LE DIVAGAZIONI. Boni pastoris esse, tondere pecus, non deglubere”(il buon pastore deve tosare le pecore, non scorticarle) – Svetonio Vite dei dodici Cesari

L’articolo che pubblichiamo, gentilmente autorizzato dal periodico Dibattito, fa seguito ad una lettera inviata dal presidente del consiglio comunale di Modica, Carmelo Scarso, al presidente della Repubblica, Napolitano, che potrà essere letta su altra parte di questo quotidiano on line ma che pubblichiamo di seguito a questo redatto da Salvatore Rizza.

Quello dell’imposizione fiscale è, com’è noto, un rapporto che viene variamente considerato da chi si occupa di dottrina dello Stato e che conviene riconsiderare alla luce di elucubrazioni extra moenia assai poco politicamente corrette, ma che, tuttavia, pur percorrendo la disagevole strada del paradosso, a mio modo di vedere non si allontanano molto dalla realtà.
Partendo dall’idea liberista dello Stato concepito come Agenzia Protettiva Dominante (Nozick), alla quale la comunità si assoggetta per convenzione naturale e che governa attraverso un sistema di regole basate su quella che Kelsen definisce la tecnica della sanzione, occorre prendere atto che la Pubblica Amministrazione, quando impone il sistema di riscossione fiscale, usa, nei confronti dei cittadini, gli stessi metodi dell’estortore: usa, cioè, la forza, di cui ha il monopolio (Weber), per “convincere” gli obbligati recalcitranti, comunemente noti come “contribuenti”, a pagare ciò che viene loro richiesto. Non a caso l’imposizione e l’esazione fiscale prendono il nome da verbi (imporre ed esigere) che rievocano la coercizione.
Nonostante l’avvertimento di Gesù (“date a Cesare ….”), quello tra Stato esattore e cittadino contribuente è, dunque, un rapporto ontologicamente conflittuale, sia pure edulcorato da due connotazioni che dovrebbero rendere la fiscalità, almeno in teoria, non solo accettabile, ma anche moralmente giustificabile. La prima connotazione riguarda le finalità dell’imposizione; la seconda riguarda i limiti dell’imposizione. In altri termini, la differenza tra lo Stato impositore e il ladrone di strada sta tutta, in primo luogo, nell’utilizzo che l’uno e l’altro si propongono di fare del “contributo” imposto al cittadino e, in secondo luogo, nei limiti quantitativi dell’imposizione.
Per ciò che riguarda il primo aspetto, lo Stato utilizza (recte: dovrebbe utilizzare) le entrate tributarie (vale a dire, la ricchezza sottratta al cittadino–contribuente) per il bene comune e la civile convivenza, mentre il ladrone si serve del denaro estorto per i suoi personali comodi. Per ciò che riguarda il secondo aspetto, lo Stato pone un limite alla richiesta impositiva, che, in via di principio, non deve mai raggiungere un importo tale da costituire un sacrificio insopportabile per il soggetto obbligato, mentre il ladrone è senza cuore e non pone limiti alle sue richieste.
Queste, dunque, sono le condizioni che giustificano e impongono di dare a Cesare quel che è (giusto) sia di Cesare: che Cesare spenda il denaro incassato per il pubblico bene e che, inoltre, non ecceda con le sue pretese. Non è un caso, d’altra parte, che il cittadino soggetto all’imposizione tributaria si chiami “contribuente”: è contribuente perché “contribuisce”, assieme agli altri cittadini, al bene comune.
Tale ultima considerazione, che si basa sul concetto di bene comune e di cooperazione, sottende, come si vede, una terza connotazione distintiva: io contribuisco a condizione che anche gli altri, nei limiti delle loro disponibilità, facciano altrettanto. Se ciò non avviene, chi, rimanendo impunito, omette di contribuire, non solo si sottrae all’obbligo – morale prima che giuridico – di cooperare al mantenimento dello Stato, ma, con la complicità di quest’ultimo, impone al prossimo un tributo maggiore di quello che gli compete e, dunque, non dovuto.
Con la conseguenza che, in tal caso, sia il cittadino evasore, sia lo Stato, ridiventano degli estortori: il primo perché, sottraendosi all’obbligo di legge, scarica, su chi, adempiendo alla richiesta del “contributo”, paga, il costo dell’evasione; il secondo perché, con la sua inerzia, avalla l’illecito, costringendo il contribuente onesto a pagare anche per chi evade.
Inquadrato il problema negli anzidetti termini e per ritornare al tema, colui che decide di non “contribuire” dovrebbe, dunque, in linea di principio, ritenersi esentato (se non altro, moralmente, come si vedrà) dal pagamento dell’imposta, solo allorché venga disatteso almeno uno degli anzidetti requisiti legittimanti.
A questo punto, è corretto dire: non pago perché quello che mi chiedi supera le mie disponibilità e mette a repentaglio la mia sopravvivenza, ovvero, è lecito anche dire: non pago perché dei miei sudati soldi fai un uso incongruo e dissennato?
L’interrogativo non è di poco conto, visto che segna la demarcazione tra liceità e illiceità dell’imposizione fiscale e, di conseguenza, tra liceità e illiceità della evasione fiscale.
La questione, tuttavia, si pone esclusivamente sotto il profilo etico, dal momento che, sotto il profilo giuridico, si ritiene che lo Stato, iper convenzione comunemente accettata, chiede sempre non più di quanto è dal cittadino dovuto e spende sempre non più di quanto richiesto dalle finalità pubbliche.
Ciò porta, ovviamente, ad escludere in radice ogni obiezione sul punto e riconduce la questione al severissimo giudizio iniziale da cui siamo partiti: chi non paga le tasse, non è, comunque sia, un buon cittadino; è un evasore, dunque, un “non cittadino” e come tale va trattato.
Del resto, deve ritenersi che, anche in tale ultima ipotesi, il rifiuto di sottostare all’imposizione fiscale in mancanza di correttivi che evitino la mala gestio del sistema impositivo, sia comunque ingiustificato e non scusabile, dal momento che l’omesso pagamento dell’imposta non fa altro che aumentare il sacrificio dei contribuenti costretti o determinati ad adempiere.
La situazione, sostanzialmente, non muta neppure nell’ipotesi in cui lo Stato attui un’imposizione fiscale che esorbita dalle ordinarie capacità contributive del cittadino, dal momento che, anche qui, il rifiuto di pagare non fa che aumentare ancor di più il sacrificio di chi paga.
Nell’uno e nell’altro caso, insomma, a fronte di uno Stato–estortore si pone un cittadino insensibile, che (egli si!), se non altro come tale, merita la reprimenda del Capo dello Stato.
L’unica ipotesi eticamente giustificabile rimane, in ultima analisi, quella del cittadino che non può pagare, vale a dire quella che potremmo chiamare l’ipotesi dell’evasore per necessità.
Il discorso, come si vede, ci riporta ancora una volta alla proposizione iniziale e ci costringe a constatare che, di fronte a uno Stato scialacquatore, il cittadino–contribuente è sostanzialmente privo di tutela.
Ma se così stanno le cose, un ordinamento giuridico che pretende di essere veramente moderno e democratico, non dovrebbe esimersi dal prevedere un congegno idoneo a rendere giustizia al cittadino vessato.
E poiché, come s’è già detto, non compete al cittadino il potere di stabilire se e in qual modo lo Stato sia venuto meno ai principi di equità che rendono legittima l’esazione, il tema della discussione si sposta e s’incentra sulla necessità di individuare il soggetto–terzo legittimato a verificare quando si sia in presenza di una pretesa tributaria non dovuta e quale sia l’organo statuale responsabile della mala gestio.
Occorre, insomma, che qualcuno dica dove finisce il bene comune e inizia il sopruso.
Non v’è dubbio che tale potere, in uno Stato di diritto, competa all’organismo istituzionalmente delegato a quella che pomposamente viene oggi chiamata la spending review (detto terra terra: il conto della spesa), che, nel nostro caso, è rappresentato dalla Corte dei Conti, vale a dire dal massimo organo delegato a controllare la spesa pubblica.
In effetti, è stata, per l’appunto, la suprema magistratura contabile a certificare, proprio di recente, la sussistenza della grave anomalia di un’attività legislativa dissennata che, disinteressandosi per decenni delle vaste aree di evasione (illecita) e imponendo spese ingiustificate, ha dato vita a una imposizione tributaria abnorme. Esemplare è, al riguardo, il rapporto della Corte dei Conti per il 2012 sul coordinamento della finanza pubblica, laddove si suggerisce, tra l’altro, «una consistente riduzione della spesa corrente», e si rileva che l’aumento esponenziale del prelievo fiscale è giunto a un punto tale da produrre recessione e, quindi, paradossalmente la diminuzione delle entrate tributarie.
Un rilievo sterile, tuttavia, che, non essendo seguito da sanzione nei confronti dei responsabili, non evita, nella sostanza, al cittadino che rifiuta di sottostare all’ingiusta imposizione fiscale, le forche caudine della riscossione coattiva, Il cittadino non ha, a questo punto, altra arma che non sia la protesta gridata.
Ma poiché anche questa, finanche, com’è noto, quando assume i toni della rivolta, è riservata esclusivamente agli eversori, non resta che meditare mestamente sulla sorte dei giusti.
I giusti: gli unici che non hanno armi per ricostituire la legalità violata da uno Stato che ha tradito il patto col cittadino.
Oggi, tuttavia, sembra che la misura sia colma, considerando quello che sta accadendo con la ormai tristemente famosa IMU, la nuova imposta patrimoniale mascherata, introdotta in sostituzione dell’ICI, le cui aliquote spropositate, applicate, non solo agli immobili urbani, ma, sostanzialmente, a tutti i beni immobili e, perfino ai terreni incolti e improduttivi, ridurranno molte famiglie alla disperazione.
A questo punto, uno Stato che si rispetti non può ignorare il problema e non può far finta di non vedere da dove viene il male: il male viene da un sistema parlamentare che legifera dissennatamente e, soprattutto, pro domo sua e concepisce l’impegno politico, non come servizio per la comunità, ma come espediente per risolvere il problema della vita.
Si obbietta che il compenso elargito dallo Stato è una conquista della democrazia, giacché, senza di esso, l’attività politica e la gestione della cosa pubblica sarebbero riservate solo ai ricchi. Niente di più falso e ipocrita ! Se fosse realmente vera la giustificazione anzidetta, sarebbe bastato assicurare, all’aspirante amministratore pubblico ciò che egli guadagnava prima di far politica.
Accade, dunque, che quella che dovrebbe essere una forma di patriottismo, una dedizione volontaria al servizio del Paese, venga considerata alla stregua di attività lavorativa retribuita a tutti i livelli (partendo dal Parlamento per finire nei consigli di quartiere) che ha creato uno smisurato esercito di professionisti della politica. Sono costoro che, rimanendo arroccati – non di rado a vita – nella carica, con l’alibi del consenso popolare, non solo aumentano abnormermente la spesa pubblica, percependo, sotto varie forme, una sorta di emolumento stipendiale, ma contribuiscono anche al proliferare di una miriade di organismi di contorno quasi sempre inutili, quando non anche nocivi (consigli di amministrazione di Enti, commissioni, incarichi di consulenze dalle finalità vaghe ed eteroclite) i cui costi incidono pesantemente sul bilancio statale.
Se a tutto ciò si aggiunge un welfare malato e spesso dalla gestione economica allegra e disinvolta, si capisce bene come il costo di una macchina statale siffatta assorba da sola i due terzi delle “uscite” per spese correnti del bilancio statale e non abbia nulla a che vedere col bene comune.
Ma la tutela del bene comune impone, non solo di giustificare il rifiuto del “contribuente” di sottostare a un’imposizione fiscale ingiustificata, ma anche di far pagare chi si è reso responsabile del disastro, estendendo la responsabilità contabile (peraltro, di recente imposta anche alla funzione giurisdizionale), agli organi politici deliberanti – a livello legislativo e/o amministrativo – che, come s’è visto, sono gli effettivi responsabili di una spesa enorme e assolutamente ingiustificata.
Quanto sopra, naturalmente, vale ragionando per schemi teorici.
Nella pratica, la morale abita sempre a casa degli altri e, in ogni caso, il nostro legislatore eviterà accuratamente di sottoporsi al fastidioso giudizio del giudice contabile (i giudici, quali che siano, divengono, si sa, degli inguaribili persecutori quando si occupano delle faccende di chi, detenendo, tra l’altro, il potere legislativo, può cambiare le carte in tavola, quando il gioco, come e si dice, si fa duro).
Lasciamo, dunque, le cose come stanno e mandiamo pure l’orco chiamato Equitalia a pignorare, con sistemi da Inquisizione, i biechi evasori. Tutti, senza distinzioni: quelli buoni e quelli cattivi,
Intanto – la notizia è di qualche giorno fa – i componenti del Consiglio regionale sardo si sono affrettati a riassegnarsi i ricchissimi, ingiustificati emolumenti che un referendum aveva loro, pochi mesi prima, sottratto.
Vorrà dire qualcosa?

LA LETTERA

Signor Presidente,

da resoconti mass-mediatici ho appreso di una Sua dichiarazione in tema di evasori fiscali che è stata riportata in questi termini: “Chi evade le tasse non è degno di essere italiano”.

Confesso di non conoscere il contesto argomentativo in cui Lei ha espresso tale opinione, ma questo è il messaggio che i mass media hanno riportato. Se tale opinione fosse stata espressa da un politico qualsiasi, nulla quaestio, ma che venga espressa dal Presidente della Repubblica assume un significato molto importante e particolare.

I tempi che stiamo vivendo inducono al massimo rigore e impegno e dò atto della Sua impeccabile condotta istituzionale. I Suoi continui appelli al senso di responsabilità di tutti sono molto pertinenti e stimolanti, ma mi permetta, come cittadino e come Presidente di un civico consesso, di richiamare la Sua attenzione sull’eccesso di valutazione e di giudizio che si riconnettono alla Sua dichiarazione.

Lungi da me il volere giustificare minimamente gli evasori fiscali, ma i veri evasori fiscali, quelli che intenzionalmente non pagano e non quelli che “non possono pagare”.

Vi sono enormi sacche di contribuenti, i più in termini di numero e non di quantità di tributi evasi, che evadono ed eludono perché sono oramai dissanguati; imprese contribuenti che evadono o eludono per pagare i dipendenti o i fornitori; famiglie contribuenti di agricoltori, coltivatori diretti, artigiani, commercianti, operai, pensionati e financo professionisti che hanno problemi di sopravvivenza.

Per me questi contribuenti sono e restano “Italiani”.

Non si può pretendere da loro di andare a rubare o rapinare per pagare gli oramai esosi tributi e non farsi vendere la casa o il podere o la fabbrica, mentre agguerrite finanziarie e gruppi di bassi e immorali speculatori sono pronti a ghermire, a prezzo vile alle pubbliche aste indette dalle estorsive e usuraie esattorie, il frutto di fatiche e di sacrifici e di sudori del loro passato e di quello delle loro famiglie.

Per me questi contribuenti sono e restano “Italiani”.

Signor Presidente,

sono convinto che Lei, con la Sua esternazione sulla ”Italianità degli evasori” non volesse affatto riferirsi indiscriminatamente a tutti quanti non pagano i tributi, ma sarebbe opportuno che precisasse il Suo pensiero per dimostrare che la massima Istituzione Nazionale comprende le enormi difficoltà di milioni di famiglie di onesti lavoratori e imprenditori e professionisti, i quali si aspettano un incoraggiamento, una prospettiva, un obiettivo per guardare con speranza al futuro.

Rispettosi ossequi.

Dalla Città di Modica, lì 16/04/2012 ”

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