Una poesia “introspettiva e ininterrotta” quella che Giuseppina Rando offre ai suoi lettori con la silloge “Geometria della rosa”, Aletti editore, Roma, 2016. L’autrice, siciliana, già docente di Lingua e Letteratura italiana nelle scuole secondarie, vanta un percorso letterario di tutto rispetto, caratterizzato da ben sette raccolte poetiche, da saggi e racconti che portano dentro il respiro di ricerche anche filosofico-teologiche.
Con “Geometria della rosa” ci troviamo di fronte ad un poetare che conosce la profondità, l’altezza, il segreto e il respiro dell’essenziale metafisico, invisibile agli occhi, ma percepito dal cuore.
Già nel titolo del volume troviamo una dichiarazione di poesia ermetica, se è vero che la rosa è un simbolo fortemente complesso, poiché include in sé significati variegati e, tra loro, a volte, totalmente antinomici. Nella rosa c’è molta ambivalenza: può alludere alla perfezione celeste e alla passione terrena, al tempo e all’ eternità, alla vita e alla morte, alla fecondità e alla verginità; ed ancora, sin dagli antichi miti greci la rosa è stata considerata simbolo di pienezza e di completezza.
Nella poesia di Giuseppina Rando, la rosa richiama la profondità del mistero della vita, la bellezza, la grazia, il profumo dell’amore e della gioia, ma anche il male, l’istinto, la passione che cede alla vendetta, se è vero che non esiste rosa senza spine. Nell’immagine della rosa, l’autrice condensa il simbolo del divenire e, direi in senso traslato, quasi il perpetuarsi della vita umana da quella terrena verso un’Altra dimensione, che i credenti chiamano aldilà, paradiso, resurrezione; insomma verso un “Qualcuno” che può dare senso e significato al nostro essere nel mondo.
L’itinerario lirico della raccolta si dispiega su quattro versanti, attraverso i quali la Rando intraprende un viaggio dell’anima tra cielo e terra(“…non s’arresta la barca / dal vento spinta / s’inciela”) utilizzando stilemi poematici che scorrono con raffinatezza lessicale ed immaginifica, rimandando a contesti di vita e situazioni esistenziali: “Stringi il bandolo e non aver paura / tua è la terra…Non sei straniera!”
Rilevante, nei primi versi dell’opera, appare quella tensione ideale protesa ad abbattere “il muro dell’esilio / per inseguire ancora…/ forse… / una promessa / una speranza”., cui fa seguito il bisogno della purezza e della trasparenza del cuore, simboleggiate in quel “bianco” della luce, bianco del “passo della terra”, bianco del “pioppo a chioma di luna”, bianco della “bruma aurorale / dell’anima che / ogni suo tempo aduna /, bianco del “raggio di luna”.
E’ il bianco che parla il linguaggio spirituale dell’attesa, della rinascita, della luce e della vita e che ci riporta al culto liturgico cristiano ove il colore bianco è utilizzato nel tempo dell’avvento e in quello pasquale.
La prima parte della raccolta evidenzia nella sua “Benennung” l’asse
portante di una dialettica nella quale “logos e materia” , “spirito e corpo”, parola e linguaggio diventano i pilastri di un poetare che scandaglia i meandri dell’anima all’interno di significative coordinate filosofiche. Ogni verso racchiude simbolismi ed analogie che rimandano ad un “oltre” indecifrabile ma fortemente allusivo ed indicativo della condizione universale dell’esistenza umana: “delirare di menti”, “lembi di sogni”, “grappoli letali”, “urli di gabbiani”, “corpi in esilio”, “terre lontane”, “visibile e invisibile”, “labbra eccitate”. “corpi di sale”, “anelli neri di luce” sono tutti vettori lirici e metaforici che trasfigurano creativamente stati esistenziali, visioni di pensiero e fremiti di sentimento che diventano la “coscienza dell’angoscia” e il “bisogno di coraggio” dell’autrice.
Ed è per questo che la poetessa non smette di anelare ad “orizzonti d’attesa” , nonostante “Incastrato nelle anse / il dubbio ostinato / disgrega la mente ma / il nodo resta non sciolto”., e nonostante “ombre a dismisura / s’allungano nel recinto / ove il duello / tra la vita e la morte / ancora non s’arresta”.
Poesia complessa, ermetica, di respiro filosofico profondo appare dunque quella di Giuseppina Rando, se è vero che l’immagine della caverna da lei utilizzata riecheggia in versi il mito della caverna di Platone rappresentando la condizione dell’uomo e la differenza di vita nel mondo sensibile rispetto a quella nel mondo intellegibile.
La vita della caverna è quella che si basa sui sensi, quella verso cui l’uomo più facilmente tende, mentre quella fuori, più difficile, conduce all’idea del bene-bello, perciò ad una valenza trascendente e divina.
La poesia della Rando giuoca molto su questo rapporto dialettico di entrata ed uscita dalla caverna e si fa voce di canto che vuole valorizzare la dimensione interiore dell’uomo, il quale, spesso, si lascia avvinghiare dai sensi privandosi della verità della conoscenza e riducendo tutto – sembra dirci la poetessa – ad un insieme di “Ombre di una notte che non ha inizio al tramonto né fine all’alba”, di “ Ombre che portano… il dolore del vento, la tristezza della nebbia”, di “Ombre della notte nell’io”, così che, in questo status ontologico, il mondo nel quale egli vive sembra essere un regno delle tenebre contrapposto al regno della luce rappresentato dalle idee.
I versi della Rando sono quasi un invito all’uomo contemporaneo a saper rientrare in sé per discernere il bene e il male che gli si agitano dentro e, così, rendersi conto che c’è un mondo disumano, malvagio ed inferiore che è anche il suo. Solo sperimentando l’oscurità della caverna, l’uomo potrà riconoscere ciò che è bellezza, giustizia e bene, e avrà la possibilità di compiere un percorso interiore, di educarsi alla bellezza e diventare veramente più umano , fino a che “Il silenzio che trascina / al fondo della notte bianca / cinge qualcosa d’altro /intorno all’ombra di una gioia / che vuole sopravvivere /al dolore del niente”.
Nella seconda e terza parte del volume il percorso poetico della Rando si arricchisce di nuovi intagli lirici che sondano l’insondabile nel tentativo di comprendere ciò che è avvolto nei segreti del mistero. Ecco allora che concetti come il “tutto” e il “ nulla” si intrecciano confondendo quasi l’anima della poetessa, la quale prende atto che “nel planetario dolore” i sogni si dissolvono nella solitudine del mattino”, e, altresì, si accorge di trovarsi nella condizione di “straniera” nella sua terra trafitta da “voli di rondini”, giungendo alla conclusione che sono “Distanza o assenza / dell’Altro o dell’Altrove a creare il cono d’ombra”. Solo nell’apertura alla Trascendenza e al divino la poetessa trova uno spiraglio di luce nonché forza e ristoro, senso dell’esserci e del fare, atteso che – come affermano i suoi versi – “c’è Qualcuno” che si muove nel suo spazio come “ombra invisibile” / nella nebbia dei giorni e come “voce che dura e lega al dolore”; c’è un “Altro che con lei “scende lento / le scale / sfumato nei colori della sera”, e che riconosce all’alba “nel parlottare puro dell’aria / ai margini del giorno / nelle siepi brune che fulminee / di fatue faville s’accendono”.
Sono, questi versi che citiamo, davvero carichi di spiritualità, trasudano di vita e di “immacolato silenzio”, di palpiti d’anima e di riflessioni profonde ove si avverte quasi un rapporto consustanziale tra umano e divino:
“E se oltre l’immacolato silenzio
del tempo l’essere mio si spande
-in Lui si fonde
-nel tripudio di luce
-ove s’adunano le stelle.
La poesia di Giuseppina Rando, che potrebbe apparire chiusura nell’intima meditazione, in realtà offre aperture che si connotano come “ricerca di senso” dell’esistenza umana, come luogo di domande sul “chi siamo”, “da dove veniamo” e “dove andiamo”, domande universali che appartengono a tutti e che chiedono risposte vere, autentiche, non ideologiche, illuminate dal Trascendente e dal divino, se davvero l’umanità vuole evitare la debacle verso il non senso, il vuoto, la violenza, l’indifferenza, la legge del taglione e la morte che non smette di prevalere e creare terrore:
“ancora sangue d’innocenti…
“Teste recise a doppia lama
nella terra
che nei morti assiepati
involontari eroi
si quieta.
Ancora catafalchi
nelle cattedrali delle terre
consacrate…
Non cessa la vendetta.
Risalirà mai l’umanità
dall’abisso nero delle croci?”
E’, quello dell’autrice, il quadro di uno squarcio disumano provocato dall’imporsi del mondo sensoriale, dall’istinto, dalla forza, dalle ragioni della vendetta e, ancora, dalla brutalità: “sulla sabbia dorata / giace la creatura / stuprata – smarrita tace / trasale l’onda / come seta s’insinua / tra bianche braccia fluttuanti …S’allontana la luce / si dileguano i sensi / con la spuma delle onde…”. E ancora: “torna l’oscuro nascosto…questi giorni disumani / hanno smarrito l’alba…”
La raccolta si chiude con versi che richiamano nelle epigrafi la valenza simbolica del volto, il rapporto tra apparenza e sofferenza, realtà ed eternità. La poetessa affida alla parola poetica, “libera voce di canto” a-temporale che da secoli cammina tra le pieghe del non senso, della menzogna e del potere, quasi il valore epifanico del suo sofferto e maturo modo di sentire, del suo severo guardarsi dentro , del suo scavo interiore senza paura e con una visione realistica della vita.
Questa raccolta poetica di Giuseppina Rando, sicuramente di non facile approccio, conosce la bellezza e la sofferenza, la gioia e il tormento, il dubbio e la fede, e vive di ideali interiori che rispondono alle domande dell’anima; offre versi che sono tensione di sospiri e giungono alla nostra esistenza come la piena di un fiume, come vele spiegate alla ricerca della luce oltre le tenebre e con la consapevolezza che in ciascuno di noi “il volto /rivela ed occulta /divino e umano /in veglia e sogno / vita e morte”.