I capelli: importanti o inutili. La rubrica medica del dottore Federico Mavilla

I capelli, che gli antropologi ed i biologi amano spesso definire “inutili annessi cutanei”, hanno per l’essere umano un profondo valore simbolico. La loro funzione è quella di essere visti ed “ammirati”. Il paziente che si rivolge al medico per la perdita o la caduta di capelli, reale o presunta che sia, è spesso un soggetto psicologicamente “fragile”, talvolta in stato di profondo sconforto. Ma perché poi gli esseri umani “tengono” tanto alla loro capigliatura da soffrire per essa? Perché hanno, per la perdita dei capelli, sensazioni di angoscia così importanti da portarli ad accettare inutili e dispendiosi mezzi di cura e talvolta dolorosi tentativi di ricostruzione di un qualcosa che in fondo è biologicamente inutile, non avendo più significato né di termoregolazione né di protezione? Cercherò di darvi qualche risposta a tale problematica. Innanzitutto parliamo della lunghezza dei capelli. Fra maschio e femmina, la lunghezza dei capelli fa parte del nostro patrimonio culturale anche per motivi biologici. Sebbene la loro crescita in lunghezza avvenga nei due sessi quasi alla stessa velocità, nel maschio si ha un ricambio di capelli a velocità doppia o tripla di quella che si ha nella femmina. Il capello del maschio cade però ad una lunghezza teorica di circa 30-35 cm, mentre quello della donna può raggiungere anche i 100-120 cm. La lunghezza dei capelli è pertanto, in natura, un attributo importante del dimorfismo sessuale. Siamo pertanto ancestralmente abituati a considerare che se un essere umano ha i capelli lunghi è femmina e se li ha corti è maschio.
E se i capelli non ci sono più? Allora è come se ci fosse una regressione ad una condizione, come quella infantile, nella quale non si sono ancora ben differenziati i due ruoli, con i diritti ed i poteri che essi comportano. La perdita dei capelli può essere pertanto inconsciamente vissuta dal maschio come perdita di virilità o castrazione, e dalla donna come perdita di femminilità.
E’ significativo a questo proposito l’esempio di “evirazione” subita da Sansone sconfitto dai Filistei solo dopo il tradimento da parte della propria donna, venuta a conoscenza che la sede della sua immensa forza era nei capelli.
Nella storia e nella mitologia i riferimenti ai capelli come sede di forza, di energia, di fertilità e virilità sono innumerevoli e li ritroviamo praticamente in tutte le culture umane.
Nella nostra cultura occidentale una gran massa di capelli costituiva patrimonio indispensabile alla potenza di un sovrano. Basta pensare alla stupenda parrucca di riccioli inanellati di Luigi XIV ed al fatto che l’appellativo di “Cesare”, “Kaiser”, “Zar”, attribuito nel corso dei secoli a sovrani o condottieri.
Lo scalpo è stato a lungo l’espressione del valore del guerriero, la prova del coraggio in battaglia, il segno tangibile di una vendetta ottenuta. Lo scalpo dei nemici uccisi era quindi un ambito trofeo nella tradizione bellica dei pellerossa americani che pensavano che Manitù per portare in cielo i guerrieri uccisi in battaglia li afferrasse per i capelli.
Con l’avvento della religione cristiana la tonsura divenne pratica abituale per i monaci, convinti così di rendersi sessualmente non attraenti ed esprimere umiltà, obbedienza e distacco dai beni del mondo.
Imporre invece il taglio dei capelli è sempre stato segno di profondo disprezzo. Gli antichi Romani tagliavano i capelli dei prigionieri, delle adultere e dei traditori.
Anche le streghe, nel nostro medioevo, prima di essere giustiziate venivano rasate sia per esporle alla pubblica vergogna ed al disprezzo di tutti sia perché si riteneva che nei capelli fosse riposta gran parte della loro potenza malefica, sicché, rasate, non potessero più nuocere.
Nei tempi “recenti” della seconda guerra mondiale, donne accusate di facili costumi o di collaborazionismo con il nemico venivano rasate e poi costrette a mostrarsi ai concittadini. Nell’immaginario collettivo, infine, la calvizie conferisce un’idea di prematuro invecchiamento ed un esplicito segno di declino, ed è spesso per l’individuo causa di insicurezza nel suo inserimento sociale.

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