IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. “La finzione vissuta”, di Graziella Corsinovi. Percorsi pirandelliani: tra filosofia, psicologia, drammaturgia

GRAZIELLA CORSINOVI

foto copertina PirandelloNel vasto e variegato panorama di studi pirandelliani, un saggio critico originale e illuminante può ritenersi quello che Graziella Corsinovi, docente di Storia del teatro e dello spettacolo e di Letteratura Italiana presso l’Università di Genova, ha pubblicato nel 2015,

entrando in modo deciso e puntuale all’interno della grande opera di Luigi Pirandello. “La finzione vissuta. Percorsi pirandelliani: tra filosofia, psicologia, drammaturgia”, è il titolo del volume pubblicato da “Le Mani Edizioni”, e dedicato dall’Autrice alla memoria di Enzo Lauretta, “indimenticato Presidente” del Centro Nazionale di Studi Pirandelliani.
Già nota a livello internazionale soprattutto per i suoi contributi critici su Pirandello, tra i quali “Pirandello e l’Espressionismo”(1979), “Pirandello – traduzione e trasgressione” (1983), “La persistenza e la metamorfosi, Pirandello e Goethe” (1997), Graziella Corsinovi in questo nuovo saggio si cimenta in una analisi critica sviluppata su assi tematici che convergono nell’unità di un pensiero che mette al centro il concetto di “finzione” intesa nel suo senso etimologico originario di costruzione psichica, e come unica porta, per l’uomo, di accesso alla realtà e al suo mondo interiore, oltre che come possibilità di cogliere “la verità senza realtà”.
L’Autrice riesce, dentro questa prospettiva, a mettere in collegamento tutte la varie forme di finzione che attraversano l’opera pirandelliana: dalle “finzioni dell’anima” alla “finzione delle parole”, alla “finzione vissuta” che vede l’uomo ora “pupo”, ora “maschera”, ora “attore che recita come in un teatro”, fino ad arrivare ad un “oltre” della finzione inteso come “ricerca dell’auroralità dell’Essere”.
In apertura del suo saggio, Graziella Corsinovi rileva come Pirandello rappresenti l’emblema della crisi della modernità e, parafrasando un detto di Benedetto Croce, sostiene che “potremmo dichiarare che ‘non possiamo non dirci pirandelliani’ ”. Un’affermazione davvero forte e, direi, anche provocatoria, ma che l’Autrice argomenta con dovizia di particolari e analisi critiche acute e intriganti, ricorrendo ad una lettura certosina di testi come “Maschere Nude”, “Uno nessuno centomila, “Arte e Scienza”(1908), “Fu Mattia Pascal”(1904), “Novelle per un anno”, i tre miti “La nuova colonia 1924 (mito della società), “Lazzaro 1928 (mito della fede), “I giganti della Montagna, 1934 (mito dell’arte), miti riuniti in “Maschere nude”.
La tesi di fondo dell’Autrice si essenzializza nell’idea-madre secondo la quale l’opera pirandelliana, nei suoi versanti narrativi e teatrali, “pone al centro l’inconoscibilità del reale e l’inattingibilità del vero, ipotizzabile ma non conoscibile”, atteso che secondo Pirandello l’attività psichica – stando all’analisi della Corsinovi – si riduce “ad una successione di finzioni, finzioni dunque ‘necessarie’ ed ineliminabili, per cui l’agire e il sentire umano si configurano come una rappresentazione di ‘maschere’, anzi di ‘maschere nude’ perché deprivate da un qualunque principio ontologico che le giustifichi e di un centro stabile che le unifichi”.
Il supporto scientifico alla sua tesi trova, certo, radicamenti in tanti studi pirandelliani, ma l’Autrice va oltre per affermare che “al di fuori della finzione del nome, come al di fuori di ogni finzione psicologica, l’io non ha realtà”; l’io, nella visione di Pirandello, sarebbe privo del suo “ubi consistam”, agirebbe come attore imbrigliato in “un ‘meccanismo indefinito di finzioni necessarie’ per vivere, ma non sufficienti a garantire la stabilità dell’essere”.
L’uomo, dunque, non ha certezze e quando presume di averle, basta un soffio per mandare all’aria le sue varie costruzioni. Pirandello, secondo l’Autrice, cerca di “ricongiungere, in un utopistico primum, Essere ed Esistere, aprendo come prospettiva la possibilità per l’uomo di un oltre, di vedere con altri occhi, con il sentimento del contrario, “l’oltre” di se stesso ponendosi in collegamento con “l’oltre” della dimensione vitale.
Molto interessanti appaiono nel volume gli approfondimenti dei tre miti riuniti in “Maschere Nude”, miti che riprendono le antinomie pirandelliane tra realtà e verità, forma e vita, corpo e ombra, arte e vita, opera creata e sue rappresentazioni. Attraverso l’interpretazione dei tre miti succitati, Corsinovi tende ad affermare come Pirandello al limite e al crollo delle certezze opponga la “necessità dell’utopia di un sogno collettivo per la rifondazione – si legge nel saggio – di una società più giusta, la richiesta di una fede che non sia negazione ma esaltazione della vita attraverso Dio, la difesa dell’arte come valore perenne dello spirito”.
Questo saggio piace perché suscita, con un linguaggio comunicativo ma rigoroso e specialistico, un forte interesse attorno ai grandi temi dello scrittore agrigentino, dando al lettore la possibilità di cogliere la linea di movimento e di direzione del pensiero pirandelliano, ossia la fuga dalla “trappola” dell’esistere. E in questa linea di fuga si trovano, sicuramente,tante possibilità di declinazione della teoresi pirandelliana nell’oggi della nostra contemporaneità, atteso che appare di grande attualità la sua lezione, dalla quale scaturiscono alcune domande. La prima: la coscienza umana è una maschera dietro cui, come in windows, si aprono mille file e non si sa quale di questi vada per primo approfondito, affrontato, chiuso, eliminato o ancora non utilizzato? Oppure, seconda domanda, la coscienza , è l’incarnazione del sentimento dell’Essere dell’uomo?
Facendo tesoro solo della grande lezione di Pirandello, non ci resta che concludere che la coscienza esiste se non come maschera che, più o meno consapevolmente, ciascun individuo sceglie di indossare; e quando l’immagine che ciascuno ha di se stesso non coincide con quella che gli altri hanno di lui, l’inganno cade, e l’esistenza umana si mostra in tutta la sua miseria, sospesa nell’inconciliabilità tra vita e forma, tra essere e divenire. Emerge così tutto il malessere dell’uomo moderno condannato alla solitudine e all’incomprensione con l’altro, e destinato a rassegnarsi ad essere “Uno, nessuno centomila”, cercando di trarre beneficio dalla maschera che gli altri gli forgiano addosso (vedi Rosario Chiàrchiaro, in La patente), oppure rifiutando la propria identità socialmente connotata e avviandosi in solitudine verso l’inevitabile follia ( vedi l’Enrico IV).
A questo punto, all’uomo, per Pirandello, non resta davvero altro che “dimettersi” dalla vita come il mago Cotrone che afferma: “Io mi sono dimesso. Dimesso da tutto: liberata da tutti questi impacci ecco che l’anima ci resta grande come l’aria piena di sole e di nuvole, aperta a tutti i lambi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci disperde e solleva in misteriose lontananze. Guai a chi si vede nel suo corpo e nel suo nome”. (“I Giganti della montagna”).
L’orizzonte che, comunque, si rivela estremamente interessante è quello dell’ultima parte del libro, e che Graziella Corsinovi titola: “Oltre la finzione: alla ricerca dell’‘auroralità’ dell’Essere”, ispirandosi alle parole del drammaturgo agrigentino “Ormai preferisco sognare che vedere”(L’illustrazione italiana, 1935).
Che cosa, secondo Pirandello, può consentire all’uomo di ritrovare se stesso, di andare oltre la finzione, di ritrovare quella che Corsinovi chiama “auroralità dell’Essere? La strada che Pirandello indica è quella del mito dell’infanzia, del recupero di quei dati costitutivi che la caratterizzano, come, ad esempio, la stupefazione, la meraviglia, l’incanto, la capacità di sognare e di credere nel sogno.
In questa direzione, una lezione, se pur allo stato latente, ci proviene dal dramma del 1932 “Quando si è qualcuno”, ove significativa risulta l’epigrafe “Puerizia / Arcana favola di ricordi / Ombra chi a te s’avvicina / Ombra / Chi da te s’allontana” ; ma in modo più deciso, però, la lezione emerge ne “La favola del figlio cambiato” ove Pirandello indica nel sogno la risoluzione per liberarsi dalle scorie e dalle incrostazioni della vita: “Se siamo stati una volta bambini, possiamo esserlo sempre” – afferma Cotrone nella favola; afferma-zione cui fa eco un pensiero dello stesso drammaturgo espresso in un suo saggio portato alla luce da Donati nel 1982 e citato nel volume: “Guai allo scrittore che ad un certo punto non si ricorda della sua infanzia, dove ha radici originarie il suo mondo”.
Ecco, allora, il senso di questa “auroralità dell’Essere” di cui parla Corsinovi. E’ l’auroralità che deriva “dall’infanzia dell’anima che ci consente di sognare ad occhi aperti e di abbandonarci allo stupore della poesia; è l’auroralità che deriva dal “ricorso al mito e alla morfologia della fiaba”, e che consente a Pirandello – come sostiene Corsinovi – “di imprimere alla sua ultima stagione creativa una direzione simbolica e metaforica, recuperando anche l’archetipo junghiano del ritorno al grembo materno come possibilità di rinascere a nuova vita”. E’ l’auroralità che si configura come “esodo”, ossia come passaggio da una condizione di finzione ad un “oltre configurato “come una nuova nascita”, proprio come accade sia a Moscarda che a Cotrone e allo stesso figlio della favola, il quale “per poter raccogliere in sé la dimensione aurorale dell’infanzia, deve dimettersi dalla vita(“via tutti i bagagli”), rifiutare il potere regale e i falsi valori della materialità, del potere e della ricchezza”.
Se “l’Esistere” non è altro che – in senso heideggeriano – un Essere-per-la morte, per poter “Essere” occorre “ricomporre la lacerazione insanabile provocata dalla caduta originaria”, occorre l’annullamento del proprio ego per rinascere ogni volta, oltre la finzione, nelle nuove forme di esistenza. Emblematiche sono le parole “proclamante da Donata Genzi nella appassionata difesa della ricchezza di vita autentica, molteplice e varia, dell’attrice : ‘Perché finzione? No. E’ tutta vita in noi. Vita che si rivela a noi stessi…Evadere! Trasfigurarsi! Diventare altri’!”
Questo testo ha il pregio di rivisitare l’opera pirandelliana nella sua articolazione più ampia, dando spazio, in particolare, alla rilettura dell’ultima opera incompiuta di Pirandello, “I giganti della montagna”, ove si trova racchiusa “una straordinaria testimonianza dell’arte e sull’arte”, che induce Corsinovi a far dire a Pirandello che solo nell’arte “l’uomo può liberarsi della sua grevità materica, sciogliersi dalle ‘finzioni’ e dalla ‘trappola’ dell’esistere, riappropriandosi, salvificamente, della dimensione originaria dell’Essere prima dell’Esistere”.
L’arte, dunque, nella prospettiva pirandelliana, parla il linguaggio dell’ “oltre”, se è vero – come scrive Corsinovi – che “Solo nello stupore del poeta e nello sguardo limpido e attonito del fanciullo che si aprono al mondo, avvolgendolo nell’atmosfera magica della fiaba e del sogno”, si trovano le impronte dell’oltre. “Come in un prisma luminoso l’arte rifrange la sua luce aurorale anche nel ‘brutale mondo moderno’, e continua, nonostante tutto, ad inviare – conclude Corsinovi – i suoi enigmatici bagliori agli ‘ottusi giganti’ sommersi nell’opacità delle cure materiali. Forse anch’essi, senza saperlo , alla ricerca di quella ‘auroralità’ dell’Essere che soltanto l’arte è in grado di offrire”.

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