Finalmente una buona notizia : la sopravvivenza rispetto alla più diffusa neoplasia maschile, il tumore della prostata, è in aumento, a prescindere dal grado di gravità della malattia. Merito di una diagnosi che è sempre più precoce, infatti, il tumore della prostata è il più diagnosticato tra gli uomini. Ma nonostante l’elevata diffusione, i tassi di guarigione sono soddisfacenti.
Un pò come accade con il tumore al seno tra le donne, a cinque anni dalla diagnosi è vivo quasi l’89 per cento degli uomini colpiti dalla malattia. Il merito è da ascrivere alla diagnosi precoce, oltre che alle evoluzioni terapeutiche. Certo, sempre più diagnosi, ma anche sempre più trattamenti . L’importante ora, però, è di evitare i trattamenti inutili, per malattie diagnosticate, ma che non arriverebbero mai a mettere a rischio la vita del paziente.
E’ inutile negarlo, ma da quando nella pratica clinica c’è stato il progressivo ingresso del dosaggio dell’antigene prostatico specifico (Psa) ha favorito l’identificazione di un maggior numero di tumori in fase iniziale, che in realtà risultano presenti in forma latente già negli over 50 (15-30 per cento) e in misura maggiore negli ultraottantenni (in circa il 70 per cento dei casi). Rispetto al passato, dunque, si diagnosticano più neoplasie della prostata. Il che non vuol dire però che oggi ci si ammali (incidenza) o si muoia (mortalità) con maggiore facilità.
Tutto questo, quindi, evidenzia da una parte un aumento dei pazienti giunti alla diagnosi con un tumore alla prostata con una classe di rischio bassa, e dall’altra una riduzione dei casi di malattia diagnosticati in fase tardiva (classe di rischio alta o metastatica) e un miglioramento complessivo della sopravvivenza nei gruppi ad alto rischio.
Ecco allora che viene fuori “ il rovescio della medaglia” : un diverso approccio di cura a seconda della fascia d’età dei pazienti. Infatti, il maggiore uso del dosaggio del Psa e quindi con diagnosi precoci di tumore della prostata, ha comportato di effettuare più interventi invasivi tra gli uomini con meno di settant’anni, mentre s’è fatto un minor ricorso rispetto al passato alla chirurgia nei pazienti over 75. Ciò vuol dire che esiste il rischio di un eccessivo trattamento (chirurgia e radioterapia) dei pazienti a basso rischio e di una maggiore trascuratezza di quelli più anziani. Questo è il rovescio della medaglia, che porta, talvolta, a trattare in maniera eccessiva pazienti che hanno una malattia indolente.
L’obiettivo è ridurre il trattamento dei tumori indolenti, anche ricorrendo alla sorveglianza attiva. Tra i vantaggi, in questo senso, ci sarebbe anche una riduzione degli effetti collaterali per i pazienti (incontinenza e disfunzione erettile, ndr).
Tutto ciò che si è detto, allora, rimanda all’utilità in chiave diagnostica dell’antigene prostatico specifico. C’è da dire in merito a questo che , mentre, negli Stati Uniti il suo dosaggio oggi è usato in maniera diffusa per lo screening di popolazione, invece, in Italia, come in molti altri Paesi europei, no. Perché? Nonostante l’impiego del test evidenzi una netta riduzione della mortalità per il tumore della prostata, è necessario considerare l’aumento del rischio legato all’eccesso diagnostico. Facendo la tara tra rischi e opportunità, dunque, i risultati non sono al momento considerati sufficienti a giustificare un’attività di screening sulla popolazione.
Sì o no dunque al dosaggio del Psa? Sì, a patto che i risultati vengano correttamente interpretati da una equipe multidisciplinare. È inutile allarmarsi basandosi soltanto sull’esito del dosaggio del Psa. In determinate situazioni cliniche non è necessario intervenire subito in modo radicale, ma è consigliabile sottoporre il paziente a un percorso di monitoraggio del tumore, se questo è definito a basso o molto basso rischio di progressione. ( fondazione veronesi )