IN PUNTA DI LIBRO……di Domenico Pisana. “Mare rotto”: il libro del pozzallese Michele Giardina tra racconto e documento, denuncia e protesta

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giardinaGeorge Orwell, giornalista, saggista, scrittore e attivista politico britannico tra i più interessanti della prima metà del ‘ 900, nel suo libro “Romanzi e saggi”, Mondadori, così scrive: “Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia. Quando mi accingo a scrivere un libro io non mi dico: ‘Voglio produrre un’opera d’arte. Lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio tirare l’attenzione, e il mio primo pensiero è quello di farmi ascoltare”.

Michele Giardina, anche lui con una esperienza sociale alle spalle, con parecchie pubblicazioni e romanzi al suo attivo, con una militanza giornalistica lunga e appassionata in provincia di Ragusa, con questo libro, “Mare rotto”, Armando Siciliano Editore, 2016, che si avvale anche di un bel apparato fotografico di Massimo Assenza, non ha avuto l’intento di produrre un’opera d’arte, ma mantenere sempre costante e vivo il suo rapporto con la città di Pozzallo e la sua terra iblea e siciliana. Con questa nuova pubblicazione, egli vuole continuare a narrare, a scrivere, “farsi ascoltare”, a farsi leggere.
Giardina è una personalità vivace, battagliera, direi irruente ma tendente sempre alla coerenza, perché essere pienamente coerenti non è cosa facile; è una personalità stimata da molti, ma anche criticata, avversata per ciò che scrive e per come scrive.
Di cosa parla “Mare rotto”! Parla dell’ attualità più cruda di questo nostro tempo, narra storie, fatti e accadimenti, perimetrati nel 2015, che disegnano le coordinate di una realtà umana che fa fatica, sia a livello di macrocosmo che di microcosmo, ad essere libera, vera, autentica, trasparente e lineare.
“Mare rotto” scrive di questa nostra società colpita da forti venti, rotta da relazioni distorte e da palesi ingiustizie, confusa da intolleranze chiuse al pianto di migranti, squarciata dalla voce di bimbi naufragati tra le acque, piegata all’intrigo di trafficanti di parole, inquinata da ruffiani ed arrivisti, contaminata da ipocrisie, furberie, equivoci, menzogne, e dalla quale l’autore prende le distanze affidando l’impianto noumenico della sua opera a riflessioni critiche contro coloro che egli stesso – nell’incipit del volume – definisce falsari di professione, mistificatori e farabutti, che, dopo averci raccontato la favola della Seconda Repubblica, continuano a fare quello che hanno sempre fatto: ingannare il popolo e saccheggiare il Paese.
E allora dico subito che leggere questo libro implica andare incontro ad una serie di provocazioni, perché le storie che Giardina racconta toccano la coscienza del lettore; e di fronte ad una provocazione si possono avere tante reazioni: a) prima reazione: l’istinto apologetico, cioè non essere d’accordo con l’ autore, in tutto, in parte, su ciò che egli mette in discussione e in alcuni casi argomenta abilmente; b) seconda reazione: il qualunquismo, cioè accettare tutto ciò che Giardina scrive , al di là di identità, differenze, adesioni personali a idee e concetti; c)terza reazione: l’adesione a-critica ed incondizionata a tutto quello che si legge nel libro, in virtù di ideologizzazioni alle quali il lettore può cedere compiacente perché in linea ideologica con l’autore del volume.
A queste reazioni io ho preferito quella della “lettura e valutazione critica nell’orizzonte di una ricerca veritativa”. Perché Giardina, in fondo, in questo suo raccontare si sforza sempre di ricercare la verità, di non rimanere in superficie e di ricostruire il vero, come del resto un buon giornalista, che tale voglia dirsi, deve avere come obiettivo.
Entrando nella tessitura del testo, troviamo che le tematiche più rilevanti affrontate dall’autore riguardano “l’isola dei porri”, “opere incompiute”, “il porto di Pozzallo”, “ migranti”, “ raccolta rifiuti e antimafia a parole”, “ruffiani e arrivisti”, “giustizia, mafiosi e pecorelle smarrite”, cui si aggiungono racconti meno impegnativi ma anch’essi carichi di messaggi di denuncia, nei quali il protagonista, Tony Speranza, che è lo stesso autore, riportando sulla pagina cose di tutti i giorni (da momenti di gaudio vissuti con amici alla partecipazione a serate estive, da Kermesse imponenti ad incontri culturali, tanto per citare qualche esempio) trova modo di stigmatizzare vizi come l’invidia, la superbia e la presunzione, comportamenti irriverenti e irrispettosi, gesti e atteggiamenti privi di sensibilità umana.
Il titolo di questo volume richiama ancora una volta il mare. Il mare, già evocato in opere precedenti dell’autore, “La Risacca”(2009) e poi amplificato in “Mare forza 7”(2010), ritorna in modo più deciso in questa nuova opera, che ha il sapore di un grido di profezia e di denuncia del malessere che serpeggia, a tutti i livelli, nel nostro tempo.
Questa volta il mare di Giardina è “rotto”, connotazione che sta gergalmente ad indicare l’improvviso e inaspettato singhiozzare del mare che, quando avanza con direzione irregolare, confusa, disordinata e indecifrabile, favorisce l’accapigliarsi di onde alte e anomale, onde cosiddette “vive” e “morte” che, incrociandosi, finiscono per costringere qualsiasi imbarcazione, piccola o grande, a subire movimenti scoordinati che la fanno sbandare lateralmente, spingendola anche verso un pericoloso sali e scendi longitudinale. E’ un fenomeno che – scrive l’autore – si avverte sia a Pozzallo che a Marina di Modica quando arriva da Malta il grande catamarano della Virtu Ferries.
Dunque, il mare, come metafora dell’ esistenza umana fa da sfondo a questa opera.
Un primo affondo del libro di Giardina, dopo una breve radiografia storica dell’isola dei Porri, va nella direzione di “opere incompiute”, specie nella costa iblea, minacciata da una galoppante erosione e dove – scrive l’autore – il mare avanza, minacciando da vicino beni pubblici e privati, mentre gli “eletti”, quelli che sono stati chiamati a governare la cosa pubblica, a dare risposte concrete, a proteggere e tutelare case, proprietà e beni immobili della collettività, fanno solo chiacchiere. Errori metodologici, soldi pubblici bloccati nelle maglie di una burocrazia assurda, negligenze, superficialità e illegalità emergono dal racconto-denuncia di Giardina, che allunga lo sguardo anche su altre realtà siciliane suscitando interrogativi nel lettore in ordine al grado di corruzione che inquina la nostra società.
Affabulante altresì la narrazione incentrata su due figure come il prof. Fava e Sariddu. Il primo è protagonista di una rievocazione storica di calamità naturali come il terremoto del 13 dicembre 1990, giorno di S. Lucia, nonché acuto osservatore di provvedimenti politici del Governo guidato dal socialista Giuliano Amato, – classico esempio della sciatteria politica imperante in questo nostro Paese, governato da una classe dirigente furba, attendista e arruffona, capace solo di fare quadrato quando si tratta di difendere privilegi e prebende della casta -, fino a mostrarsi acuto analista, conoscitore e narratore di eventi di carattere religioso e folklorico tipici dell’ethos siciliano.
Non di meno affabulante è la figura del pozzallese Sariddu, con la sua baracca estiva, piccolo laboratorio-bazar nei pressi di Porto Ulisse, uomo cresciuto pane e reti in una famiglia numerosa e che tre mesi l’anno fa tappa fissa con la sua barca da pesca in questa storica spiaggia.
Un ruolo centrale occupa nel volume il porto di Pozzallo. Qui l’autore è un fiume in piena, fotografa le vicende istituzionali, politiche, parlamentari, amministrative, sindacali che si sono succedute attorno a questa grande ed importante infrastruttura portuale, nonché gli ostacoli, palesi e sottotraccia, dietro ai quali continuano a nascondersi interessi a vari livelli, fino alla denuncia, furiosa, determinata e concentrata, da parte dell’autore: La incredibile latitanza istituzionale, da addebitare a precise responsabilità della Regione Siciliana, oltre ad aver favorito una lenta e progressiva militarizzazione del porto con appropriazione indebita di ruoli e competenze, ha permesso il proliferare di pericolose forme di clientelismo. Alcune autorizzazioni e concessioni puzzano di muffa. Aria malsana quella che si respira nell’area portuale. La stessa che aleggia nei porti finiti per distrazione in mano a intrallazzisti e mafiosi.
Altra pagina complessa e dolorosa narrata da Giardina è quella relativa ai “migranti”. Con una scrittura graffiante, egli disegna le coordinate del fenomeno sotto le vesti di Tony Speranza, il quale se, da una parte, informa, fornisce dati, numeri, cifre di sbarchi, di profughi e scafisti, e racconta interventi di politici e sindacalisti in occasione della festa nazionale del 1 maggio tenutasi a Pozzallo nel 2015, dall’altra si mostra indignato e, con uno sbalzo metaforico, tipico della letteratura, vede attorno alla pantomina costruita intorno al fenomeno immigrazione quella metafora di vita che si essenzializza nell’immagine del mare rotto. “Mille e mille le onde – si legge nel volume – improvvise, insidiose, imprevedibili, da affrontare nella perigliosa navigazione umana. Da studiare, analizzare, raccontare. Per fornire alle nuove generazioni dritte giuste ed efficaci per difendersi dalle bufere umane. Spesso provocate da egoismo, ipocrisia, arroganza, vanagloria, invidia tout-court, che producono laceranti danni sociali di lunga e profonda gittata.”
Un vento di disappunto e di polemica traspare ancora da “Raccolta rifiuti e antimafia a parole”. “Ci raccontano balle e favole contro la mafia” scrive l’autore, riportando scritti di Cristoforo Spinella, Saverio Lodato e Pietrangelo Buttafuoco.
Nella seconda ed ultima parte di questo volume, l’io narrante dell’autore si ripropone nuovamente, sotto le vesti di Tony Speranza, giornalista che rompe, che scrive di uomini, ominicchi e quaquaraqua, che vive sempre a contatto con le persone, con gli accadimenti più comuni che vanno dagli incontri occasionali alla discussione sulle scacce modicane, dalla critica a giullari, ruffiani e letterati-illetterati che non sanno neanche usare la grammatica e la sintassi, agli scontri dialettici con politici, sindacalisti, con gente comune e financo con i carabinieri, non tanto per il gusto di avere scontri, ma per cercare di mantenere sempre saldo il suo senso etico.
Giardina, certo, è consapevole che non si può litigare con il mondo intero, ma, se necessario, egli si dimostra disposto a farlo. Non gli manca infatti, nonostante tutto, l’ottimismo, la capacità di sognare, così come si evince dalle ultime pagine di questo libro, ove l’io narrativo di Tony Speranza, deceduto lo stesso giorno del padre, si proietta nella Pozzallo del futuro, quella del 2027, e – proprio come in un sogno – dialoga con il nipote Michele e con Matias, immaginando una Pozzallo nuova, diversa, cambiata, con centri sportivi, con un porto divenuto fonte di ricchezza, e con un sindaco ed una giunta il cui colore politico è diventato “L’azzurro del mare, il verde della speranza, il bianco della limpidezza amministrativa, il rosso della determinazione”.
Non un sindaco Mandrake, come lo definiscono nel sogno i due giovani, ma un sindaco che ha saputo conquistare la gente con “notevole dose di buon senso e intelligenza”, e che ha capito che per salvare la sua fanciulla occorreva scegliere una squadra di assessori entusiasti e preparati e affidarsi a persone esperte, dotate di mestiere e professionalità, per una cura ricostituente dei settori nevralgici dell’Amministrazione comunale. Ed è quello che ha fatto. (…) Il successo di questo sindaco è stato costruito con gli strumenti della chiarezza e del patto d’onore con i cittadini: questo è il mio programma, questi gli assessori che mi collaboreranno; questi i consulenti; queste le scadenze annuali per la verifica dell’azione amministrativa avviata e svolta.”. Ma nel sogno il nonno Tony Speranza svanisce, mentre il nipote Michele gli dice: “No, no, per favore, non te ne andare ……promettimi che ti farai vedere ancora. Ciao. Mi manchi tanto. Ti voglio bene. Grazie di tutto, nonno. Ciao, Ti voglio bene, ti vogliamo bene. Ciao”.
Avviandoci a concludere queste note critiche, ci pare di poter dire che questo testo rappresenti una costruzione reale di questo nostro tempo, fatta da Giardina non con l’utilizzo di un filone narrativo unico, ma con l’uso della tecnica della “variatio” e con il ricorso a inchieste, provocazioni, riflessioni ove la distanza tra realtà e fantasia appare fortemente accorciata dalla veridicità dell’evento stesso narrato.
Il raccontare di Michele Giardina è un “raccontare aperto” che si snoda come “ermeneutica critica della società del nostro tempo a livello socio-politico ed etico, al fine di far risaltare lo sfaldamento valoriale dominante, con una “prosa realistica” e di denuncia, atteso che l’autore è uno cui piace “stare in mezzo alle cose che succedono”, per usare un’espressione di Calvino.
La prosa di Giardina è infatti nel contempo racconto e documento, rievocazione di un evento tragico e denuncia socio-politica, ricostruzione giornalistica e recupero di riflessioni etiche: elementi che, pur nella loro diversità e variegazione, si intrecciano inducendo il lettore a riflettere; il linguaggio è colloquiale, lessicalmente usuale e di impatto immediato; dentro questa colloquialità ci sono però tante dimensioni metalinguistiche che occorre cogliere: la sofferenza, il dramma, il sogno, l’attesa, il bisogno, la rassegnazione, il cinismo, l’affarismo, l’ipocrisia, la delusione, la speranza.
Insomma racconto e documento, denuncia e protesta, analisi e sprone etico, fantasia letteraria e linguaggio narrativo consentono a questo volume di superare, come a volte si nota in alcuni passaggi, la tentazione del cronachismo neorealista, per connotarsi invece come cammino della coscienza critica dell’autore, il quale spinge i suoi lettori a leggere, da una parte, la realtà e, dall’altra, a farli uscire dalla tentazione del quietismo e della manipolazione.
“Mare rotto” non è, pertanto, un “particolare” documento narrativo fine e se stesso e riguardante un microcosmo provinciale, ma un atto creativo che nel mare ha il suo elemento di universalità metaforica e che va inteso come “assunzione del reale” da parte dell’autore, nei suoi valori e nelle sue contraddizioni. Allo stesso modo, in “Mare rotto” tutta “l’esperienza narrativa” di Giardina, filtrata dalla sua creatività, dalle sue percezioni e indignazioni, dalle sue emozioni e dai suoi sentimenti, diventa un paradigma simbolico-metaforico, cioè il segno di un malessere esistenziale che ci coinvolge tutti e del quale l’autore propone una lettura fedele alla sua coerenza e dignità.
Michele Giardina è un narratore realista; con questo libro, a tratti ironico e sarcastico, si fa interprete del degrado morale della politica, che è la grande accusata della sua narrazione d’inchiesta, nonché dell’inefficienza, del disordine e dell’incapacità della burocrazia amministrativa a saper gestire gli eventi più minacciosi per l’umanità.
Lo sfondo del volume è il mare di una Sicilia: “buttanissima o bellissima? Semplicemente magica. Nella sua bellezza. Nonostante dominazioni, tormenti, contraddizioni, tragedie umane e politiche”, e dove la cultura mafiosa, purtroppo, continua a rafforzare le sue radici nelle Istituzioni, allignando attraverso il malaffare, la corruzione, la mediocrità e l’ incapacità della politica di dare senso e risposta alle attese della gente.
E il libro di Michele Giardina sembra parlare proprio alla gente, agli uomini comuni per provocare una reazione di riscatto e di ripresa contro chi ha tentato e tenta , ancora oggi purtroppo, di lasciare la Sicilia nell’immobilismo, facendola cadere nel “grande sonno”, per usare un’espressione di Tomasi di Lampedusa.
Certo, nel libro ci sono anche semplificazioni di tematiche che avrebbero richiesto analisi più dettagliate, ma ciò non toglie nulla al valore del testo, che sta nel fatto che esso si configura come testimonianza della sensibilità etica e civile dell’autore, sensibilità capace di farsi “denuncia e impegno” finalizzati allo smascheramento delle menzogne di una politica cinica che, mentre giuoca con compromessi meschini e di bassa lega, assiste – come direbbe Tomasi di Lampedusa – al “rantolo della Sicilia arsa”.

George Orwell, giornalista, saggista, scrittore e attivista politico britannico tra i più interessanti della prima metà del ‘ 900, nel suo libro “Romanzi e saggi”, Mondadori, così scrive: “Il mio punto di partenza è sempre un senso di partigianeria, un senso d’ingiustizia. Quando mi accingo a scrivere un libro io non mi dico: ‘Voglio produrre un’opera d’arte. Lo scrivo perché c’è qualche bugia che voglio smascherare, qualche fatto su cui voglio tirare l’attenzione, e il mio primo pensiero è quello di farmi ascoltare”.
Michele Giardina, anche lui con una esperienza sociale alle spalle, con parecchie pubblicazioni e romanzi al suo attivo, con una militanza giornalistica lunga e appassionata in provincia di Ragusa, con questo libro, “Mare rotto”, Armando Siciliano Editore, 2016, che si avvale anche di un bel apparato fotografico di Massimo Assenza, non ha avuto l’intento di produrre un’opera d’arte, ma mantenere sempre costante e vivo il suo rapporto con la città di Pozzallo e la sua terra iblea e siciliana. Con questa nuova pubblicazione, egli vuole continuare a narrare, a scrivere, “farsi ascoltare”, a farsi leggere.
Giardina è una personalità vivace, battagliera, direi irruente ma tendente sempre alla coerenza, perché essere pienamente coerenti non è cosa facile; è una personalità stimata da molti, ma anche criticata, avversata per ciò che scrive e per come scrive.
Di cosa parla “Mare rotto”! Parla dell’ attualità più cruda di questo nostro tempo, narra storie, fatti e accadimenti, perimetrati nel 2015, che disegnano le coordinate di una realtà umana che fa fatica, sia a livello di macrocosmo che di microcosmo, ad essere libera, vera, autentica, trasparente e lineare.
“Mare rotto” scrive di questa nostra società colpita da forti venti, rotta da relazioni distorte e da palesi ingiustizie, confusa da intolleranze chiuse al pianto di migranti, squarciata dalla voce di bimbi naufragati tra le acque, piegata all’intrigo di trafficanti di parole, inquinata da ruffiani ed arrivisti, contaminata da ipocrisie, furberie, equivoci, menzogne, e dalla quale l’autore prende le distanze affidando l’impianto noumenico della sua opera a riflessioni critiche contro coloro che egli stesso – nell’incipit del volume – definisce falsari di professione, mistificatori e farabutti, che, dopo averci raccontato la favola della Seconda Repubblica, continuano a fare quello che hanno sempre fatto: ingannare il popolo e saccheggiare il Paese.
E allora dico subito che leggere questo libro implica andare incontro ad una serie di provocazioni, perché le storie che Giardina racconta toccano la coscienza del lettore; e di fronte ad una provocazione si possono avere tante reazioni: a) prima reazione: l’istinto apologetico, cioè non essere d’accordo con l’ autore, in tutto, in parte, su ciò che egli mette in discussione e in alcuni casi argomenta abilmente; b) seconda reazione: il qualunquismo, cioè accettare tutto ciò che Giardina scrive , al di là di identità, differenze, adesioni personali a idee e concetti; c)terza reazione: l’adesione a-critica ed incondizionata a tutto quello che si legge nel libro, in virtù di ideologizzazioni alle quali il lettore può cedere compiacente perché in linea ideologica con l’autore del volume.
A queste reazioni io ho preferito quella della “lettura e valutazione critica nell’orizzonte di una ricerca veritativa”. Perché Giardina, in fondo, in questo suo raccontare si sforza sempre di ricercare la verità, di non rimanere in superficie e di ricostruire il vero, come del resto un buon giornalista, che tale voglia dirsi, deve avere come obiettivo.
Entrando nella tessitura del testo, troviamo che le tematiche più rilevanti affrontate dall’autore riguardano “l’isola dei porri”, “opere incompiute”, “il porto di Pozzallo”, “ migranti”, “ raccolta rifiuti e antimafia a parole”, “ruffiani e arrivisti”, “giustizia, mafiosi e pecorelle smarrite”, cui si aggiungono racconti meno impegnativi ma anch’essi carichi di messaggi di denuncia, nei quali il protagonista, Tony Speranza, che è lo stesso autore, riportando sulla pagina cose di tutti i giorni (da momenti di gaudio vissuti con amici alla partecipazione a serate estive, da Kermesse imponenti ad incontri culturali, tanto per citare qualche esempio) trova modo di stigmatizzare vizi come l’invidia, la superbia e la presunzione, comportamenti irriverenti e irrispettosi, gesti e atteggiamenti privi di sensibilità umana.
Il titolo di questo volume richiama ancora una volta il mare. Il mare, già evocato in opere precedenti dell’autore, “La Risacca”(2009) e poi amplificato in “Mare forza 7”(2010), ritorna in modo più deciso in questa nuova opera, che ha il sapore di un grido di profezia e di denuncia del malessere che serpeggia, a tutti i livelli, nel nostro tempo.
Questa volta il mare di Giardina è “rotto”, connotazione che sta gergalmente ad indicare l’improvviso e inaspettato singhiozzare del mare che, quando avanza con direzione irregolare, confusa, disordinata e indecifrabile, favorisce l’accapigliarsi di onde alte e anomale, onde cosiddette “vive” e “morte” che, incrociandosi, finiscono per costringere qualsiasi imbarcazione, piccola o grande, a subire movimenti scoordinati che la fanno sbandare lateralmente, spingendola anche verso un pericoloso sali e scendi longitudinale. E’ un fenomeno che – scrive l’autore – si avverte sia a Pozzallo che a Marina di Modica quando arriva da Malta il grande catamarano della Virtu Ferries.
Dunque, il mare, come metafora dell’ esistenza umana fa da sfondo a questa opera.
Un primo affondo del libro di Giardina, dopo una breve radiografia storica dell’isola dei Porri, va nella direzione di “opere incompiute”, specie nella costa iblea, minacciata da una galoppante erosione e dove – scrive l’autore – il mare avanza, minacciando da vicino beni pubblici e privati, mentre gli “eletti”, quelli che sono stati chiamati a governare la cosa pubblica, a dare risposte concrete, a proteggere e tutelare case, proprietà e beni immobili della collettività, fanno solo chiacchiere. Errori metodologici, soldi pubblici bloccati nelle maglie di una burocrazia assurda, negligenze, superficialità e illegalità emergono dal racconto-denuncia di Giardina, che allunga lo sguardo anche su altre realtà siciliane suscitando interrogativi nel lettore in ordine al grado di corruzione che inquina la nostra società.
Affabulante altresì la narrazione incentrata su due figure come il prof. Fava e Sariddu. Il primo è protagonista di una rievocazione storica di calamità naturali come il terremoto del 13 dicembre 1990, giorno di S. Lucia, nonché acuto osservatore di provvedimenti politici del Governo guidato dal socialista Giuliano Amato, – classico esempio della sciatteria politica imperante in questo nostro Paese, governato da una classe dirigente furba, attendista e arruffona, capace solo di fare quadrato quando si tratta di difendere privilegi e prebende della casta -, fino a mostrarsi acuto analista, conoscitore e narratore di eventi di carattere religioso e folklorico tipici dell’ethos siciliano.
Non di meno affabulante è la figura del pozzallese Sariddu, con la sua baracca estiva, piccolo laboratorio-bazar nei pressi di Porto Ulisse, uomo cresciuto pane e reti in una famiglia numerosa e che tre mesi l’anno fa tappa fissa con la sua barca da pesca in questa storica spiaggia.
Un ruolo centrale occupa nel volume il porto di Pozzallo. Qui l’autore è un fiume in piena, fotografa le vicende istituzionali, politiche, parlamentari, amministrative, sindacali che si sono succedute attorno a questa grande ed importante infrastruttura portuale, nonché gli ostacoli, palesi e sottotraccia, dietro ai quali continuano a nascondersi interessi a vari livelli, fino alla denuncia, furiosa, determinata e concentrata, da parte dell’autore: La incredibile latitanza istituzionale, da addebitare a precise responsabilità della Regione Siciliana, oltre ad aver favorito una lenta e progressiva militarizzazione del porto con appropriazione indebita di ruoli e competenze, ha permesso il proliferare di pericolose forme di clientelismo. Alcune autorizzazioni e concessioni puzzano di muffa. Aria malsana quella che si respira nell’area portuale. La stessa che aleggia nei porti finiti per distrazione in mano a intrallazzisti e mafiosi.
Altra pagina complessa e dolorosa narrata da Giardina è quella relativa ai “migranti”. Con una scrittura graffiante, egli disegna le coordinate del fenomeno sotto le vesti di Tony Speranza, il quale se, da una parte, informa, fornisce dati, numeri, cifre di sbarchi, di profughi e scafisti, e racconta interventi di politici e sindacalisti in occasione della festa nazionale del 1 maggio tenutasi a Pozzallo nel 2015, dall’altra si mostra indignato e, con uno sbalzo metaforico, tipico della letteratura, vede attorno alla pantomina costruita intorno al fenomeno immigrazione quella metafora di vita che si essenzializza nell’immagine del mare rotto. “Mille e mille le onde – si legge nel volume – improvvise, insidiose, imprevedibili, da affrontare nella perigliosa navigazione umana. Da studiare, analizzare, raccontare. Per fornire alle nuove generazioni dritte giuste ed efficaci per difendersi dalle bufere umane. Spesso provocate da egoismo, ipocrisia, arroganza, vanagloria, invidia tout-court, che producono laceranti danni sociali di lunga e profonda gittata.”
Un vento di disappunto e di polemica traspare ancora da “Raccolta rifiuti e antimafia a parole”. “Ci raccontano balle e favole contro la mafia” scrive l’autore, riportando scritti di Cristoforo Spinella, Saverio Lodato e Pietrangelo Buttafuoco.
Nella seconda ed ultima parte di questo volume, l’io narrante dell’autore si ripropone nuovamente, sotto le vesti di Tony Speranza, giornalista che rompe, che scrive di uomini, ominicchi e quaquaraqua, che vive sempre a contatto con le persone, con gli accadimenti più comuni che vanno dagli incontri occasionali alla discussione sulle scacce modicane, dalla critica a giullari, ruffiani e letterati-illetterati che non sanno neanche usare la grammatica e la sintassi, agli scontri dialettici con politici, sindacalisti, con gente comune e financo con i carabinieri, non tanto per il gusto di avere scontri, ma per cercare di mantenere sempre saldo il suo senso etico.
Giardina, certo, è consapevole che non si può litigare con il mondo intero, ma, se necessario, egli si dimostra disposto a farlo. Non gli manca infatti, nonostante tutto, l’ottimismo, la capacità di sognare, così come si evince dalle ultime pagine di questo libro, ove l’io narrativo di Tony Speranza, deceduto lo stesso giorno del padre, si proietta nella Pozzallo del futuro, quella del 2027, e – proprio come in un sogno – dialoga con il nipote Michele e con Matias, immaginando una Pozzallo nuova, diversa, cambiata, con centri sportivi, con un porto divenuto fonte di ricchezza, e con un sindaco ed una giunta il cui colore politico è diventato “L’azzurro del mare, il verde della speranza, il bianco della limpidezza amministrativa, il rosso della determinazione”.
Non un sindaco Mandrake, come lo definiscono nel sogno i due giovani, ma un sindaco che ha saputo conquistare la gente con “notevole dose di buon senso e intelligenza”, e che ha capito che per salvare la sua fanciulla occorreva scegliere una squadra di assessori entusiasti e preparati e affidarsi a persone esperte, dotate di mestiere e professionalità, per una cura ricostituente dei settori nevralgici dell’Amministrazione comunale. Ed è quello che ha fatto. (…) Il successo di questo sindaco è stato costruito con gli strumenti della chiarezza e del patto d’onore con i cittadini: questo è il mio programma, questi gli assessori che mi collaboreranno; questi i consulenti; queste le scadenze annuali per la verifica dell’azione amministrativa avviata e svolta.”. Ma nel sogno il nonno Tony Speranza svanisce, mentre il nipote Michele gli dice: “No, no, per favore, non te ne andare ……promettimi che ti farai vedere ancora. Ciao. Mi manchi tanto. Ti voglio bene. Grazie di tutto, nonno. Ciao, Ti voglio bene, ti vogliamo bene. Ciao”.
Avviandoci a concludere queste note critiche, ci pare di poter dire che questo testo rappresenti una costruzione reale di questo nostro tempo, fatta da Giardina non con l’utilizzo di un filone narrativo unico, ma con l’uso della tecnica della “variatio” e con il ricorso a inchieste, provocazioni, riflessioni ove la distanza tra realtà e fantasia appare fortemente accorciata dalla veridicità dell’evento stesso narrato.
Il raccontare di Michele Giardina è un “raccontare aperto” che si snoda come “ermeneutica critica della società del nostro tempo a livello socio-politico ed etico, al fine di far risaltare lo sfaldamento valoriale dominante, con una “prosa realistica” e di denuncia, atteso che l’autore è uno cui piace “stare in mezzo alle cose che succedono”, per usare un’espressione di Calvino.
La prosa di Giardina è infatti nel contempo racconto e documento, rievocazione di un evento tragico e denuncia socio-politica, ricostruzione giornalistica e recupero di riflessioni etiche: elementi che, pur nella loro diversità e variegazione, si intrecciano inducendo il lettore a riflettere; il linguaggio è colloquiale, lessicalmente usuale e di impatto immediato; dentro questa colloquialità ci sono però tante dimensioni metalinguistiche che occorre cogliere: la sofferenza, il dramma, il sogno, l’attesa, il bisogno, la rassegnazione, il cinismo, l’affarismo, l’ipocrisia, la delusione, la speranza.
Insomma racconto e documento, denuncia e protesta, analisi e sprone etico, fantasia letteraria e linguaggio narrativo consentono a questo volume di superare, come a volte si nota in alcuni passaggi, la tentazione del cronachismo neorealista, per connotarsi invece come cammino della coscienza critica dell’autore, il quale spinge i suoi lettori a leggere, da una parte, la realtà e, dall’altra, a farli uscire dalla tentazione del quietismo e della manipolazione.
“Mare rotto” non è, pertanto, un “particolare” documento narrativo fine e se stesso e riguardante un microcosmo provinciale, ma un atto creativo che nel mare ha il suo elemento di universalità metaforica e che va inteso come “assunzione del reale” da parte dell’autore, nei suoi valori e nelle sue contraddizioni. Allo stesso modo, in “Mare rotto” tutta “l’esperienza narrativa” di Giardina, filtrata dalla sua creatività, dalle sue percezioni e indignazioni, dalle sue emozioni e dai suoi sentimenti, diventa un paradigma simbolico-metaforico, cioè il segno di un malessere esistenziale che ci coinvolge tutti e del quale l’autore propone una lettura fedele alla sua coerenza e dignità.
Michele Giardina è un narratore realista; con questo libro, a tratti ironico e sarcastico, si fa interprete del degrado morale della politica, che è la grande accusata della sua narrazione d’inchiesta, nonché dell’inefficienza, del disordine e dell’incapacità della burocrazia amministrativa a saper gestire gli eventi più minacciosi per l’umanità.
Lo sfondo del volume è il mare di una Sicilia: “buttanissima o bellissima? Semplicemente magica. Nella sua bellezza. Nonostante dominazioni, tormenti, contraddizioni, tragedie umane e politiche”, e dove la cultura mafiosa, purtroppo, continua a rafforzare le sue radici nelle Istituzioni, allignando attraverso il malaffare, la corruzione, la mediocrità e l’ incapacità della politica di dare senso e risposta alle attese della gente.
E il libro di Michele Giardina sembra parlare proprio alla gente, agli uomini comuni per provocare una reazione di riscatto e di ripresa contro chi ha tentato e tenta , ancora oggi purtroppo, di lasciare la Sicilia nell’immobilismo, facendola cadere nel “grande sonno”, per usare un’espressione di Tomasi di Lampedusa.
Certo, nel libro ci sono anche semplificazioni di tematiche che avrebbero richiesto analisi più dettagliate, ma ciò non toglie nulla al valore del testo, che sta nel fatto che esso si configura come testimonianza della sensibilità etica e civile dell’autore, sensibilità capace di farsi “denuncia e impegno” finalizzati allo smascheramento delle menzogne di una politica cinica che, mentre giuoca con compromessi meschini e di bassa lega, assiste – come direbbe Tomasi di Lampedusa – al “rantolo della Sicilia arsa”.

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