“Il cioccolato di Modica non si fa con le favole”

cioccolato

Riceviamo e pubblichiamo in maniera integrale una lettera aperta dai giornalisti Concetta Bonini, Salvatore Cannata, Tino Iozzia e da Marco Blanco, libraio e ricercatore, al direttore del quotidiano “Repubblica”, Mario Calabresi, riguardo ad un articolo sul Cioccolato di Modica pubblicato dalla testata qualche giorno fa.
Gentile direttore,
ci permettiamo di scriverle per la stima con cui confidiamo nella credibilità della testata da Lei diretta ma ancor più per l’amore che nutriamo nei confronti della nostra città, Modica, e per la cura con cui tentiamo di mantenere in vita il delicatissimo equilibrio che separa la tutela di un luogo e di un prodotto che lo identifica, come il Cioccolato artigianale, dalla sua trasformazione in mero fenomeno mediatico, sempre più schiacciato dal grave susseguirsi delle falsificazioni storiche che lo alimentano.

Purtroppo l’articolo dal titolo “Modica alla Ue: proteggete il nostro cioccolato, dopo gli Aztechi siamo gli unici al mondo a farlo”, pubblicato su repubblica.it, nella sezione Sapori, lo scorso 11 ottobre, si aggiunge a questa spiacevole – e per noi dolorosa – sequela. Il testo contiene infatti una serie di inesattezze dal punto di vista storico e di imprecisioni dal punto di vista tecnico che, seppur divulgate con il generoso e probabilmente incolpevole intento di dar lustro al prodotto, non fanno altro che svilirne la reale natura e fare un torto alla ben più semplice verità che lo riguarda.

Ci rendiamo conto che la redattrice del pezzo, la dottoressa Lara De Luna, ha forse la sola colpa di essersi con troppa fiducia affidata ad una sola – piuttosto fantasiosa – ricostruzione di questa storia, attribuendo al soggetto che gliel’ha narrata (che, per dovere di cronaca, non è né un cioccolatiere né men che meno, come è stato indicato e solo in un secondo momento corretto nell’articolo, “di famiglia cioccolatiera da generazioni”) un’autorevolezza sufficiente ad escludere l’esigenza di ulteriori verifiche e approfondimenti. Ma se queste verifiche fossero state fatte, si sarebbe forse raggiunto l’obiettivo di non tradire la premessa dell’articolo stesso, in cui vien detto che “i prodotti tipici italiani vanno raccontati bene”.

Se ci fermiamo alla storia, infatti, non è in alcun modo possibile dichiarare che possa esserci stata una ricerca storico-archivistica capace di fornire una “data certa” per la nascita del nostro prodotto, indicata nel 1747. I documenti d’archivio – e non solo quelli che si riferiscono alla famiglia Grimaldi, ma probabilmente centinaia o migliaia di testimonianze a Modica così come altrove – certificano semplicemente una verità storica che non dovrebbe sfuggire almeno a un giornalista che scrive in una sezione specializzata in cucina: nel 1747, come era stato già prima e come fu poi almeno fino alla metà dell’Ottocento, non solo a Modica ma in tutto il mondo il cioccolato si produceva solo con quel metodo, l’unico conosciuto (basterà citare, tra i documenti rinvenuti, lo Statuto dei Ciucculatari di Palermo datato 1723) fin quando non vennero sperimentati e introdotti nuovi metodi di trattamento della massa di cacao quali il concaggio e il temperaggio, e non ci si avviò progressivamente alla sua produzione industriale. Per questa stessa ragione è già di per sé scorretto titolare che “dopo gli Aztechi, siamo gli unici al mondo a farlo”.

Semplicemente, dalla fine dell’Ottocento, qui la tradizione della produzione artigianale, col metodo antico e senza concaggio, si è flebilmente mantenuta viva, finché nei primi anni ’90 Franco Ruta dell’Antica Dolceria Bonajuto (alla sua memoria lo dobbiamo) ha iniziato un lavoro su questo prodotto che era in via di estinzione, per riscoprirne l’origine e portare avanti quell’opera di ricerca e promozione che oggi, e solo per questa ragione, lo identifica come cioccolato “di Modica”.

Se passiamo alla tecnica, poi, soprassedendo sulle numerose imprecisioni che riguardano alcuni passaggi della procedura di produzione, va certamente smentito quantomeno l’uso del metate, ovvero quello che viene definito “spianatoio in pietra lavica alimentato a fuoco vivo” su cui verrebbero passate le fave di cacao per “rilasciare la parte grassa, dando vita al liquore di cacao”, di cui si fornice pure una fuorviante documentazione fotografica. Partendo dal presupposto che quasi nessuno dei cioccolatieri modicani lavora partendo dalle fave di cacao e che solo alcuni di essi stanno iniziando in questi mesi un pregevole e ben più serio lavoro per orientare la produzione verso il bean-to-bar, né loro né tutti gli altri che si limitano a lavorare partendo dalla massa di cacao hanno mai lavorato sul metate, né il suo utilizzo è lontanamente citato nemmeno dal disciplinare che è stato redatto per ottenere l’Igp.

Disciplinare che, ad onor del vero, contiene esso stesso, se non imprecisioni, quantomeno gravi e colpevoli omissioni, a cominciare dal legame con il Sudamerica per finire alla storia del ‘900: qui pur di non citare Sciascia, che ne scriveva negli anni ’80, il Consorzio ha preferito riferirsi grossolanamente a più recenti pubblicazioni, peraltro nemmeno le più qualificate.

Ma questo, gentile Direttore, ovviamente non riguarda direttamente lei né la sua collaboratrice né l’articolo a cui ci riferiamo. Ci è d’aiuto, però, a spiegarle perché esso ci ha suscitato l’ennesima amarezza.

È nostra convinzione che la storia non si possa violentare e che la stampa non possa essere, per mera superficialità, complice di questa violenza.

Non possiamo far passare la linea che pur di arrivare allo scopo sia lecito qualsiasi mezzo e che, nello specifico, pur di ottenere la medaglietta di un riconoscimento meramente formale e non sostanziale, si possa tradire quel minimo di verità che è rimasta, trasformandola in un vero e proprio fenomeno da baraccone.

Se diciamo di voler ottenere un marchio d’eccellenza, è nell’ambito dell’eccellenza che dovremmo restare: di fenomeni non abbiamo bisogno, le rappresentazioni della realtà buone solo a dare spettacolo non ci servono, conserviamo l’umile desiderio di preservare un metodo prezioso, una procedura che ci viene da una lunga tradizione, nelle mani di quei produttori che dimostrano di avere il minimo senso di responsabilità nei confronti di ciò che hanno ereditato e di farlo valere rispetto alle ragioni di un business già sin troppo gonfiato dalla mercificazione.

Tra le firme in calce a questa lettera non troverà produttori, proprio perché non vogliamo darle l’idea che le nostre osservazioni siano frutto di scaramucce di bottega: la questione è purtroppo ben più seria e ci affidiamo a Lei affinché le venga prestata la dovuta attenzione.

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