”, un “guardare indietro”, ma uno strumento di comunicazione culturale ed educativa per farsi un’idea di uomini e di cose del passato, al fine di comprendere i problemi del presente.
Questo libro assume ulteriore validità anche sotto un altro aspetto, quello della valorizzazione delle fonti orali come strumento dell’indagine storica e come “documenti di memoria”, e consolidano l’idea che le fonti orali sono indispensabili per tutte quelle situazioni per le quali il documento scritto non esiste o è presente in maniera episodica o comunque insufficiente.
Spesso esiste una sorta di diffidenza per le testimonianze orali, e si sostiene che la “storia orale” (etichetta coniata dagli inglesi: “ oral history ”) sia una pseudo-ricerca storica basata esclusivamente su interviste. Non ci interessa entrare in questa problematica, ma è pur vero che senza il ricorso alle “storia orale” non avremmo avuto questo testo, che testimonia come sia importante nella scuola fare in modo che le nuove generazioni (e forse non solo loro) non si vadano assuefacendo “ad un oggi senza passato”. Questo volume ci attesta che le fonti orali hanno una loro validità sia come testimonianze su avvenimenti vissuti personalmente o tramandati oralmente, sia come testimonianze di modi di pensare, valori e opinioni, sia come testimonianze di aspetti del vivere, belli o brutti che siano, sui quali le fonti scritte semplicemente non esistono.
La vera “fonte” – sembrano dirci gli autori di questo libro – è stata la persona stessa con cui hanno parlato o il testo scritto che hanno ritrovato e letto per non lasciare nell’oblio storie e testimonianze che
appartengono alla nostra identità collettiva.

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