IN PUNTA DI LIBRO……di Domenico Pisana. Gli “Esagoni di Borges”: i racconti dello scrittore siracusano Corrado Di Pietro tra realtà e fantasia

CORRADO DI PIETRO - Copia

Con “Gli esagoni di Borges”, Editore Morrone, 2017, lo scrittore e poeta siracusano Corrado Di Pietro offre al lettore un libro di racconti avvincente, brioso, gradevole e scorrevole, tematico e problematico, che consente di fare un tuffo in uno scenario di sicilitudine davvero interessante, accompagnato da rilevanti ed emblematiche illustrazioni figurative di Lisa Barbera, che sono un vero mix di sogno e realtà, fantasia e tradizione.
L’Autore, facendo leva sul suo “io-interiore”, protagonista della narrazione, osa , con forza immaginativa, aprire un colloquio con il grande scrittore Borges, fino a chiedergli di poter custodire i suoi racconti nella famosa biblioteca di Babele, che contiene i grandi capolavori della letteratura mondiale.
Questo libro, così, si snoda come una torta di itinerario dantesco di uno scrittore, apparentemente sconosciuto, che con tanto di guide al seguito, si incammina verso la ricerca di una risposta: sapere, cioè, se è degno di essere annoverato tra gli scrittori, se ha la fortuna e la bravura di poter affidare le sue storie all’eternità: “ Chi poteva – scrive l’autore – darmi queste risposte, se non il grande cieco, il vate che aveva attraversato tutte le strade della conoscenza letteraria, il conoscitore voluttuoso delle storie più inusitate e dei più oscuri meandri della fantasia letteraria, il custode diligente di quella infinita biblioteca di Babele, che contiene tutti i libri del mondo, tutte le scritture di ogni tempo”.

La “Biblioteca di Babele” è un famoso e straordinario racconto di Jorge Luis Borges. Vi si narra di una biblioteca talmente vasta da costituire un universo. Borges descrive con un’apparente precisione la struttura architettonica, modulare, parla di gallerie esagonali impilate una sull’altra (“da qualsiasi esagono si vedono i piani superiori e inferiori, interminabilmente”) collegate verticalmente da scale a spirale. La biblioteca risulta essere composta da un numero sterminato di volumi. Il nodo è questo: capire se tale biblioteca contiene “tutto ciò che è dato esprimere, in tutte le lingue”.
Ispirandosi a questo brav’uomo di Borges -così lo definisce l’autore -, Di Pietro riesce a trasformare il sua viaggio, esagono per esagono, in una serie di racconti costruiti all’interno di luoghi e con personaggi protagonisti di fatti, sentimenti, valutazioni, accadimenti, risentimenti, paure e atteggiamenti di fede; c’è in sostanza nella sua prosa un linguaggio narrante correlato al mondo dei suoi personaggi, personaggi, tra i quali:
– Don Luigino Tempesta, così chiamato “per via di quel racconto di ossessione e di morte che andava continuamente recitando come una litania a chiunque gli rivolgesse la parola per più di un minuto”;
– il professore, che “camminava lentamente, appoggiandosi al suo bastone dal manico d’argento, vestito di lino bianco e preceduto dal fumo della sua pipa”;
– don Orazio l’orologiaio, amante della precisione, che tiene nella sua vetrina l’orologio della vita circondato da una immagine con quattro donne che “rappresentano , ognuna, i quattro motori del mondo: quella con il libro la Conoscenza, quella con la cornucopia la Ricchezza, quella con lo scettro il Potere e quella con la croce la Fede”;
– il controllore , “un omino magro e vestito di grigio, con un berretto da controllore e un registro di piccole dimensioni nella mano”, che imbastisce un dialogo con il ragioniere Carmelo Santi attorno alla valigia della vita con una domanda centrale: “Ma perché il bene si deve dimostrare e il male no? . Risposta: Perché il bene si dimentica e non sempre è chiaro e certo come noi lo intendiamo. Troppo volte pensiamo di fare del bene e invece procuriamo il male”.
Anche negli esagoni successivi la narrazione di Di Pietro ricorre ad altri personaggi per lanciare messaggi; personaggi come la sentinella, il seminatore, la signorina Elvira, Mico, “venticinquenne di aspetto longilineo con un viso piccolo e scuro in mezzo al quale si apriva un sorriso ingenuo e giocondo”; Don Minuzzu, suonatore di un clarinetto “coscio di essere un bravo musicante anche se, nella banda, era solo il secondo clarinetto poiché il ruolo di primo apparteneva a don Ciccio Scrofano, un vecchio concertista che aveva suonato nell’orchestra del Bellini di Catania”; e ancora , nel quinto esagono, la signora Enza, Donna Ciccina che sciorina, seduta sull’uscio di casa, i suoi racconti; Michelino; Gnazio, con i suoi tentativi di far volare la sua asina.
Si tratta, insomma, di personaggi attorno ai quali le sequenze narrative si dispiegano con un linguaggio e un metalinguaggio che fa rivivere, anzitutto nell’autore stesso e poi nei suoi personaggi, passioni e sentimenti, gioie e tristezze, sogni e illusioni, delusioni e speranze, bisogni e amori, desideri e aneddoti.
Questi racconti di Di Pietro, pur se poggiati su coordinate di piacevole fantasia, viaggiano sui binari della concretezza storica. Ciò che piace di questo libro e proprio il “senso della storia”, un senso che narra di una civiltà contadina e di una Sicilia patriarcale, un senso percepito nei suoi risvolti etici, tant’è che i fotogrammi dei vari racconti descrivono temi e problemi ricorrendo ora ad un umile pescatore che sfida un drago marino, ora ad una sentinella che dà lezioni di vita al suo comandante, ora a un sindacalista appassionato desideroso di voler cambiare il mondo, ora a un ragazzino che va alla ricerca di una principessa, ora a un venditore di illusioni come Zancles, ora ad un asino che riesce nell’intento di volare.
Leggendo i racconti di Di Pietro, ci si accorge subito che si tratta di narrazioni ove le parole e le descrizioni si muovono dentro l’orizzonte etno-antropologico della nostra terra siciliana, particolarmente dell’area del Val di Noto, per interpretarne il percorso umano e sapienziale con originalità e compartecipazione emotiva.
Fatti e storie raccontati offrono senza dubbio l’occasione di guardare al passato e di immergersi nel patrimonio tradizionale del popolo siciliano, della terra siracusana, per testimoniare, come sicuramente è nell’intento dello scrittore, che è importante affidarsi alla memoria storica per capire il presente di ogni tempo.
E’ come se l’autore volesse disegnare, attraverso una atmosfera semplice, quasi di fiaba e di magia, l’altra Sicilia, quella fatta di semplicità, di tradizioni valoriali, di gente umile che vive un ethos capace di fare venire alla luce i grandi temi della vita come la famiglia, il lavoro, il destino, la superstizione, la fede, la morte, temi che nei racconti diventano occasione di riflessione universale; questo libro diventa così la “zattera di una ermeneutica” sulla quale l’autore vuol fare salire ogni lettore per aprirlo quasi alla speranza che un mondo diverso è possibile: questo spiega il perché il libro si concluda con l’invito di Borges a salire in groppa a un asino volante.
Se la “Biblioteca di Babele” di Borges è immensa ed infinita, questo potrebbe far pensare che oramai tutto è stato detto e scritto sul piano del sapere, del pensiero, della conoscenza, della letteratura, e anche in ordine ai temi che sollevano queste storie di Di Pietro, quindi non dovrebbe esserci più posto per nessuno in detta Biblioteca; invece, ed è questo il paradosso, la scrittura del pensiero non ha mai una fine, ma continua nel tempo, diremmo rimane infinita.
Certo, quello che trasuda da questi racconti non è una novità, ma è qualcosa ricco di originalità, perché Di Pietro ci mette la sua anima, la sua fede, le sue passioni, il suo sentimento, tutte componenti che vivono dentro di lui in modo diverso rispetto a quelle di tutti gli altri autori presenti nella biblioteca di Borges, tant’è che l’autore afferma: “I miei voli, le mie estatiche fantasie si mescolavano alla realtà dei sogni, legandosi e tenendosi l’un l’altro, come nelle fiabe… Questo è il mondo delle illusioni, fittizio, anche se fortemente verosimile”. Ed è per questo che egli alla fine viene accolto e ritenuto degno di restare nella Biblioteca di Babele di Borges.
Colpisce molto il racconto “Il tesoro di Calafarina”, la cui protagonista è donna Ciccina : “si cunta e si ricunta…così donna Ciccina cominciava ogni suo racconto quando nelle sere calde d’estate, finiti i giochi e le corse, ci si accovacciava sul marciapiede o sulla strada per ascoltare stupefacenti storie di principi, di orchi e di maghi”. Quanta magia fiabesca , quanta semplicità, quanta genuinità in questo racconto che contiene in sé la forza di far sognate bambini e adulti, proprio in un tempo come il nostro in cui già da bambini si comincia a perdere la capacità di sognare affidandosi alla tecnocrazia della rete. Di Pietro riesce a dare alla sua narrazione perfino una venatura poetica e ad infittirla di riflessioni che rilassano, fanno emozionare, conducono fra le stelle, plasmano il cuore, tanto è incisiva la sua scrittura:
“Le fiabe – scrive l’autore – hanno una magia interna: addolciscono anche la morte e il dolore e la sofferenza. Nelle fiabe accade di tutto: tradimenti, lotte, agguati, scambi di persona, morti e seppellimenti, sposalizi forzati e orchi che mangiano carne umana. Eppure nell’immaginazione dei bambini quel mondo violento e duro non ha i colori foschi del film dell’orrore; anzi, tutto appare vivo e fluente come una giostra variopinta che gira nella mente, tutto si ricompone nel bacio finale degli innamorati o nella felicità raggiunta dall’eroe che vince ogni ostacolo”
E allora la domanda è d’obbligo: dove sta il valore letterario di questa opera narrativa? Non è tanto nelle descrizioni, nei fatti che racconta, nei personaggi che inventa, quanto piuttosto nella sua ambizione(sta proprio qui la sfida di cui parla l’Autore) di “sospensione del tempo”.
Questo libro ha, a mio avviso, una grande forza letteraria perché le storie di vita racchiuse nell’opera non sono esercitazioni intellettuali ma una ermeneutica della vita con il ricorso al linguaggio della letteratura; questi “Esagoni di Borges”, insomma, non sono il “luogo di una finzione” o di una “recitazione” , né dell’ambizione o dell’ autoreferenzialità letteraria, ma “il luogo della rivelazione”, dell’ “epifania” dell’autore, il quale unisce, quasi con un filo interiore ed emotivo, lingua, linguaggio e parola, trasformando in “narrazione” tutto quanto ha accompagnato gli anni della sua esistenza.
Con questo libro Di Pietro riesce a consegnare la vita dei suoi personaggi e la Sicilia da lui amata all’eternità della letteratura? Certamente questi racconti, lineari, scorrevoli e immediati, dove è la gente umile, semplice, paesana a parlare, non possono che confermare, dal basso, che in effetti la nostra Sicilia già per la sua cultura, la letteratura e la poesia, l’arte è già da tempo nelle sfere dell’eternità. Tuttavia sembrano ribadire al lettore che Sicilia non è solo sinonimo di mafia, di lupara, di arretratezza, ma di sogni, di bellezze, di magie, di odori e di sapori, di mestieri, di speranze e di solidarietà.
Questo potrebbe essere un fatto ovvio e scontato o un luogo comune, ma le storie raccontate da Di Pietro non sono tali; sono racconti che fanno volare su una Sicilia che non c’è più, ma che lanciano numerosi messaggi e insegnamenti alla Sicilia che c’è: quella di oggi; sono racconti che disegnano quella Sicilia che affonda le radici nella sua essenza antropologica più vera ed umana, quella di “don Minuzzu che lasciava il banchetto da calzolaio, si sfilava dal collo il grembiule, si lavava ben bene le mani, si puliva gli occhiali rotondi e metallici, si avvicinava alla scatola e la apriva con cura”; una bella immagine che riporta per un attimo alla mente una poesia che Montale dedica proprio al calzolaio, dicendo nei suoi versi: “L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe,/il cornetto di latta arrugginito ch’era / sempre con noi..”
Quelli di Di Pietro sono racconti che fanno volare sulle ali della Sicilia solidale di ieri e di oggi, quella di Rosetta, che sa perdonare, amare, prendere in adozione un bambino; di Rosetta che non rinnega il tempo della memoria, il tempo che si scioglie, che riannoda i fili spezzati, che fluisce con le sue gioie e le sue pene, e che segna sul suo viso le prime rughe; sono racconti che ci mettono a contatto con l’umanità povera e sofferente di una Sicilia del dopoguerra che cerca consolazione, speranza, futuro e che non disdegna di affidarsi ad un camminante, ad uno zingaro come Zancles, che andava in giro per riparare ombrelli e pentole e nel contempo vendere illusioni, gridando: “ Passa la ventura, venite a conoscere il vostro futuro! ..Molte donne gli chiedevano la ventura. Lui apriva la finestrella di una gabbia e chiamava il pappagallo a prelevare una bustina. Il pappagallo usciva la testa, la girava a dritta e manca, guardava il padrone, la donna, gli altri presenti, il cielo, le case, si scrollava un po’ le piume, accennava un gorgheggio, s’allungava il collo e poi, con un gesto rapidissimo, prelevava dalla cassetta sottostante una bustina colorata e la porgeva al padrone”.
L’autore ci offre nel suo racconto lo spaccato di una società siciliana di uomini, donne, giovani e vecchi, contadini e professori che si affida, forse come ancora oggi, con lucida consapevolezza, ad un venditore di illusioni perché – scrive Di Pietro – “quando si è poveri o si soffre o si spera in qualcosa, cosa c’è di meglio di un’illusione?”
Gli esagoni di Di Pietro sprigionano vita, sapienza narrante, evocazione e memoria, bisogno di aprirsi all’alterità e all’utopia , voglia di leggere in un’ottica nuova l’esistenza, quella che appartiene alla nostra identità di siciliani.
Diceva Joseph Joubert :“E’ meglio offrire o ricevere una goccia di luce piuttosto che un oceano di oscurità.”
Questi racconti contengono gocce di luce e invitano il lettore a non lasciarci sopraffare dall’oscurità di quella Sicilia negativa derivante da una condizione di male che spesso ci circonda, ci condiziona e che ci fa percepire tutto oscuro; gli esagoni di Di Pietro contengono una metafora dell’esistenza e vogliono farci sognare e “volare sull’asina Ciuchina” per introdurci in un orizzonte di luce che si fa “lezione etica” e che fa riflettere sul fatto che spesso il cammino dell’esistenza è un navigare nell’oceano dell’oscurità; si rimane soli con se stessi, si vive nell’oscurità delle delusioni, delle ferite che stentano a rimarginarsi, dei muri dell’incomprensione e dell’indifferenza, dell’emarginazione , della paura e dei pregiudizi che paralizzano le relazioni.
Di Pietro ha osato entrare nella grande “Biblioteca di Babele” per dire ai suoi lettori che nella vita non bisogna disperare, ma bisogna scommettersi perché c’è sempre quella goccia di luce che si desidera e che è la “voglia di riscatto” , di lottare, il desiderio di superare il limite, di sognare per ritrovare la spazio di senso del proprio essere.
E tutto questo lo fa con una pagina narrativa che riesce sempre a far coincidere forma e contenuto, perché la sua scrittura è sempre aderente al momento ispirativo e non presenta alchimie, virtuosismi, né ostentazione di preziosità o di retorica.
L’autore utilizza belle metafore , accostamenti semantici, similitudini giuocate su binomi lessicali e fotogrammi connotativi, che figurano qua e là nella partitura strutturale di tutti i racconti, grazie ad un linguaggio narrativo colloquiale, volutamente semplice, di una semplicità non calcolata – direbbe il Bo -, e inframmezzato anche da testi poetici di impatto immediato.
E’ insomma un libro da leggere e il suo valore sta nel fatto che esso non si configura come il tentativo di una sperimentazione letteraria, ma come testimonianza di una sensibilità etica e civile capace di aprire orizzonti nuovi; sì perché , come dice l’autore a Miriam nel sesto esagono , “La scrittura mischia le carte in tavola: apparenza e realtà si confondono, diventano un’altra cosa. Sì, vero – continua – . Noi scrittori creiamo mondi paralleli e autonomi e spesso perdiamo di vista il mondo reale, dentro il quale viviamo. I sentimenti, l’amore e l’odio soprattutto, appartengono a entrambi i mondi: in quello reale però si consumano facilmente mentre in quello surreale della scrittura restano per sempre, indelebili, definitivi. L’eternità appartiene alla letteratura e non alla realtà”.
Con la sua scrittura si prefigge di aprire una “finestra” sulla vita etica del nostro tempo, dalla quale, senza moralismi e polemiche, l’Autore lancia un messaggio non semplicemente rappresentativo del reale, ma carico di nuove domande, sui cui ogni lettore potrà chinarsi per ricercare il suo orizzonte e spazio di riflessione.

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