IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. Ricordando Carlo Stoppani e Pietro Lancetta, docenti dell’Istituto Tecnico Archimede e autori del volume “Passeggiate nei dintorni di Modica”

FOTO ARCHIMEDE

Con piacere abbiamo appreso che l’Istituto Tecnico “Archimede” di Modica celebra i suoi 150 anni della fondazione. Molti sono gli studenti che sono usciti da questa prestigiosa istituzione scolastica, per non dire che fra i suoi docenti ce ne sono anche alcuni che hanno dato prestigio alla scuola.

Ci riferiamo, in particolare, a due docenti: il sacerdote Carlo Stoppani , docente di geologia, e il prof. Pietro Lancetta. Quest’ultimo, docente di fisica, oltre ad insegnare all’Archimede venne chiamato nel 1894, dall’allora Preside Prof. Leonardo Ricciardi, a dirigere l’osservatorio meteorologico e astronomico dell’Istituto Tecnico per Geometri “Filippo Brunelleschi” di Girgenti. Lancetta dà una svolta all’osservatorio ed anche prestigio all’intero Istituto agrigentino; l’osservatorio ne diventa il vanto. Il Lancetta si distingue come un fine ricercatore e studioso, esegue uno studio sul clima di Girgenti, sperimenta alcune sue invenzioni e partecipa a diverse manifestazioni come l’EXPO di Torino del 1911 dove viene premiato con una medaglia.
Ci piace citare Lancetta e Stoppani, nel quadro delle manifestazioni dei 150 anni dell’Archimede di Modica, in quanto sono entrambi autori di un libro edito da Nino Petralia, nel quale con un estro narratologico puntuale e accattivante raccontano l’esperienza di alcune Passeggiate nei dintorni di Modica( da cui il titolo della loro opera) effettuata a piedi e in carrozza con alcuni studenti.
Una sorta, diremmo oggi, di viaggio d’istruzione di stampo naturalistico e finalizzato alla conoscenza del territorio di Modica, di Pozzallo, del litorale ispicese con la sua spiaggia della Marza, di Marina di Modica, di Scicli, di Sampieri fino a Donnalucata.
La narrazione del volume ruota su tre versanti che mettono in sinergia scenari naturali, analisi della morfologia della costa iblea e recupero di fatti e avvenimenti storici.
Il viaggio parte da Modica. La città, che dà infatti il via al racconto, è descritta, siamo verso la fine dell’800, con dovizia di particolari:

“Serrata fra colli o altipiani rocciosi, che il volgo classifica col nome di timpe, Modica offre un aspetto più bizzarro che pittoresco, e felicemente venne assomigliata ad una melagrana che si schiude alle prime piogge ottobrine(…) Chi avesse desio di godere lo spettacolo che offre la vista di un piccolo paese trogloditico, non avrebbe che a vistare il versante orientale della Cianta; quivi le caverne s’addossano le une alle altre, dando luogo ad una specie di grandioso alveare; uomini, donne, fanciulli, somari, cani, gatti e galline s’agitano, si muovono per anguste stradicciuole, salgono e discendono per ripide e scabrose scalazze, e traendo una vita ben poco fortunata, soffocando i gridi ed i lamenti nell’oscurità della caverna”.

La Modica dell’800 è una città divisa in quartieri con propri usi e costumi, circoscritta a Levante dalla Giganta e a Mezzogiorno dalla collina di Monserrato; a Ponente dall’Itria, ove si trovano già le tracce di “una piccola chiesuola che dà luogo a festevoli ritrovi”, e a tramontana dal Pizzo, “coronato da un bellissimo poggio” , un altipiano che “dal vertice alla base è tutto tappezzato di case, che formano nel loro assieme una veduta assai bizzarra, specialmente quando alla sera appaiono scintillanti i mille lumicini, che si accendono nei casolari”. Lo scenario delle cave e delle sorgenti che scaturiscono dal suolo modicano è raccontato con cura e dovizia di particolari, mentre i problemi legati all’acqua potabile già nell’800 appaiono rilevanti se dal racconto emerge che “ben pochi sono coloro che si pigliano pensiero dell’acqua; un elemento sì importante per l’igiene pubblica, per dire la verità, in Modica è assai trascurato; e chi sa quante malattie si risparmierebbero all’uomo e agli animali se si avesse più cura delle acque potabili”.
La narrazione di Stoppani e Lancetta proietta anche lo sguardo su altri aspetti della città: la vita dei campi, semplice e sciolta da tutte quelle artificiose convenienze, e lo status socio-economico del paese nel breve periodo del risorgimento italiano. Modica viene descritta come una città in “rapido progresso” grazie alla presenza di un ordinamento delle strade, di una illuminazione notturna, e all’apertura di nuovi negozi, all’introduzione di banche, alla cassa di risparmio, alla nascita di casini di lettura e , soprattutto, di un processo di culturale che fa di essa “un centro di istruzione” , al quale accorreva “numerosa la gioventù di tutti i paesi circostanti” per attingervi “quelle nozioni, che un giorno ritorneranno grande e ricco il popolo italiano”.
Da Modica a Pozzallo il percorso narrato da Stoppani e Lancetta passa per la Sorda, la quale, nell’ ‘800, era esclusivamente campagna coltivata a fave, orzo e a frumento, con qua e là “leggiadre casine” di villeggiatura; si snoda quindi in una descrizione di Cisterna Salemi fino ad arrivare alla villa Beneventano, ove, come ci testimoniano i due autori, esisteva già in quel periodo “una piccola trattoria costruita allato l’ingresso della villa” : “Una trattoria in campagna! esclama uno studente. “E’ un vero progresso, osserva un altro”.
La narrazione ha il pregio di fare approdare sulla pagine anche notizie legate alla botanica dei luoghi iblei, al sistema idrogeologico dei terreni, alla natura della vegetazione, specie quando i due autori fanno intervenire nella narrazione personaggi
esterni che fungono quasi da guida, come nel caso di un vecchio pecoraio che, a circa un chilometro da Pozzallo, s’imbatte nel gruppo in viaggio e spiega agli studenti a quali usi servisse la palma nana:

“…Subito si alzò da terra, e assumendo un fare cattedratico, si fece a spiegarci come con le foglie della palma nana si facessero scope, corde e gomene, come i germogli fossero teneri e grati al gusto, e come nell’inverno si raccogliesse il corto fusto che sta sotterra e avesse il sapore dolce come il miele”.

Lo scenario di Pozzallo che i due autori disegnano nel loro percorso è fascinoso (la “leggiera brezza mattutina”, “le onde spumeggianti”, “le barche pescereccie”, da lontano simili a “candidi cigni mollemente adagiati sull’acque”), e gli scogli appaiono l’oggetto di una indagine finalizzata ad esaminare la natura della roccia e “i misteri della vita del mare”.
Dal racconto emerge che Pozzallo nell’800 era uno scalo marittimo importante per il traffico dei prodotti agricoli di buona parte del circondario modicano e che il commercio di questo “paesetto di circa 5000 abitanti situato in riva al mare Africano”, si estendeva ai principali porti italiani e a Malta, che distava da Pozzallo circa sei ore di navigazione.
Il litorale di S. Maria del Focallo e della Marza , ove i viaggiatori incontrano “un corpulento massaro” e poi un “cavallaro”, rifulge nella descrizione del volume in tutta la sua naturalità: “arene, che sotto l’azione dei raggi solari si rendono cocenti”, orme di animali sulla spiaggia (lepre, conigli, scarabei), ruscelli ove “alcune donne, cicalando fra esse, lavavano le loro scarse biancherie, mentre alcuni marinai riempivano d’acqua alcuni barilotti, che dovevano servire per le barche pescherecce”.
E ancora, “L’isola dei porri” e “Punta Regilione”, e “Il Pisciotto” con i suoi crepacci e le sue fenditure e con i massi accavallati gli uni sugli altri, riempiono pagine che hanno il sapore di una naturalità immaginifica ove il paesaggio diventa non sono descrizione fenomenologia ma “paesaggio dell’anima” che sa stupefarsi di fronte a tanta bellezza. Bellezza che sussurra tra le labbra degli studenti allorquando entrano a Sampieri, ove ad accoglierli trovano un povero pescatore analfabeta, Vincenzo Bruno, che intesse un dialogo con loro raccontando la sua vita di soldato nella battaglie siciliane di Palermo e concludendo con la citazione di due versi: Palermu chi vinciu cu battimanu/ Cu stocca, tri cutedda e un timpirinu”.
La passeggiata dei visitatori è l’occasione per riprodurre il contesto socio-economico della Sampieri dell’800, situata sopra una punta rocciosa e “fiancheggiata da due seni, l’uno a destra che finisce alla Punta Corvo, l’altro a sinistra, che raggiunge la punta di Ciarciuolo”.
Sampieri nella descrizione di Stoppani e Lancetta appare come un borgo abitato da pochi pescatori, che nella stagione estiva si popola di bagnanti. La zona rivierasca era in quel periodo dotata di diversi magazzini ove venivano depositate le carrube del circondario , che venivano da lì prelevate per mezzo di una barca e messe in commercio, così da fare della frazione un centro di commercializzazione di questo prodotto tipico degli iblei.
Il viaggio ha il suo momento culmine e conclusivo nella visita di Scicli e Donnalucata, che vengono raggiunti in carrozza.
Gli autori descrivono Scicli come “Città elegante”, rifacendosi ad un’opera del ‘700 intitolata La Sicilia in prospettiva, ove si afferma che nelle scritture pubbliche Scicli era chiamata Urbs elegans. Lo scenario paesaggistico descritto riproduce una cornice fascinosa di Scicli vista dall’alto, utilizzando anche i toni lirici della poesia:

“La carrozza prosegue per la sua via, e noi ci accostiamo al muro di riparo per contemplare lo spettacolo che ci si svolge davanti. Il sole ha già indorate le cime delle alture, e i colli si trasformano in tappeti a mille tinte e a mille sfumature; storni di passeri e di cardellini si spiccano dai talami verdeggianti, e librandosi nell’aria, si dirigono ai campi in cerca di sementi; e Scicli si ridesta al suono dei sacri bronzi, che ripercosso dalle rupi, echeggia nelle valli, grave e solenne.
Ecco un rumore s innalza, si propaga e va crescendo di minuto in minuto, e un rumore strano e confuso di carri, di incudini, di martelli, che si confonde col cigolio degli usci, delle finestre e colle voci stridule di donne e dei ragazzi”.

Scicli emerge come un incrocio pittorico di bellezze: in alto “gli avanzi di venuste mura”, “più in basso le antiche abitazioni scavate da un popolo trogloditico nella roccia”, “più in basso ancora, eleganti casette costruite sui ruderi”, “sul piano infine e a lato delle cave, sontuosi palazzi, splendide chiese, orti e giardini di aranci e di limoni dalle chiome fiorite che esalano nell’aria i più soavi profumi”.
Il quadro narrativo è successivamente arricchito di incontri, ove compaiono figure varie, tra cui un vecchio contadino che parla agli studenti visitatori della “chiesa di S. Matteo” ove venivano seppelliti i morti, della cava di S. Maria La Nova, delle coste di S. Lucia, del “castellazzo” che difendeva il paese dai Saraceni, della cava di San Bartolomeo, del “baule” di San Guglielmo, con riferimento al fatto che nella parte bassa il monte si allungava quasi da assumere l’immagine di un baule, o di un “sarcofago capace di contenere le spoglie di un ciclope” come afferma durante la visita dialogata uno studente.
E il monte di San Guglielmo diventa anche l’occasione per offrire al lettore una conoscenza dello stato geofisico del sito visitato. A riguardo i due autori del volume spiegano il perché il monte di S. Guglielmo si è così rotondato da sembrare un pallone, facendo quasi dal vivo una lezione scientifica sull’origine della cave e delle valli, lezione che prosegue nel momento in cui si dirigono poi verso “La fornace” del Pisciotto, ove il gruppo di visitatori si imbatte in “un uomo col vestito, la barba, i capelli bianchi di gesso”, con “una piccola lucerna il di cui lucignolo mandava una fiamma pallida e tremolante”. Quasi impauriti, gli studenti seguono il fornaciaio, dalla voce cupa e sepolcrale, incamminandosi lungo pareti umide, fredde e limacciose e avvolte in un odore puzzolente di argilla. Il racconto, infittito di continui dialoghi, dà agli autori la possibilità di spiegare le origini del deposito gessoso, di affermare che la sorgente gessifera di Scicli “era una sorgente sottomarina “ e che l’epoca del gesso risale all’epoca postpliocenica dei fossili.
La narrazione, infine, coglie gli aspetti religiosi e folklorici della città di Scicli, in particolare la festa delle Madonna delle Milizie, e si avvia al suo epilogo con la descrizione di Donnalucata, una borgata che nell’800 era abitata durante l’inverno da circa dodici dozzine di persone, “per la maggior parte pescatori o marinari, d’indole buona, allegra e vivace, non facili a toccare la roba altrui, ma un tantino poltroncelli, poco industriosi e abilissimi nel vendere a caro prezzo il loro pesce”.
La descrizione della Donnalucata dell’800 è anch’essa connotata da elementi morfologici e geofisici e da una sorprendente prosa poetica. Stoppani e Lancetta parlano della borgata come di un centro ameno e ridente situato su un piano roccioso composto di una roccia calcareo-silicea compatta, a superficie liscia e marmorea; esaltano il paesaggio marino, disegnano le coordinate ambientali della borgata caratterizzate da un lido di scogliere disteso tra alghe, arene e dune biancheggianti; da “campi seminati ad orzo e frumento, cinti da muracciuoli o assiepati da boschetti di agave”; da “vigneti verdeggianti ombreggiati da frondosi alberi di fico o da vetuste pianti di carrubi”.
Dunque, un viaggio nella conoscenza geofisica e morfologica e nella bellezza dei luoghi del comprensorio modicano può definirsi questo volume, che vale la pena leggere per tuffarsi nel quadro di un paesaggio naturale puro e incontaminato della fine dell’800. Gli Autori , per immaginazione o per esperienza diretta, ricorrono all’espediente della passeggiata per raccontare e descrivere l’habitat naturalistico dei dintorni di Modica, e lo fanno con un linguaggio letterario e specialistico brioso, agile, suggestivo e accattivante.
Le passeggiate che vengono narrate esprimono una sorta di “amor” dei due autori per tutto ciò viene da loro osservato: il cielo, il mare, la campagna, le vallate, le colline, le distese di paesaggio, i muri, la spiaggia, gli alberi, gli animali, le coste, le rocce, i palazzi, i monumenti, in direzione dei quali vengono condotti anche l’occhio, la mente e il cuore degli studenti visitatori.
Tutto questo universo naturalistico che ammanta il circondario di Modica si snoda, pertanto, come un “diario” dove i protagonisti appuntano le vicende di intere giornate di cammino tra le città di Modica, Pozzallo e Scicli e poi lungo la costa ragusana; passeggiate lente che aprono alla meraviglia della scoperta, all’incontro, all’osservazione dei luoghi e che suscitano in loro un tale interesse da descriverli dettagliatamente e in modo dialogico.
Vi sono, poi, lungo il percorso, alcuni incontri con personaggi particolari, contadini, pecorai, vecchi, poeti pescatori, il massaro, il fornaciaio ect. , tutti diversi tra loro e di umile estrazione, e con una adegua conoscenza dei luoghi che si riflette sulla narrazione grazie al ricorso ad un circuito comunicativo dal quale emergono note di umanità e spiritualità.
Ciò che piace di questo libro è l’intreccio tra narrazione e descrizione, poesia e prosa, letteratura e scienze naturali, storia e memoria, intreccio che trova corpo nella padronanza di un linguaggio scrittorio sempre in evoluzione e dal quale il lettore può trarre giovamento sia per calarsi nell’alveo di un territorio, quello dei dintorni di Modica descritto da Stoppani e Lancetta nel 1881, e contemplarne la suggestività e le geometrie armoniche, sia per entrare nell’universo paesaggistico che fa del comprensorio modicano, con la sua vegetazione, il suo mare, le sue valli, le sue spiagge e i suoi affacci mediterranei, un angolo di magico incanto e di naturale bellezza nell’area del Sud Est..
foto libro Stoppani e lancetta

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