“Parlamentari” aperte, come tutte le Primarie. Ogni limite sarebbe pericoloso passo indietro

Nel momento stesso in cui a fine settembre mi sono candidato all’Ars, ho deciso che il mio impegno non si sarebbe concluso il 28 ottobre per le tante ragioni che in diverse occasioni ho chiarito. Ho sempre detto che in questa drammatica situazione, la difficile transizione dopo le regionali avrebbe avuto nelle elezioni politiche, in quelle amministrative e, il prossimo anno, in quelle europee, una fase decisiva: per il cambiamento e la ricostruzione.
Per questa ragione ho sollecitato l’impegno più ampio e diffuso e la mobilitazione di tutti, anche fuori dai partiti. Per indicare un piccolo esempio di partecipazione mi sono impegnato direttamente e ho detto che avrei continuato a farlo. Ho precisato che, se ve ne fossero state le condizioni, anche nelle elezioni legislative avrei dato il mio contributo.
In un tempo nel quale nessuno poteva sapere se sarebbe stata approvata una nuova legge elettorale o se fosse rimasta quella vigente e, soprattutto, nella prima ipotesi quali sarebbero state le regole di espressione del consenso, e nella seconda se, e quali, dal fronte progressista, sarebbero stati messi in campo meccanismi di selezione autenticamente democratica delle candidature, proprio quel riferimento alle “condizioni” era allora – e, a maggior ragione rimane oggi – il punto decisivo.
Conosciamo bene i fatti delle ultime settimane che hanno affrettato i tempi del voto e fatto sorgere in alcuni settori del campo progressista la tentazione di dovere, ancora una volta “nominare i parlamentari” con la scusa che non ci sarebbe tempo. Mi riferisco al Pd ma devo dare atto a Bersani che lunedì scorso ha voluto e quasi imposto a non pochi dirigenti del suo partito, mediamente reduci da un numero di legislature oscillante da cinque ad otto, l’indizione di “primarie parlamentari”. La stessa scelta ha fatto Sel.
Dal mio punto di vista però non siamo ancora in presenza delle condizioni sufficienti perché quell’impegno auspicato possa scattare nella forma più ampia e diffusa.
Il nodo decisivo sono le modalità del voto in queste primarie con riferimento soprattutto alla definizione dei requisiti di elettorato attivo e passivo. La questione è in gran parte racchiusa in questa domanda: chi potrà votare? Chi e attraverso quale procedimento decisionale potrà essere candidato il 29 e 30 dicembre? In proposito apro una parentesi sulla data: non sarebbe meglio il 13 gennaio, scelta molto più saggia e perfino possibile anche in caso di voto il 17 febbraio? E comunque, anche in questo caso e volendo giustamente preservarsi un certo margine di prudenza, perché non il 6 gennaio, dopo e non durante le festività?
Finora le dichiarazioni rese lasciano pensare che potranno votare solo quelli che lo hanno già fatto il 25 novembre. Osservo: perché questa limitazione? Se il 25 novembre hanno potuto votare liberamente tutti coloro che hanno sottoscritto il “certificato di elettore del centrosinistra” e la carta d’intenti sulla quale è nata la coalizione (avente un candidato Presidente del Consiglio che abbiamo scelto attraverso le primarie del 25 novembre, un programma e liste di candidati al Parlamento che dovremo scegliere nelle apposite primarie parlamentari) perché il 29 e 30 dicembre, o nella data eventualmente – e auspicabilmente – successiva non dovrebbe essere consentita la stessa cosa?
Ovviamente i votanti del 25 novembre non avrebbero più bisogno di sottoscrivere il certificato di “elettore del centrosinistra”, ma non vedo perché escludere altri potenziali elettori i quali per qualunque ragione potrebbero non avere potuto o voluto partecipare alla precedente consultazione. In proposito osservo che per alcuni cittadini – molti o pochi, non so – la motivazione di voto, tra l’opportunità di scegliere tra cinque nomi un candidato a Presidente del Consiglio e quella di scegliere i candidati al Parlamento tra migliaia di nomi in tutte le circoscrizioni d’Italia, potrebbe essere diversa. E, in ogni caso, non credo si possa tornare indietro rispetto ad una scelta di “primarie aperte” quali sono sempre state quelle finora tenutesi, a cominciare dal 2005 per la scelta del candidato a Presidente del Consiglio (Prodi, Bertinotti, ecc… ricordate?)
Quale sarebbe la ratio di una scelta che inevitabilmente sarebbe letta in una chiave di chiusura, quasi a dire: finora abbiamo fatto votare tutti coloro che lo hanno voluto, ora basta, siamo saturi, ci fermiamo qui, non vogliamo altri cittadini, altri elettori, altra partecipazione democratica. Ci basta questa. Barriamo le porte, chiudiamo i confini. Chi è dentro, dentro, chi è fuori, fuori!
Anche la platea di elettorato passivo andrebbe definita all’insegna della più ampia apertura, sia pure con la previsione di norme, come la richiesta di un certo numero di firme, per dare seria legittimazione alle candidature.
Ci sono poi gli aspetti della base territoriale e quello dell’unitarietà o meno della selezione delle candidature in una sola lista per Camera e Senato o in liste separate. Per quanto riguarda il primo, credo che affidarsi ai confini delle circoscrizioni per fare competere tutti i candidati su base territoriale unica, nel nostro caso da Santo Stefano di Camastra a Capo Passero, toglierebbe effettività al principio del rapporto diretto e della vicinanza tra elettori e candidati. Si potrebbe puntare su modelli provinciali come proposto all’interno del Pd dalla bozza Civati-Vassallo o, addirittura, si potrebbero ripescare i collegi previsti dal sistema uninominale-maggioritario della legge-Mattarella.
Sono tutte scelte che il Pd definirà lunedì 17 dicembre e Sel nei giorni successivi, purtroppo in grave ritardo nel caso in cui le primarie parlamentari si terranno il 29 e 30 dicembre.
Io credo che, nello spirito di “Italia bene comune” che nelle primarie del 25 novembre ha trovato una compiuta e positiva espressione, anche quelle parlamentari dovrebbero essere comuni all’intera coalizione, nel solco delle identiche basi d’ispirazione e di contenuti: la carta d’intenti, il programma e lo stesso nome “Italia bene comune”. Tutto ciò ovviamente porterebbe alla naturale presentazione alle elezioni del 17 (o 24) febbraio di un listone unico Pd-Sel (ed altri) che, a mio avviso, avrebbe maggiore capacità di consenso rispetto alla somma delle liste. Ma questa è un’opzione che, dopo essere apparsa sulla scena del dibattito pubblico, credo non sia più tenuta in grande considerazione. A mio avviso sarebbe la scelta ottimale.
In ogni caso permane in tutta la sua forza un dato irrinunciabile. Le primarie parlamentari – sia del Pd che di Sel – devono essere totalmente aperte, come è sempre stato finora. Ogni scelta diversa sarebbe incomprensibile e costituirebbe un grave arretramento sulla linea della partecipazione democratica che, negli anni del “porcellum”, il movimento progressista ha saputo costruire. Bloccare questa sorgente di vitalità civica, chiudere gli argini della partecipazione, tornare a rinchiudersi nel recinto del “già fatto” e del “già dato” sarebbe un grave errore che riporterebbe in auge gli apparati di partito e abbatterebbe il consenso che le prossime elezioni, anche attraverso questo fondamentale e decisivo passaggio di primarie parlamentari aperte, potrebbero offrire alla coalizione, anche in modo molto più ampio rispetto alle previsioni attuali.
Perché, in un sistema parlamentare nel quale il Parlamento è l’espressione e il custode della sovranità popolare, proprio l’elezione dei parlamentari – nel momento delle primarie che è l’unico in cui i cittadini possano esprimersi nella scelta degli eletti – dovrebbe sottostare a limitazioni e chiusure che in nessun’altra forma di consultazione primaria è stata mai prevista?
Nessuno abbia paura del confronto e della partecipazione democratica.
Nessuno abbia paura di crescere.
Il Pd e Sel vincano le ultime resistenze, si aprano alla società civile e riceveranno una legittimazione e un ben più alto consenso che, in tempo di crisi di credibilità dei partiti, purtroppo quasi sommaria ed indiscriminata, sarebbero linfa vitale per il cambiamento e la ricostruzione del Paese.
Per tornare all’incipit di questa mia riflessione, e per quel che poco che il mio apporto possa valere, credo che le “condizioni” del mio impegno, come dell’impegno di tanti, possa sussistere o meno in ragione delle scelte che, sui nodi che ho prospettato, saranno compiute e sancite nel regolamento che dovrà essere varato al più presto: lunedì 17 avremo quello del Pd e sarà già tardi, Sel non indugi ancora.
Il 25 novembre, come in tutte le precedenti primarie progressiste, ho votato, senza mai essere stato iscritto a partiti e senza avere mai fatto parte di alcun elenco precostituito: semplicemente presentandomi, dichiarando ovviamente di condividere le ragioni, i contenuti, i programmi, le finalità della consultazione, ed esprimendo la mia scelta. Perché questa volta, giunti ad uno snodo così delicato e capace di segnare un salto di qualità per la democrazia italiana, dovremmo arretrare? Perché si dovrebbero escludere quelli che non votarono il 25 novembre ma vorrebbero farlo adesso?
Mi piacerebbe inoltre avere la possibilità di concorrere alla scelta di parlamentari espressi non solo dall’esperienza interna dei partiti (in ogni caso li guarderei con attenzione e senza pregiudizio) ma anche da quella più ampia offerta dalla società comune nelle varie forme democratiche di cittadinanza attiva, di associazionismo e volontariato, di impegno politico, culturale, civile, sociale, scientifico, professionale.
Siamo dinanzi ad un bivio che ci consente due possibilità: andare avanti lungo il cammino del cambiamento, della partecipazione democratica, della trasparenza delle istituzioni o, dopo il tratto percorso, fare inversione di marcia e tornare indietro.

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