Ma questa è ancora una democrazia? Pochi ricchissimi e un popolo di poveri….di Saverio Terranova

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Credo che nessuno in Italia, e probabilmente anche negli altri paesi di Europa, vorrebbe mettere fine al regime democratico per imporre altre forme di governo, storicamente esistite o frutto di nuova ideologia. Salvo pochi, in rapporto alla popolazione, nostalgici dei totalitarismi, che hanno dominato l’Europa dal primo dopoguerra al secondo e, qualcuno anche fino agli albori del terzo millennio. Sostanzialmente i paesi occidentali non cambierebbero mai la democrazia con altro regime. Ciò malgrado molti, forse troppi, cittadini democratici convinti, non sono soddisfatti dell’esercizio di essa. Per fermarci all’Italia,

di cui intendo parlare, quasi il 50% degli aventi diritto non va a votare, non partecipa cioè all’esercizio primo ed essenziale di ogni vita democratica: il voto. Un altro 28% vota per un movimento piuttosto sgangherato, figlio dell’ideologia del vaffa, privo di idee e di esperienza, che rifiuta i molti inviti a partecipare al governo della cosa pubblica, preferendo la critica e le proposte più demagogiche. Con il voto un paese può non essere democratico; ma senza il voto la democrazia non è neppure possibile. Questo fatto significa che quella ampia parte della società è insoddisfatta dell’esercizio della democrazia. Si può essere insoddisfatti per le forme in cui si attua l’esercizio del voto: si pensi al sistema elettorale cosiddetto porcellum, o alla repubblica presidenziale o, anche, al sistema proporzionale, una volta considerato il vero e unico sistema di voto che assicuri la democrazia. Ma oggi credo che la maggiore ragione di rifiuto di partecipazione alla vita democratica sia il suo rapporto con l’economia, moltiplicato dalle conseguenze della crisi; per essere precisi il collegamento tra democrazia e il capitalismo imperante.
Credo non ci siano dubbi sul fatto che ogni sistema di governo debba necessariamente adottare un sistema economico: l’economia è la soddisfazione dei bisogni umani; intendo dunque puramente adottare un sistema produttivo e distributivo; distributivo della produzione, ma anche del surplus che dall’investimento e dal lavoro risulti. In parole povere la distribuzione del reddito. Nel momento in cui questo surplus spetta totalmente a colui che nell’attività produttiva ha messo il denaro siamo in pieno capitalismo. Con le sue conseguenze di stridente ingiustizia che, magari, non è più quella dell’800 ma presenta pur sempre aspetti desolanti e inaccettabili. E’, credo, questo che allontana dal voto i più. Quindi si pone un problema: il capitalismo è compatibile con la democrazia? Il problema è di difficile soluzione. Perché: se la democrazia abolisce il sistema capitalistico deve porre limiti alla libertà, ed emanare norme che finiscono col distruggere la democrazia stessa; mentre se il capitalismo è libero di esprimersi nelle forme che esso preferisce, distrugge la democrazia instaurando un potere oligarchico, più ancora che aristocratico, che della democrazia mantiene solo la cornice. Questo problema, storicamente risolto sempre a favore del capitalismo, i padri della nostra democrazia se lo posero quando nel 1944, con la caduta della dittatura fascista fondata sul blocco agrario-industriale, dovettero fondare il nuovo ordine democratico. C’erano forze rivali molto vivaci che si fronteggiavano; c’erano uomini portatori di idee opposte che si battevano per attuarle. Sorse così un equilibrio in cui la democrazia fiorì, seppur tra mille ostacoli, istaurando un regime economico in cui era impossibile che il capitalismo potesse controllare e limitare la democrazia. Lo Stato mise nelle sue mani il settore siderurgico con l’IRI che lo ampliò facendone il protagonista dello sviluppo con il piano Sinigaglia; con la fondazione dell’ENI pose sotto il proprio controllo il settore energetico primario, gas e petrolio; proseguì con la nazionalizzazione dell’energia elettrica; quindi, ancora con l’IRI, costruì e controllò il sistema autostradale, i trasporti terrestri con le ferrovie, e marittimi con una sua flotta; ampliò gli strumenti della comunicazione con le Poste e le ferrovie; si inserì nella produzione di navi, locomotive e armi; e, infine, si sostituì al privato ove questo abbandonava un settore perché poco remunerativo: il caso Pignone è emblematico. Non furono tutti rose e fiori, ma in nessun quadro ci sono solo luci. Entrò anche nel settore del cemento, delle fibre, dei fertilizzanti, della meccanica, in cui i colossi del capitalismo nostrano, come la Montecatini, la Edison, la Pirelli, l’Italcementi, avevano tratto utili immensi. Sempre attraverso l’IRI, controllò le Banche, e diresse il sistema finanziario. Investiva in opere pubbliche, nel Meridione con la Cassa del Mezzogiorno, fornì contributi agli investimenti privati, tra essi determinante il piano Fanfani-case, creando lavoro e occupazione. Lavoro produttivo. E con prudenza. Fino agli anni ‘70 tenne il debito pubblico al di sotto del 60% del PIL: 1980: 56,08%. Si pensi al percorso successivo per capirne il valore: 1990: 95,22%: 2000:109,17%; 2010: 117,21%; 2015:134,81%. In sostanza, fino al 1980 il governo obbediva ai dettami di Maastricht, che ancora non erano stati fissati, essendo stato firmato il trattato di Maastricht nel 1992. In un contesto così invasivo non poteva non esplodere il conflitto con il potere economico, dopo la luna di miele avuta all’inizio tra De Gasperi e Angelo Costa, presidente di Confindustria. Il successore, Alighiero De Micheli, vide il pericolo rappresentato per gli interessi privati e dichiarò guerra alla D.C., dapprima con l’appoggio aperto al Partito liberale, privo di successo; quindi con l’organizzazione di Confintesa, accordo siglato tra Confindustria, Confagricoltura e Confcommercio per sviluppare un’azione comune contro la politica del governo. Si costituirono sedi provinciali e rappresentanti in ogni comune. La prova decisiva si ebbe nel 1956, per le elezioni amministrative, allorché Confintesa decise di inserire propri rappresentanti nelle liste di centro, di appoggiarli con gli
ingenti mezzi di cui disponeva. Era la prova generale per le elezioni politiche. Fu un clamoroso insuccesso, che portò allo scioglimento di Confintesa. Il capitalismo non riuscì a dominare la politica. Due fatti, a mio vedere, distrussero il sistema finanziario italiano e determinarono l’inizio della crisi economica, che nel 2008 ebbe il colpo di grazia, ma non la sua causa: l’aumento del debito pubblico con il conseguente indebolimento della lira, e le regole dell’Europa, dopo l’ingresso nell’euro, ispirate al liberismo più rigido che l’Italia non poteva, come non può, tollerare: il resto, lo shock petrolifero, gli aumenti dei salari, l’accordo Agnelli-Cofferati per il punto di contingenza, potevano essere assorbiti dall’aumento costante del PIL se la nazione proseguiva nella crescita economica e il debito pubblico veniva tenuto sotto controllo. Gli anni ’80 purtroppo videro la crisi dell’industria di Stato, assalita da una parte da capitalisti assetati e da una insorta borghesia di Stato, dall’altra rosa dal lavoro improduttivo fornito dalle facili e clientelari assunzioni imposte dalla politica. Ma quello che seguì fu peggio di quanto potesse temersi. Gli anni ’90, con la fine dei partiti, con l’affermarsi di movimenti personali e qualunquisti, privi di vere idealità, essendo state solennemente bandite dalla vita politica le ideologie, videro il debito aumentare, l’inflazione divorare risparmi e stipendi, il governo ricorrere alla vendita del patrimonio industriale con il proclama delle privatizzazioni, mentre si procedeva all’aumento vertiginoso della spesa pubblica. Quindi l’ingresso nel sistema europeo dominato dal liberismo più severo. Con l’ingresso nell’euro, poi, finì anche la possibilità di una politica economica autonoma. Il sostegno a un’impresa in difficoltà congiunturale è condannato e severamente vietato come aiuto di Stato. Per l’Europa l’ILVA può fallire mettendo sul lastrico 25 mila operai e altrettanto lavoratori nell’indotto, ma non può essere aiutata a uscire dalle difficoltà. Questo è quello che pensa la grande finanza che oggi governa l’Europa; perché qui è il cuore del problema oggi: nel momento in cui c’è una nuova moneta, non governata dagli stati, coloro che di fatto se ne impossessano, perché padroni di ingenti capitali, spalleggiati da qualche governo finanziariamente forte, impongono regole che favoriscano la loro presenza e il loro dominio nell’economia reale, la condizionano, la dirigono, se vogliono, possono distruggere quella parte che non conviene loro, introducono nuovi strumenti finanziari, moltiplicando a dismisura una liquidità fittizia che solo loro possono controllare, controllando, al contempo, profitti, utili, guadagni, investimenti, salari. Il fenomeno è gravissimo. Perché la ricchezza delle nazioni è nella produzione, cioè nel lavoro; il denaro è lo strumento della produzione. Si aggiunga la globalizzazione, storicamente inevitabile, ma che da occasione si trasformò in debolezza competitiva, poi in corruttrice: molti imprenditori hanno trovato comodo vendere le loro industrie, cosicché oggi tedeschi, francesi, americani, e persino cinesi e indiani guidano gran parte della nostra economia e determinano il destino di migliaia di lavoratori italiani. Cominciò la fine dell’Italia industriale, la finanza ebbe il sopravvento sulla produzione: da strumento di essa ne divenne la padrona riuscendo a determinare i cicli economici che prima appartenevano esclusivamente alla produzione, cioè al lavoro. Oggi, con lo spaventoso debito pubblico che schiaccia l’Italia, con la globalizzazione che ha introdotto non solo nuovi e numerosi competitori ma anche nuovi capziosi strumenti di intermediazione finanziaria, con la crisi e la disoccupazione conseguente, si è verificato, e continua, a ritmi impressionanti, l’impoverimento della popolazione e il gigantesco arricchimento di coloro che detengono i capitali. E’ un nuovo capitalismo finanziario imposto e protetto dall’Europa. Unito al regime liberista, che vieta qualunque sostegno alle imprese, sta erodendo le basi stesse dell’economia italiana, che, prive di risorse naturali, può contare solo sul lavoro. Ed è sullo sfruttamento del lavoro che si è realizzata l’ascesa dei nuovi ricchi, i pochi, circa il 10% della popolazione, che da sola possiede più del 50% della ricchezza nazionale. Il fenomeno non è solo italiano, bensì mondiale. Ma in Italia, salvo pochi casi, ha una sua specificità che non troviamo in altri paesi, come gli Stati Uniti: è costruito sullo sfruttamento delle funzioni statali e dell’alleanza del potere finanziario con i poteri dello Stato. Mi sembrano sostanzialmente due le radici della crescita vertiginosa degli utili che hanno segnato la divaricazione fra lavoratori e manager, fra ricchi e poveri, aggiunta al costante e irrefrenabile indebitamento dello Stato: l’introduzione del management nelle società e la sciagurata riforma Bassanini. Questa nel 1997 fu introdotta allo scopo di semplificare la burocrazia. Il risultato fu invece complicare i provvedimenti amministrativi e creare una pletorica classe di dirigenti; quelli che prima erano capi ripartizioni una mattina si trovarono dirigenti con lo stipendio raddoppiato. Si pensi alla macchina statale, alle regioni, alle province, e, soprattutto, ai comuni, 8 mila, per intuire il numero dei nuovi dirigenti e la massa di denaro che lo Stato si trovò a sborsare, purtroppo senza averlo. Anche perché fu poi estesa alla scuola, trasformando in manager i presidi, ovviamente con raddoppio di stipendio. L’Istituto Cattaneo, tra i migliori d’Italia per ricerche sulla pubblica amministrazione, ha calcolato che questa riforma è stata causa della crescita del debito pubblico per il 58%! Poi il management. Nelle società, quotate e non, la gestione è affidata a un management estraneo alla proprietà, I manager si fissano lo stipendio, e, se poi le cose vanno male, e debbono lasciare l’incarico, si fissano anche la liquidazione. Alcuni esempi, pochi perché l’elenco sarebbe troppo lungo.
Cominciamo con le Banche, quelle che dovrebbero sostenere e sospingere famiglie e imprese. A chi giovano oggi le Banche? Ad Alessandro Profumo sicuramente: l’Unicredit lo ha licenziato con un liquidazione di 40 milioni di euro; a Corrado Passera che ha incassato 1,5 milioni come trattamento di fine rapporto; ma già aveva incassato nel 2010 per l’intero esercizio oltre 3,8 milioni di cui 1,5 come bonus. A Geronzi, a.d. del gruppo Generali, 16,65 milioni di liquidazione. A Gianni Zonin, presidente della Popolare di Vicenza, che, mentre essa andava verso il fallimento, 5 miliardi di perdite nel 2015, egli si liquidava un milione di euro come gli altri anni. Certo, non giovano ai correntisti della sua banca che hanno perso 42.000 euro ciascuno. Né, in tutta Italia, alle aziende che dal 2008 boccheggiano. Ovviamente quelle che hanno resistito alla crisi, perché circa 300 mila non ce l’hanno fatta e hanno chiuso, o sono fallite, causando così la perdita di alcuni milioni di posti di lavoro, oltre il 25% del PIL. La gente, quella comune, che lavora, risparmia e porta i suoi soldi nelle banche, si chiede: si mette in carcere un sindaco perché ha favorito un appaltatore per la costruzione di due piscine, ovviamente per allargare il suo consenso elettorale, e poi si consente che un personaggio porti una banca al fallimento, si dimetta in tempo portandosi via milioni di soldi dei risparmiatori, e non gli si contesta nulla. E gli si permette di godersi il mal tolto. E’ questa l’Italia democratica? E la Popolare di Vicenza non è la sola. A parte quelle della Toscana e del Veneto, salvate dallo Stato, che hanno depredato la clientela, quante sono in Italia che hanno sostenuto famiglie e imprese nel momento più difficile dal dopoguerra? Ma questi guadagni non sono il massimo in Italia. Ecco alcuni, pochi ma significativi, dello scandaloso arricchimento dei manager: Sergio Marchionne. A.D. FCA, stipendio annuo di 6,500.000 euro, nel 2014 ha ricevuto 31milioni; si aggiungono i bonus: l’ultimo è stato di 24,7 milioni. Luca di Montezemolo, Presidente Ferrari: 7,500.000 €; Tronchetti Provera, Presidente Pirelli: 5.600.000 euro; Paolo Scaroni, (già) A.D. ENI: 4,400.000 euro
Qualcuno potrà osservare che Marchionne ha realizzato qualcosa di eccezionale: ha salvato dal fallimento la FIAT con il matrimonio con Chrisler, E’ vero. Ma, a parte la sede sociale fissata a Londra e la sua residenza fiscale in Lussemburgo, l’emolumento è, a dir poco, immorale. Valletta, negli anni ’50 guadagnava 20 volte lo stipendio di un dipendente FIAT; Marchionne guadagna quanto 2000 operai. Mi si consenta un riferimento storico: Milziade, dopo la vittoria di Maratona, con cui salvò Atene, la Grecia, e l’Occidente dalla invasione persiana, chiese all’assemblea di Atene una corona di alloro. Gli fu negata: ”Non hai vinto da solo”, gli fu obiettato. Una somma così sproporzionata di denaro offusca i meriti che Marchionne poteva vantare davanti al popolo italiano. Ma tant’è, questo è oggi la tendenza di chiunque può: arraffare il possibile, senza vergognarsi.
E ora un cenno alle strutture e alle aziende dello Stato, quello che più dovrebbe essere vicino al popolo, che lavora e paga le tasse; con qualche paragone con istituzioni similari straniere. E’ triste! Ma gli organi dello Stato sembra siano diventati una tavola imbandita, ove si cerca di arraffare più che si può. Gli emolumenti sono tutti superiori a quelli degli stati europei, anche se più ricchi di noi.
Quirinale.
Costo: 221.000 milioni l’anno. Anche se Mattarella ha operato alcuni tagli non possiamo però ignorare che gli altri capi di Stato prendono meno. La monarchia inglese costa 37,9 milioni; la Repubblica francese 112 milioni; la monarchia della Norvegia 42.760 milioni; in Olanda 39.900 milioni; Svezia 15.500 milioni; Belgio 13.900; Danimarca 13.200; Lussemburgo 9.300; Spagna 7.900 (dati 2013.
Parlamento. Il costo annuale è 1,5 miliardi di euro. I dipendenti, 1500, costano 238.000; i dirigenti 370.000.
Camera dei deputati (630 deputati): Presidente della Camera e del Senato si sono operati un taglio al loro emolumento del 30%. Non risulta che siano stati emulati da altre alte cariche: il segretario generale 500.000 scesi a 240.000 a seguito della decisione del governo che nessun funzionario dello stato potesse superare lo stipendio del presidente della Repubblica. Ma fa ancor più impressione lo stipendio dei Commessi: 110.000 euro l’anno, e quello del barbiere: 136 milioni l’anno.
Senato: Segretario Generale 427.000 euro; uno stenografo prende 290.000 euro e un commesso 160.000 euro. Sembra possibile? Ora un breve cenno alle più alte istituzioni della repubblica. E’ da precisare che, come la Camera e il Senato, non sono armonizzati con la standardizzazione dello status giuridico e retributivo deli altri dipendenti della Pubblica Amministrazione: la Corte costituzionale, la Banca d’Italia e alcune altre. Corte Costituzionale: il Presidente guadagna 360.000€; il segretario generale 432.000€; Giudici 360.000. In altre nazioni: G. Bretagna: Presidente 235.000 euro, i giudici 217.000.
Corte costituzionale. Presidente: 545.900. Cassa depositi e prestiti: Franco Bassanini, presidente: 280.000€. Ferrovie dello Stato: Mauro Moretti, a. d.: 878.666 euro.
Regioni. Mi fermo solo alla Sicilia, che è la capofila, anche se le altre divorano anch’esse risorse incredibili. Basti pensare allo scandalo dei contributi ai gruppi, con i Batman intenti a saccheggiare senza nessun pudore, con una presidente nel Lazio che non vedeva nulla, complice o idiota. In Sicilia il Presidente, Rosario Crocetta, prende 311mila euro lordi l’anno, mentre la Giunta ci costa 2 milioni e 331.000€. Crocetta è il presidente più pagato in Italia; Maroni, presidente ella Lombardia prende 208.000 euro. Il Segretario Generale, Sebastiano DI Bella, incassa 530.000€ l’anno. Ancora più significativo il costo del personale: i dipendenti sono 20.288, mentre il Veneto, pressoché di pari popolazione, ne ha 2.664. Il costo di questo personale è 1,7miliardi di euro: le altre 15 regioni a statuto ordinario spendono 2,3 miliardi.
Le quali, però, hanno altre spese scandalose. Ne ho accennato: il contributo elettorale per i gruppi. Fino al 2012, quando fu abolito, le Regioni hanno versato ai gruppi 4.282.000.000 euro. I consiglieri regionali in Italia sono 1117 e costano in media 200.000 euro l’anno. Per una somma complessiva di 223.400.000 euro. Ovviamente ci sono consiglieri che prendono più di altri. In Sicilia è successo qualcosa che non so neppure definire. Il ministro Graziano Del Rio, nel tentativo di mettere ordine nel disastro finanziario della Sicilia, ha nominato come subcommissario, con funzioni di assessore al Bilancio, un esperto, Alessandro Baccei. Egli ha avanzato la proposta di “equiparare al resto d’Italia” i costi della Regione Sicilia. Si è opposto il presidente, Crocetta, quello che avrebbe dovuto essere il primo a prendere l’iniziativa, o comunque ad approvare e sostenere quella giusta proposta. D’altronde i siciliani possiamo disperarci, ma non credo che ci sia nulla da fare contro questa classe di politici: il Consiglio Comunale di Palermo costa 5 milioni e centomila euro l’anno; un milione in più del Consiglio Comunale di Milano, la cui popolazione è molto superiore. Ma sulla Sicilia non ritengo opportuno fermarci; c’è solo da piangere. Se poi si aggiunge che tipo di presidente abbiamo resta solo la disperazione. Cito un fatto e chiudo sulla Sicilia: nel 2012 una società multinazionale, Solar Energy Sicilia, voleva realizzare in Sicilia un grosso impianto di produzione di energia fotovoltaica. Come è noto la Sicilia è molto assolata, e le province di Ragusa e Siracusa, sono le più assolate di Europa. Il progetto prevedeva un investimento di 800 milioni di euro, con una occupazione prevista di 300.000 unità iniziali, e 100 mila a regime. Ha avanzato le domande necessarie, ma nessuna risposta giungeva dagli organi regionali competenti. A questo punto hanno chiesto un incontro con il presidente della Regione. Ma nessuna risposta neppure da Crocetta. Hanno smontato tutto, sciolto la società e sono andati in Cile, hanno fondato la Energy Solar Cile, e hanno già realizzato gran parte del progetto. Sono 100.000 i posti di lavoro andati in fumo! Questi sono delitti di Stato. Chi è responsabile non dovrebbe pagare?
Passiamo alle pensioni. Quello delle pensioni d’oro è uno scandalo infinito. La gente non lo sopporta più. Il primo pensionato d’Italia è un certo Mauro Sentinelli: guadagna 90.246€ al mese, 1.178.205€ l’anno, per essere stato direttore generale della TIM; poi sono molti: non possiamo non ricordare Felice Crosta. Chi è? Un fortunato che è stato direttore generale dell’Agenzia siciliana per i rifiuti e le acque da marzo 2006 a luglio 2006: incassa 237.432€ l’anno. Non possiamo esimerci dal ricordare Giuliano Amato, che sulle pensioni ha scritto molto, persino un libro, per esortare tutti ai sacrifici e responsabilità: incassa 31.411€ al mese. E Dini, il presidente del Consiglio che nel 1995 pose mano per primo alla riforma delle Pensioni: incassa due pensioni per un totale di 25.000€ al mese. Renzi, ma non avevi detto che nessuno può prendere più di una pensione nell’Italia che tu pensavi? Ma ci si rende conto che due pensioni su tre in Italia sono al di sotto di 700 euro? con cui si può ogni giorno solo misurare la miseria? E alcuni di questi signori hanno governato il popolo italiano, e qualcuno ha pure fatto la riforma del sistema pensionistico. Sembra ormai la linea politica corrente nella vita della nazione: togliere alle fasce deboli per ingrassare i ricchi.
Questo è un elenco estremamente scarno, e quasi insignificante, dei guadagni esistenti in Italia. Devo precisare che questi dati, presi da libri qualificati, dai giornali, dalle notizie televisive, possono avere subito variazioni; anche a seguito dell’indignazione della opinione pubblica e degli sforzi del governo di operare qualche taglio. Ma non cambia molto: siamo sempre a cifre ingiustificate e scandalose, e soprattutto, significative di un orientamento politico. Se si pensa alla totalità dei beneficiari possiamo avere una idea, sempre alquanto pallida, delle stratosferiche ricchezze di pochi italiani. Anche se molte portate all’estero.
Come si vede, si è andata costituendo in Italia una classe di super ricchi, di cui fanno parte superburocrati, manager, dirigenti superpagati, poiché godono anche di lauti vitalizi, o pensioni, diciamo pure, esagerate, che continuano la loro presenza dorata nella società anche dopo che hanno cessato dalla loro carica, o anche sono morti, passando il loro benessere alle mogli e, poi, ai figli: essi hanno dato origine a un club ristretto assolutamente anomalo, che io assimilerei alla nuova classe dei funzionari del partito, creatasi nei paesi a regime comunista, denunciata in uno splendido libro da Milovan Jilas, appunto: La nuova classe (Il mulino, Bologna 1957; sesta edizione1987). La classe di cui parlo non comprende solo le categorie descritte; ad essi si aggiungono banchieri e industriali; pochi, ma tutti ben stretti in un’unica cordata pronta a difendere con tutti i mezzi i loro privilegi. Sono molto di più coloro che godono di proventi esagerati pagati dai contribuenti. E non se ne vergognano. Né cercano di trovare una qualunque soluzione che riduca la scandalosa somma di emolumenti pagati dallo Stato. Che anzi, se qualcuno prova a fare qualche ritaglio, interviene subito uno degli organi dello Stato, anch’essi beneficiari, per annullare il provvedimento. Il 24 settembre 2014 il quotidiano Libero titolava: “I giudici vietano di tagliare i super stipendi della Camera”. I giudici erano quelli della Corte Costituzionale che aveva annullato un provvedimento del governo teso a ridurre gli scandalosi stipendi dei dirigenti della Camera. Spudorati fu il titolo di un libro di Mario Giordano sull’argomento (Mondadori Milano 2011). Questi, che controllano i meccanismi operativi dello Stato, sono alleati dei grandi manager, non solo quelli di Stato, ma anche dei gruppi privati, per tutelare dall’alto della loro invincibile potenza i lauti guadagni. Essi costituiscono il gruppo sociale padrone e arbitro della vita dello Stato. Allora dobbiamo chiederci: se questo è vero, ed è vero, l’Italia è una democrazia o una oligarchia ammantata di una democrazia formale? Ossia: il popolo vota, i ricchi governano. Ma in nome del popolo, s’intende, facendo però i propri interessi.
A fronte di questi superpagati c’è una massa di disoccupati, oggi circa 6 milioni; di sotto occupati; poi ci sono i pensionati che mentre vedono pensioni da favola, loro prendono 500, 450, 300, e persino 280 €. In un anno non hanno quello che i privilegiati incassano in un mese. Sono quelli che prendono la pensione sociale, ma anche i lavoratori autonomi, coltivatori, commercianti le cui pensioni normalmente non superano i 700 euro. Ci sono in Italia 3.232.000 famiglie sotto la soglia povertà (dati del 2013, oggi sono aumentate e molto). Ovviamente c’è la grande massa di operai, impiegati, insegnanti, professionisti che hanno pensioni che si aggirano sui 1200, 1500, 1800 euro. Questi, il cosiddetto ceto medio, la base sociale e politica di ogni democrazia, soffre in silenzio il disagio che i pochi privilegiati, 2-300.000 persone, procurano alla società civile, che il ceto medio serve, difende, per cui, assieme agli operai, produce la ricchezza che ingrassa i ricchi. I quali, intendiamoci, sono pochi dal punto di vista numerico, ma hanno il potere ben saldo nelle loro mani, per cui nessuno potrà mai attentare ai loro privilegi. Però, siccome siamo in democrazia, le vittime del sistema possono parlare, scrivere, protestare. Tanto non cambia nulla.
Non c’ è dubbio che sistema politico, democrazia o aristocrazia, sorge da un conflitto, o comunque da un confronto, fra le classi sociali; come anche le altre forme di governo, che determinano, o dovrebbero determinare, quale classe conquista ed esercita il potere: aristocrazia è il governo dei migliori (i più ricchi), monarchia di un solo. Ma, in effetti, la classe borghese riesce a nascondere gli interessi che la dividono dalla classe popolare e la democrazia finisce, spesso, ad essere il governo della borghesia in nome del popolo. Di chi questa forma di democrazia, o vogliamo dire meglio, di borghesia mascherata, gestisca gli interessi credo nessuno abbia dubbi. Già Aristotele aveva ammonito: “Non bisogna supporre, come sogliono fare alcuni, che c’è senz’altro democrazia dove la maggioranza è sovrana (anche nelle oligarchie la maggioranza è sovrana) e oligarchia dove pochi sono sovrani del governo” (Politica, IV libro). E’ quello che succede adesso. Il popolo vota. Un partito risulta maggioranza, vince le elezioni ed è deputato a governare. Il governo, se non è zeppo di interessi capitalisti, nel qual caso non c’è dubbio come governi, fa leggi tese a favorire le classi meno abbienti. Ma poi un organismo superiore annulla e riporta le cose al diritto, al loro diritto, di quelli che lo costituiscono e dei loro alleati. L’organismo superiore è quello che veramente governa, senza essere maggioranza e senza bisogno di vincere alcune elezioni. I suoi membri sono annidati nella Corte Costituzionale, nel Consiglio di Stato, nei diversi organismi dell’amministrazione della giustizia. Perché la giustizia per questi grandi esponenti della vita dello Stato è questa: salvare l’esistente, difendere i privilegi come diritti quesiti. Quesiti da chi? Da loro stessi che se li sono attribuiti. E’ la legge. Si, la legge del più forte. E questa è l’attuale democrazia: i pochi detentori del potere reale alleati con i ricchi della finanza pubblica e privata, senza rumore allarmante, ogni giorno allargano la disuguaglianza fra la grande massa popolare, cui si chiede di votare, e loro, i pochi che sono l’espressione del diritto e della democrazia.
Ma questo forse per noi è l’aspetto meno rilevante: è la pratica che distrugge la società. Quello che è, non quello che dovrebbe essere. Necessario e urgente è chiedersi: cosa si intende per democrazia? Il nodo del problema è in questa domanda, cui è arduo dare una risposta precisa. Perché le forme di governo si adattano e mutano aspetto e forme di attuazione con l’evolversi delle condizioni storiche. E’ arduo anche perché la borghesia, e la cultura italiana è fortemente ispirata (o controllata) dalla borghesia, è riuscita anche a cambiare la sostanza fondante dei valori democratici. D’altronde Marx aveva già ammonito che “le idee dominanti in ogni epoca sono le idee della classe dominante, cioè di chi ha i soldi per comprare gli intellettuali, perché la classe che dispone di mezzi di produzione materiale dispone per ciò stesso dei mezzi di produzione intellettuale”. Che cosa dicevano i greci, i fondatori della democrazia? Aristotele nella “Politica” scrisse che la politeia (ricordo che il termine democrazia in Aristotele è usato come la degenerazione di quella forma di governo che per noi oggi è la democrazia) ha come suo obiettivo la isonomia, l’uguaglianza. Benjamin Constant nel 1820 scrisse la sua famosa conferenza: “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”. In essa sostiene che “gli antichi (i greci) realizzavano la libertà nella comunità e partecipazione alla vita dello stato, mentre nei moderni la libertà è degli individui e dallo stato chiede protezione e difesa di essa”. Il governo si allontana dalla vita degli individui. In sostanza egli oppone la libertà alla democrazia, finendo col dimostrare che l’una limita l’altra. Egli era, senza dubbio, impressionato dalla esperienza democratica del Governo di Robespierre, mentre aveva assorbito il fascino della visione protestante che esalta l’individuo e le sue esigenze, nella vita personale, sociale, economica. E’ un fautore accanito, anche nei toni, delle libertà da difendere contro qualunque tentativo di instaurare una democrazia che possa in qualche modo limitarne la portata. Ma Constant ha un grande merito: avere messo in evidenza che democrazia e libertà si limitano tra loro. Per cui se si vuole la libertà individuale, sociale, politica ed economica si devono porre limiti alla democrazia; e viceversa. La sintesi di questa dicotomia è forse espressa magnificamente da un uomo di governo, F.D. Roosevelt, nel suo messaggio al Congresso del 1938: “La libertà di una democrazia non è sicura se il popolo tollera che il potere privato si sviluppi al punto di divenire più forte dello stesso stato democratico”. Noberto Bobbio, che per altro contestò la tesi di Constant, anche lui definisce la democrazia come la ricerca della “isonomia”, riprendendo in tal modo il concetto aristotelico. Ovviamente si pone il problema come attuarla in un mondo così complesso e distante dal mondo greco, ove le professioni e le conseguenti distinzioni sociali erano limitatissime. La prima urgenza è evitare di ridurre la democrazia a guscio vuoto di un potere che non si sa come verrà esercitato. E’ il rischio che si corre in questo momento in cui un improvvisato aggregato di gente raccogliticcia e senza cultura ed esperienza sta lanciando la campagna per una partecipazione popolare al potere che non si sa bene come esercitare, ma dichiara di ispirarsi al modello Atene! Figurarsi! Ispirarsi all’Atene del V secolo a. C., dove però l’attuazione della democrazia diretta, avveniva in uno stato di 300.000 persone, e una città di 45.000, e la vita politica si svolgeva in centro, in una boulé che pare non contenga più di 5.000 persone. Siamo seri! Comunque non chi o quanti partecipano alle decisioni politiche definiscono il tipo di governo ma quello che si fa e nell’interesse di quale classe si fa. Atene non è lontanamente paragonabile con stati di 65 milioni di cittadini, di 300 milioni, di un miliardo. Perciò l’attuazione di una vera democrazia, impone oggi agli stati moderni la democrazia rappresentativa. Che non è un limite, perché, ripeto, non il numero ma il tipo di governo definisce la forma di stato: in democrazia si governa nell’interesse del popolo; in aristocrazia nell’interesse dei più ricchi.
Il problema è un altro e ben più arduo. E’ indispensabile che il governo e il Parlamento mettano mano a un nuovo sistema economico in cui centro sia il lavoro, ossia produzione e distribuzione. Bisogna evitare che la grande finanza controlli i governi e continui a condizionare la vita individuale, sociale, economica dei popoli. I recenti scandali del Veneto e della Toscana non sono diversi, se non nelle dimensioni e nelle conseguenze, all’azione della finanza europea nella crisi dello spread nel 2011, o del fallimento della Lehman Brothers nel 2008. Per questo compito gigantesco occorrono governanti preparatissimi e la rappresentanza del mondo del lavoro, cioè i sindacati dei lavoratori e le associazioni datoriali, Confindustria in testa. Primo compito è fissare un nuovo concetto di democrazia economica: né troppo ricchi né troppo poveri. Da trenta anni la politica procede senza ideologia ma su una dicotomia chiara: c’è chi difende (inutilmente) i lavoratori e chi tutela i propri lauti guadagni. E’ chiaro che prevalgono sempre questi ultimi. Occorre sapere dove si vuole andare. Dovrebbe essere scontato: verso una democrazia integrale. Ogni società, sia ispirata al naturalismo aristotelico o al contrattualismo lockiano, si costituisce per sostenere ciascuno un compito nell’interesse di tutti gli altri: non è possibile che tutti siano professori universitari o imprenditori, magistrati o commercianti. Ognuno ha un compito che svolge nell’interesse degli altri: se nessuno fa il calzolaio tutti dovranno esserlo; qualcuno deve fare il macellaio, diversamente non si mangerebbe carne. La società è questa. Allora tutti, anche con i mestieri più modesti, devono essere messi in condizione di vivere dignitosamente in questa società democratica. Adamo Smith intuì il pericolo nella sua teoria e introdusse la famosa teoria della mano invisibile che distribuirebbe la ricchezza a tutti i componenti la società. In due secoli tutti hanno capito che non c’è nessuna mano invisibile che distribuisca con giustizia. Bensì mani ben visibili che si appropriano quanto più possono della ricchezza prodotta, lasciando alla massa le briciole. E’ stato, tra i liberisti, Stuart Mill a precisare il problema. Egli infatti, riteneva che solo le leggi della produzione fossero leggi naturali, e quindi immutabili, mentre considerava le leggi di distribuzione come una scelta etico-politica, determinate da ragioni sociali e, quindi, modificabili; ma tutta la produzione, la ricchezza prodotta, sarebbe inutile e potenzialmente dannosa, se non fosse guidata e trasformata da un meccanismo sociale determinato secondo le leggi dell’etica, capace di distribuire questa ricchezza in modo da trasformarla in ricchezza sociale. Chi deve, e può, intervenire nella definizione delle regole della distribuzione? Solo lo Stato. Ci sono oggi gli uomini in grado di realizzare questa gigantesca impresa? Non dico De Gasperi, Einaudi, Fanfani, Moro, Vanoni, Mattei, La Pira, Togliatti, Longo, Nenni, La Malfa. I giganti non si inventano. Ma anche solo personaggi con le idee chiare, con la capacità di incidere sulle strutture sociali di questo Stato che cade a pezzi, e creare un nuovo modello di società ove la giustizia sia l’obiettivo primo da raggiungere nella distribuzione della ricchezza. Insisto: è un compito molto arduo. La classe politica è modesta; i sindacati sono alquanto screditati, dopo la rivelazione dell’emolumento di Bonanni, pagato dai lavoratori. Ma andare avanti in questo modo è o piombare tutta la popolazione nella miseria o andare incontro a una rivoluzione che, priva di ideologia e di veri leader, non si sa dove possa portare l’Italia. Occorre un colpo di reni da parte di tutti; avere il coraggio di scegliere gente di valore. Riformare la società facendone un organismo giusto, è arduo. Si troveranno questi soggetti capaci? Forse! Ma l’idea fondamentale e irrinunciabile, che deve ispirare la riforma, è chiara: fissare un tetto in alto e uno in basso: i ricchi non possono superare il tetto alto, mentre i lavoratori non possono scendere sotto il tetto basso. Questa é giustizia. Questo sarebbe uno stato democratico, quello in cui ciascuno non vive per se stesso, ma ognuno per gli altri, con il diritto a vivere con dignità, che poi sarebbe la dignità della stessa società in cui lavorano il manager e l’imbianchino. Ma i pochi che, dietro i rappresentanti del popolo, governano accetteranno mai questa impostazione? Loro hanno un altro concetto di giustizia: i diritti quesiti, che si sono fatti loro stessi.
La nostra, questa, non è democrazia, bensì liberal democrazia. Ove il termine liberale schiaccia l’altro, la democrazia, finendo con divenire una vera e propria oligarchia. E non, ovviamente, per le libertà che concede a tutti, ma perché la libertà economica in realtà è liberismo, cioè un sistema ove ognuno può investire i suoi capitali, gestirli come meglio crede, e pagato l’operaio come una delle merci acquistate, appropriarsi del profitto, senza limite alcuno. Il risultato è un sistema codificato di ingiustizie che genera quelle condizioni di miseria di cui abbiamo parlato. E, allora, limitare le libertà? No! Correggere quelle economiche intervenendo sulle grandi fortune. Esse non sorgono dal nulla. Sorgono dal lavoro. E allora con il lavoro, e con chi è nel bisogno deve dividersi. Non è possibile in democrazia che ci sia chi, senza casa e senza lavoro, non riesce a vivere, mentre c’è gente che ha tanti soldi che non sa cosa farne e li porta a Panama, al riparo anche dalle tasse. Poi, se vuole, li riporta in Italia, rispettato e, persino, applaudito.
Termino con le parole di un altro grande politico, De Gasperi, scritte nel 1943, e che forse oggi sono ancor più attuali; “Poiché anche per la libertà economica valgono i limiti dettati dall’etica e dall’interesse pubblico, lo Stato dovrà eliminare quelle concentrazioni industriali e finanziarie che sono creazioni artificiose dell’imperialismo economico; e modificare le leggi che hanno favorito fin qui l’accentramento in poche mani dei mezzi di produzione e della ricchezza. Esso tenderà inoltre alla demolizione dei monopoli che non stanno per forze tecniche veramente inevitabili, e, a quelli che risulteranno tali, imporrà il pubblico controllo; o, se più convenga, e salva una giusta indennità, li sottrarrà alla proprietà privata, sottoponendoli preferibilmente a gestione associata; e questo non come avviamento al sistema collettivistico nei cui benefici economici non crediamo e che consideriamo lesivi della libertà, ma come misura di difesa contro il costituirsi e il permanere di un feudalesimo industriale e finanziario che consideriamo ugualmente pericoloso per un popolo libero”. (Idee per la Democrazia Cristiana, ed. Cinque lune. Roma 1977).
So già l’obiezione che verrà da ogni parte: ma siamo in Europa che impone il liberismo. E’ vero! Ma l’Italia deve per forza morire, pur di restare in questa Europa? E non è possibile abbandonare questa Europa fondata sull’euro e fondarne un’altra sul lavoro?

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