IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. “La metafora del mancante” nel libro di racconti del giovane scrittore calabrese Giovanni Algieri

giovanni algieri

COPERTINA LIBRO ALGIERIUn interessante viaggio dentro la quotidianità del nostro tempo, letto e interpretato con humor e ironia, con lo sguardo vigile sulla realtà nelle sue contraddizioni generazionali tra padri e figli nonché nelle sue complessità ed articolazioni valoriali, risulta il libro di Giovanni Battista Algieri dal titolo “Cosa manca”, Pellegrini Editore, 2015.

Si tratta di un volume che – e penso alle parole di Maxence Van der Meersch – non è la storia di un’eccezione, ma un brano della vita di tutti i giorni, in cui il lettore può riconoscersi, e che tuttavia insegna agli uomini qualche cosa che non tutti vedevano”.
“Cosa manca” è un “bel libro” proprio perché rappresenta un “brano della vita di tutti i giorni”, e perché, come diceva anche il poeta e romanziere ceco Milan Kundera nel suo libro “L’arte del romanzo”, il romanzo è “La grande forma della prosa in cui l’autore, attraverso degli io sperimentali (i personaggi), esamina fino in fondo alcuni grandi temi dell’esistenza”.
Ed è proprio ciò che Giovanni Battista Algieri, giovane calabrese con alla spalle una esperienza maturata a Londra, ove si è specializzato in sceneggiatura presso l’University of the arts of London, si propone con i suoi cinque racconti, i quali si integrano nell’unità di una narrazione ove i personaggi, che il prefatore dell’opera, Dario Brunori, chiama “poveri cristi” , si affannano in una corsa verso traguardi esistenziali che hanno il colore e il sapore di vicende umane ricche di pathos e sensibilità, di sogni e idealità, di rischi e di ambizioni.
Algieri ha esordito nel panorama letterario nel 2014 con il romanzo “Forse non torno”- Storie meridionali di chi parte e di chi resta”, e in questa sua seconda opera narrativa pone il lettore di fronte alle difficoltà che incontrano i giovani quando decidono di coltivare i propri sogni pensando di realizzarli altrove, in luoghi lontani dalla propria terra, ove spesso la cosa appare più facile e semplice.
Già il racconto introduttivo, “La pioggia del ritorno”, dal piglio autobiografico, è paradigmatico per entrare nell’ordine noumenico dell’autore, il quale attraverso il dialogo con Wilma, “Una pescatrice rozza e senza età, col suo trabiccolo frastornante” , riesce ad entrare nel mondo di alcune “favole sibaritiche, 540 a.C., ove risaltano non storie noiose e soporifere, ma vicende di famiglia che si tramandano da generazioni per oltre duemila anni. Giovanni Algieri apre così, attraverso uno espediente letterario, l’orizzonte delle sue ambizioni e lo sintetizza nell’epilogo della lettera di Wilma:
“L’altro giorno hai detto: non scrivono solo gli scrittori. In un certo senso è vero. Scrittori siamo tutti. Architetti, camerieri, pescatori, medici, cuochi, nuotatori, jazzisti, commessi, notai: chiunque abbia cercato, voluto e vissuto il suo giorno di gloria ha scritto una pagina di storia che prima o poi qualcuno emulerà e onorerà. E così come Fred lascerà il segno sul suo piccolo grande mondo, io lascerò la mia scia sul mio piccolo grande mare”.
La quotidianità, le ore e il tempo trascorsi tra un posto e l’altro caratterizzano il secondo racconto, “Sempre la stessa storia”, dove l’autore concentra nelle figure di Luigi e Filiberto il “nunc fluens” di giornate che scorrono tra luoghi, abitudini, domande, intimità, emozioni e reazioni, come quelle di Luigi che, mentre vive la sua intimità affettiva con Desiré, la abbandona perché si sente tradito avendo trovato dentro il letto “un boxer maschile di Dolce e Gabbana con l’elastico argentato”. E’ un racconto dove il realismo gioca un ruolo determinante dentro un’atmosfera a volte ridondante, ma sempre vivace, rotta dall’incursione di temi sull’attualità politica, messi sulla bocca di Filiberto che, con tono sdegnato, riassume le vicende politiche del paese degli ultimi mesi: “- Vogliono sempre mangiarci su, mai un progetto che passi senza richieste ambigue o addirittura ricatti, è uno schifo. Sia da una parte che dall’altra”.
In questo narrarsi di Algieri, un ruolo centrale assume il racconto “Cosa manca”, che dà il titolo al libro. Qui, anche sul piano letterario, il livello si alza e l’estro narratologico dell’autore si essenzializza, con maggiore efficacia, in una metacognizione che trasuda particolarmente dal personaggio principale, Carlo Barbagallo, padre di Tibaldo, professore di italiano, che fa fatica a comprenderlo perché in lui manca ciò che invece non manca nel padre, ossia il “coraggio di osare”, il coraggio anche di sbagliare, il coraggio di sognare.
La descrizione di Carlo Barbagallo, titolare di un agriturismo, è quella di un uomo benvoluto, che sa donare allegria e che si scommette, tant’è che durante la festa dei suoi sessant’anni, balzando a piedi nudi sul suo tavolo, annuncia in modo ufficiale di voler trasformare il suo agriturismo in una scuola di danza, suscitando le ire dei figli Tibaldo e Giannino che si recano dal procuratore Gina Predica per dichiararlo pazzo e interdetto mentale: “ – Dottore, papà non c’è più con la capa. Deve ammollare tutto e sganciare la pila, ché non è più cazzo suo”. E così arrivano sul punto di firmare la lettera di interdizione davanti al magistrato, (che, invece, prende entrambi per pazzi), in cui si asseriva: “…perciò si sostiene che il soggetto in questione, Carlo Barbagallo, non sia più nelle condizioni psicofisiche tali da renderlo capace di provvedere ai suoi interessi”. Per un momento Tibaldo e Giannino pensano di firmare, ma poi a seguito di un forte dibattito con Gina Predica, desistono e se ne vanno.
Dunque ad un padre che ancora a sessant’anni osa sognare, avere coraggio, forse anche sbagliando, si contrappongono due giovani figli rannicchiati in un “minimalismo esistenziale” che li fa apparire quasi vecchi, attaccati alle cose che potranno ereditare e senza alcuno slancio verso il futuro.
E in questo contesto della narrazione, sintomatica appare anche la lettera che Tibaldo riceve dal suo ex alunno Ballo, nella quale risalta , ancora una volta, questa dimensione del “mancante”: “L’altro giorno ci hai chiesto: cosa manca? E poi sei andato vita./ E anche se me ne sono scappato dalla classe, dal quel momento non faccio altro che cercare una risposta a quella domanda./ E non riesco a rispondermi(…) Allora ecco, cosa manca. Il coraggio di sbagliare./ Io, come tutta la famiglia mia, di sbagli ne ho fatti tanti, e ora, più che sbaglio, sto per fare una gran bella stronzata. Ma almeno è una stronzata mia, che ho scelto io. Ma tu, professò, alla fine, cos’hai scelto?…”
Ecco, attraverso questi affondi nei vissuti quotidiani dei suoi personaggi, l’autore ci restituisce il senso della sua narrazione, che è finalizzata a ricostruire una sorta di “metafora del mancante”. In effetti, spesso, l’uomo vive con il desiderio di avere “ciò che manca” senza sapere godere ciò che possiede; il giovane Ballo nella sua lettera prova a fare il contrario chiedendosi “cosa c’è”, giungendo alla conclusione che c’è la libertà di scegliere e di essere scelti, ma ciò che manca è “il coraggio di sbagliare”.
Ciò che piace di questo racconto caratterizzante tutto il libro, tant’è che gli dà il titolo, è la sua allusività ai grandi processi psico-filosofici insiti nel valore della libertà e che dalla notte dei tempi si dibattono dentro la vita dell’uomo. In fondo la famiglia Barbagallo è la rappresentazione dei contrasti che si agitano dentro l’anima umana: da una parte la voglia di non fermarsi mai, di non mollare i sogni, di scommettersi, di darsi degli obiettivi, delle motivazioni connotando di significato le azioni che si fanno fino anche al rischio di poter sbagliare(errare humanum est – dicevano i latini), dall’altra l’appiattimento in uno status quo, sulle cose che si possiedono, si sentono e si fanno.
Certo è che dentro la narrazione di Giovanni Algieri c’è un fondamento filosofico che coglie quel “principio di ulteriorità” in base al quale ogni persona umana “scatta oltre” perché si percepisce “mancante di qualcosa, di qualcuno, di un pensiero, di un sentimento, di un sogno”; il mancante è ciò che spinge l’essere umano ad andare avanti, a osare, rischiare, avere coraggio, consapevole che il suo cuore sarà sempre inquieto – direbbe S. Agostino – fin quando non si aprirà alla Trascendenza.
Affabulanti appaiono anche gli ultimi due racconti, ove l’andamento della scrittura si rivela vivace e le connessioni al tema centrale del volume tralucono dai personaggi Pito, Gabriella, Ilario, Giovanni, Emilio, giovani figli del mondo che, dopo le loro lauree, si propongono di rimanere a Roma e, invece, poi sono costretti a separarsi approdando in cinque lontani e differenti paesi. Il loro distacco lascia integra la loro amicizia, tant’è che, una volta all’anno, si ritrovano per vivere occasioni e momenti di incontro, al di là delle città, e condividere i loro sogni e le loro ambizioni.
Questo libro di racconti di Giovanni Algieri ci mette, dunque, di fronte ad un giovane autore che ama l’arte della scrittura e che insegue, come i suoi personaggi, molti sogni; da qui il messaggio della sua narrazione che è un invito all’uomo di oggi, giovane o meno che sia, a non piangersi addosso, a non cedere a semplici lamentazioni, ma a saper avere giuste ambizioni all’interno della fase storica attuale. Dunque, l’autore non si ferma molto, come nei romanzi psicologici, ad anatomizzare i suoi personaggi, perché il suo intento appare quello di narrare, descrivere, alludere, aprendo nuovi orizzonti di sogno, di senso e di impegno che , spesso, specie al Sud, mancano a causa di una rassegnazione e quasi predestinazione priva di riflessione.
I racconti di Algieri hanno il sapore dell’avventura, della fantasia che ricerca nuove mete, e rappresentano un felice quadro che va oltre una visione stantia di una vita priva di ambizioni, per affermare il bisogno di osare e scommettersi in modo autonomo e con le proprie forze. E tutto questo trova sostanza nella struttura teleologica dei suoi racconti, ove si trovano anche digressioni di stile e di linguaggio caratterizzati da spinte dialettali e affacci non rari alla geografia sessuale maschile, come sembra essere divenuto normale nel linguaggio della comunicazione massmediale contemporanea.
Con una scrittura fluida, semplice e piana, l’autore rende godibile, questo libro, le cui storie sono un monito a sapere trovare la strada della propria vita sradicandosi dal Meridione e “osando” di rischiare e di sognare domandandosi – come il giovane studente Ballo – cos’ho scelto? , e per dire come Ghandi “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”.

Condividi su facebook
Facebook
Condividi su twitter
Twitter
Condividi su whatsapp
WhatsApp
Condividi su email
Email
Condividi su print
Stampa