IN PUNTA DI LIBRO……di Domenico Pisana. “Sinestesie dell’io”: la raccolta di Daniela Cecchini tra poesia civile e tensione lirico-narrativa

daniela cecchini

Un poesia densa di motivi etici e poggiata su filamenti di forte sensibilità coscenziale è quella che Daniela Cecchini consegna ai suoi lettori con la silloge poetica “Sinestesie dell’io”, Editrice La Caravella 2016. Un libro che s’alza quasi al cielo come una sorta

di canzoniere ove la versificazione, a metro libero, scaturisce dai meandri di un “Io” che evoca, ora con un piglio più discorsivo ora con accentuazioni di intensa liricità, scenari storici e problematiche civili che si raggomitolano dentro un verso che – come bene scrive Giorgio Linguaglossa – “sceglie la linea ‘elegiaca’ senza elegia”.
Daniela Cecchini, in verità, è al suo esordio poetico; pur avendo avuto con la poesia, sin dall’infanzia, un rapporto vitale e di rilevante carica emotiva, e pur avendo dagli anni ’80 frequentato salotti culturali e movimenti letterari di una certa rilevanza, fra i quali l’ “Accademia V. Alfieri” di Firenze e l’Associazione “Lo specchio di Alice di Bologna” nonché collaborato con riviste letterarie, solo alla fine dello scorso anno ha deciso di dare alle stampe la sua prima raccolta, che si presenta con una resa connotativa correlata al “fenomeno di crescita tipico di ogni iter iniziale” come dice Montale, inevitabilmente legato alla “Gegenwart” di reminiscenze e di oscillazioni che pullulano in modo latente nella struttura delle liriche richiamando grandi temi di poesia civile, nonché idealità che si scontrano con quel “negativo del mondo esistente” di hegeliana memoria e che lasciano intravedere una piena e promettente maturità poetica.
Nel titolo della silloge troviamo già le linee di movimento di un poetare che si fa spazio dentro un orizzonte complesso e problematico; la sinestesia, infatti, non è, nel caso della Cecchini, una semplice figura retorica funzionale alla stesura della sua versificazione, ma assume, come già nell’etimologia della parola (dal greco sýn “con, assieme” e aisthánomai “percepisco, comprendo”; quindi “percepisco assieme”) un valore quasi epistemologico, atteso che le poesie della raccolta affondano le radici nell’ “io so”, nell’ “io penso”, nell’ “io sono” e nell’ “io vivo” e in tutto l’ essere poetante dell’autrice.
E’, dunque, dentro il coagulo delle sue percezioni interiori, messe insieme ex toto corde, ex tota mente, ex totis viribus, che la poetessa si abbandona al sogno come “unico rifugio possibile” e che apre il suo sipario, quello dell’anima, per ritrovare “Incanto, immaginazione, fertilità creativa”, per disegnare il suo “paesaggio onirico” e “Sereni colori di una veloce alba”, per “respirare libertà /sorvolando l’ignaro qualunquismo”(Proiezioni interiori”)
Si tratta di immagini e di visioni che vanno oltre la retorica di un intimismo e psicologismo fini a se stessi, ma che, invece, assumono il reale e il divenire storico e che decifrano la vita ponendola in relazione con i personali flussi di coscienza dell’autrice, coscienza che appare descritta come “sipario strappato” ove “la velocità del dolore è insuperabile”, e che il tempo insegue “nell’infinita corsa ad ostacoli” facendo riverberare intensamente il suo grido: “Annaspo confusamente, / prospettiva nebulosa, / solo note malinconiche mi chiamano.”(“Arduo sperare”).
La dilatazione delle percezioni sensitive, uditive ed immaginative di Daniela Cecchini sa interpretare aspetti universali dell’anima umana, ricorrendo ad efficaci metafore come la prigione ( “L’anima, prigioniera del suo involucro / si affanna, poi soffoca. / Ma mette le ali / quando si nutre / di vita interiore…”); ed ancora il viaggio (“…Viaggio improbabile / il nostro…” “Nello spazio privo di confini, / noi, anime inadeguate , / mostriamo nudi i nostri limiti…” “ …Ma la coscienza dei mutamenti / del tempo / mi obbliga, comunque, a proseguire / l’incerto cammino” , in “Lampo infinito”) e, infine, la maschera (“…Quale maschera indosso? / Mille facce posso scegliere, / cerco invano la mia…”( “La maschera”).
Tutta la prima sezione del volume è bene sintetizzata nella scelta, da parte della poetessa, della citazione di un pensiero di Seneca riportato in epigrafe, (“Magis gauderes quod habueras, quam moereres quod amiseras”), che è esplicativo non tanto di una poetica, – ancora presto per essere delineata trattandosi della silloge di esordio- , ma di una “ratio di fondo” della poesia della Cecchini che si sostanzia in quelle forte percezioni interiori che anelano alla bellezza dell’amore, atteso che – come dice Seneca – “E’ meglio avere amato e perso che non avere mai amato”( “…Mille volti della disillusione: amore negato / amore ascoso / amore malato…”, in “Impervio cammino”.)
Tutte le “sinestesie dell’io” di Daniela Cecchini non sono altro che attimi di scavo interiore, di introspezione che brucia le ferite del cuore, di ricerca di nuove esperienze, di coagulo di domande a cui la poetessa cerca di dare risposta, di narrazione dei suoi stati d’animo attraversati ora dal buio ora dalla luce, ora da visioni ora da sogni, ora rimescolati attraverso i filmati della memoria che diventano ponte di ricongiungimento tra passato e presente, tra eventi personali e fatti sociali, incontri e scontri, illusioni e disillusioni, gioie e dolori, ricordi e aspirazioni, fragilità e debolezze, smarrimento e speranza.
La seconda parte della raccolta si dispiega come voce di canto di poesia civile che tocca tematiche riguardanti la violazione dei diritti umani, le spose bambine, i crimini contro l’umanità, i bambini soldati, la prostituzione minorile nei paesi vittime di guerre civili, l’olocausto degli ebrei, riti di culture religiose come l’infibulazione, le vittime di naufragi. Dentro questo scenario di male, la poetessa riprende, in fondo, problematiche già ampiamente al centro di tanta produzione poetica contemporanea, ma ella riesce a ricondurle nella direzione di interrogativi che vanno oltre il rischio della descrizione retorica.
Molte delle sue poesie di denuncia riescono ad avere esiti apprezzabili perché cercano di non eludere le responsabilità sia individuali che sociali di coloro che la poetessa etichetta come idioti: “Scomoda la memoria / per gli idioti / che si fingono invulnerabili / al perenne dolore / della rievocazione…” “…Scomoda la memoria / per gli idioti / convinti della loro vana immunità”.
Ci sono domande esistenziali molto forti dentro l’universo poetico della Cecchini, domande che cercano la verità non all’esterno ma all’interno dell’uomo; questo spiega l’epigrafe che campeggia nella seconda parte della silloge e tratta da S. Agostino: “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas”.
Ma che cos’è la verità per la poetessa? Le poesie di questa silloge indagano questa domanda fondamentale e sembrano rispondere affermando che la verità deve fare riferimento non tanto a ciò che è da “conoscersi”, da “dirsi” o da pensare, ma a “ciò che è da farsi”, da “praticare” nel tessuto della storia umana, quasi nell’ accezione greca di “aletheia” , che significa svelamento, chiarificazione.
Insomma, la poetessa sembra dirci che la ricerca della verità accompagna quotidianamente il cammino dell’uomo; non solo, lo rende difficile, lo complica creando anche divisioni, conflitti, dubbi, ma occorre non fermarsi.
“Sogno un futuro migliore / devo rischiare…”: così afferma in un verso Daniela Cecchini, e questo futuro dove il male, il crimine, la morte possono cessare di trionfare, non può essere dato da una “verità mitica” tipo quella presente nelle tragedie di Eschilo, Sofocle, Euripide dove sono gli dei che decidono arbitrariamente le regole e le norme alle quali l’uomo deve conformarsi, pena la sua rovina; non può essere dato dalla “verità retorica” in base alla quale chi usa meglio le parole, chi convince il maggior numero di persone possiede e dice la verità, né da una “verità filosofica” in base alla quale sono le regole oggettive, logiche e linguistiche a definire che cosa è la verità, né da una “verità scientifica”, in base alla quale è la scienza a costituirsi come chiave totale di interpretazione della realtà, negando ogni spazio al mistero e pretendendo di giungere alla conoscenza di tutti i fenomeni e alla loro spiegazione.
Citando S. Agostino, la poetessa sembra affermare che la verità è un’altra cosa, non è un sistema di conoscenze ( “Notte fonda per la cultura. / inermi assistiamo / al lento naufragare / del pensiero…”) né di norme imposte dall’esterno, né un’ideologia o uno stato intellettuale, ma un accadimento, un evento, un fatto: “nutrirsi di vita interiore”, perché è nell’interiorità del cuore che abita la verità, quell’interiorità spirituale che non è un oggetto di cui si possa disporre per stare sopra gli altri, un formulario di dottrine da imporre; e la poesia è abitata dalla verità ed protesa alla ricerca della verità, e nessuna concezione storicistica, nichilistica, scientistica, relativistica dell’uomo e della storia potrà mai eliminarla: resisterà al tempo, direbbe Montale.
E’ alla luce di questi orizzonti che occorre dunque leggere le poesie di Daniela Cecchini, la quale riesce a comunicare e a coinvolgere, a librarsi verso il cielo, ad aprirsi alla contemplazione e a percepire il battito del cuore umano; al di là, poi, dei dati semantici, formali, stilistici e linguistici, che dovranno nel tempo affinarsi ed evitare di cedere a prosodie descrittive, ciò che piace di questa raccolta poetica è la sua forza propulsiva in ordine all’indagine dell’esistenza umana ad intra e ad extra, nonché quel bisogno dell’autrice di non rassegnarsi a lottare perché all’orizzonte possano comparire “Sereni colori di una veloce alba…” , quasi in sintonia con quanto scriveva Hegel: “lo stato dell’uomo che il tempo ha cacciato in un mondo interiore, può essere soltanto una morte perpetua, se egli in esso si vuol mantenere, o, se la natura lo spinge alla vita, non può essere che un anelito a superare il negativo del mondo esistente, per potersi trovare e godere in esso, per poter vivere”.
E la poesia di Daniela Cecchini vuole tentare di reagire all’amara polifonia di sensazioni che “le sinestesie dell’ io” le provocano nell’anima, opponendosi al “negativo del mondo esistente”, al qualunquismo, alla rassegnazione e a quel “Fatalismo / dominatore indiscusso / dell’umana indifferenza”.

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