DIVAGAZIONI SU UN GESUITA CODINO, SUL PALAZZO MICCICHÈ E SUL FALSO STORICO. Per gentile concessione di Dibattito

Lo confesso! Invidio il carissimo G.R., di cui quasi sessant’anni fa sono stato indegno alunno (il che la dice lunga sugli anni miei e suoi), perché ha la fortuna di conoscere così bene il gesuita codino (ma quanto saggio!), dal quale, a cagione dell’intima propinquità spirituale che li lega come, diciamo così, un sol uomo, sospetto fortemente abbia appreso di quel tale colloquio avvenuto tempo fa in piazza Italia.
Non è da tutti il privilegio di una così colta e preziosa confidenza riguardante la dolorosa storia del Collegio dei gesuiti, altrimenti detto palazzo Miccichè.
Dico questo ricordando ciò che scrive il canonico Pacetto a proposito delle vicende che videro il trasferimento della “matrice” dalla chiesa di san Matteo a quella di sant’Ignazio e alla conseguente distruzione della prima.
Allora (siamo nel 1874) lo scempio venne giustificato, da quelli che il buon canonico chiama i “sedicenti liberali per non dirli libertini”, vale a dire dalle classi nobili e borghesi, con inesistenti difficoltà economiche.  Meno di un secolo dopo, la demolizione del collegio gesuitico, trovò la sua ragion d’essere nella conclamata esigenza di inserire nel contesto di piazza Italia un elemento di modernità che ne valorizzasse l’assetto architettonico. In entrambi i casi, fu, in realtà, un latente sotteso anticlericalismo e un’ideologia mal digerita a compiere il misfatto, con l’aggravante, nel secondo caso, che l’amministrazione comunale si munì, per vincere le deboli resistenze della Sovrintendenza, finanche del parere scritto, a mò di expertise, di una non meglio precisata associazione di artisti ragusani, a dire dei quali – udite udite – il palazzo Miccichè era privo di alcun valore artistico. E qua siamo in pieno marasma culturale, indotto dall’idea, in voga nei circoli intellettualoidi dell’epoca (siamo negli anni ‘50 – ’60), che confondeva l’antico con il vecchio e considerava superato e frutto di incultura tutto ciò che non fosse in linea con il Verbo degli imperversanti modernisti, figli, per la gran parte, della banalità e della mediocrità travestite da muse dei tempi nuovi.
Oggi l’arte moderna e postmoderna utilizza gli aspetti più inusitati e bizzarri della provocazione per monopolizzare un mercato dove è la quotazione che fa il capolavoro, destinato ad essere venduto al fruitore danaroso che, essendo in genere sprovvisto di adeguato bagaglio culturale, si fa dominare dal luogo comune e, temendo di passare per ignorante, non è disposto ad ammettere che il re è nudo. Ciò nonostante, la moda del modernismo a tutti i costi non avrebbe, oggi, più la forza di far passare per encomiabile operazione culturale quell’autentico delitto che fu la demolizione di un edificio che, per la purezza delle linee architettoniche, non solo si inseriva perfettamente nel contesto monumentale di piazza Italia, ma costituiva un ragguardevole esempio di architettura barocca.
Ma tant’è! il destino, quando è necessario, si serve spesso della supponente dittatura modaiola.
Nondimeno, rimane da considerare che sarebbe ormai ora di porre riparo allo scempio di cinquant’anni fa. Intendo dire che è venuto il tempo di far le cose sul serio, ponendo termine al ricorrente teatrino dei concorsi che si dicono finalizzati alla sostituzione dell’edificio finto-Brasilia con un altro di nuova concezione e che si risolvono in vacui esercizi di architettura teorica e servono solo a fare pubblicità agli amministratori che li bandiscono. È, insomma, ora di finirla, non foss’altro perché i due concorsi già espletati dimostrano che qualsiasi soluzione architettonica ipotizzata, diversa dall’antico edificio demolito, si rivela una ciofeca immonda, un pugno nell’occhio quanto e più dello sgorbio che si vorrebbe cancellare. Meglio, a questo punto, demolire lo sgorbio e lasciare l’area libera, allargando la piazza fino alle costruzioni prospicienti su via Mazzini.
Poiché, tuttavia, occorre ripristinare la situazione preesistente, è bene dire subito che, in realtà, non è necessario alcun concorso : è sufficiente ricostruire il palazzo Micciché così come era originariamente.
So già di dire un’eresia e di fare arricciare il naso agli esperti di ruolo, dai quali verrò, a mia volta, accusato di bieca ignoranza. Il crucifige, naturalmente, mi verrà appioppato perché reo di propagandare il vituperato tabù del “falso storico”.
Poiché, tuttavia, sono convinto che nel nostro caso il falso storico non esiste e poiché sono, soprattutto, in buona e autorevole compagnia (vero Paolo?) insito nella mia richiesta.
Cercherò di spiegarmi meglio : il falso, nell’arte, si verifica con l’attribuzione dell’opera a chi non ne è stato l’autore o a un’epoca diversa da quella in cui è stata realizzata. Solo nella seconda ipotesi si può parlare, per l’appunto, di falso storico, che, nel nostro caso, tuttavia, non esiste, dal momento che il rinato Collegio verrebbe correttamente datato.
Neppure può correttamene parlarsi di imitazione di uno stile non più in voga, atteso che lo stile, in architettura, è un elemento costruttivo che, come tale, non comporta né falsificazione, né imitazione, quale che sia l’epoca in cui l’opera viene realizzata : se realizzo oggi un edificio in stile liberty non imito l’art nouveau, semplicemente la applico.
Last but not least, un’ultima notazione . a ben vedere, in architettura, le figure dell’autore e dell’esecutore, ossia di colui cui si deve l’ideazione e di colui cui si deve la materiale realizzazione, a differenza di altre espressioni artistiche, quali la pittura e la scultura, non coincidono, atteso che l’edificio viene materialmente realizzato non certo dal progettista, ma da semplici artigiani. Manca, pertanto, in quest’ultimo caso, il dato della irripetibilità che, viceversa, fa del quadro o della scultura un unicum irriproducibile
Ma, se così stanno le cose, il palazzo Miccichè può essere realizzato, nel suo rigoroso, originario stile barocco, da quanti bravi artigiani si voglia e quante volte lo si voglia, senza, per questo, farne un falso.
Del resto, se così non fosse, non esisterebbero il campanile di San Marco (improvvisamente crollato nel 1902 e seduta stante riedificato, il teatro La Fenice (distrutto da un incendio e riedificato nel 2003), il teatro Petruzzelli di Bari (ricostruito nel 2008) e, buon ultimo, il Globe Theatre di Londra, interamente riedificato nel 1997. Alla faccia del falso storico!
Come efficacemente osserva l’architetto Fabrizio Primoli a proposito del teatro comunale di Teramo che ha vissuto una vicenda speculare a quella del nostro Collegio gesuitico, “ripristinare ciò che c’era (e non ciò che non c’è mai stato) non significa creare un “falso storico” tout court: significa anzitutto ripristinare un’omogeneità, una coerenza, una visuale urbanistica che in passato è esistita e che successivi, sbagliati interventi di demolizione e riedificazione hanno alterato e compromesso. La ricostruzione stilistica serve soprattutto per sanare una ferita urbanistica” (sic!). E soggiunge : “Gli stili, soprattutto se fanno parte del cuore e dell’anima di una Città, possono essere riproposti.”
Che dire? Sembrano parole scritte per palazzo Miccichè, che, per l’appunto, verrebbe riprodotto nella sua integrità esclusivamente per ricordare (e non, si badi, per imitare) un’opera sciaguratamente demolita e, al contempo, per ripristinare l’equilibrio del contesto architettonico violato.
Basta e avanza, mi pare, per fare, una volta tanto, sul serio.
So già cosa mi verrà, adesso, obiettato : non ci sono soldi e l’amministrazione comunale ha il suo da fare per evitare il dissesto e per correr dietro a una fastidiosissima Corte dei Conti.
È vero. Il momento non è dei migliori. Ma è anche vero che si tratta di opera (una volta tanto altamente meritoria) da finanziare con fondi extrabilancio.
Perciò, tanto per cominciare, evitiamo di sponsorizzare il trash (mi riferisco, ad esempio, ai finanziamenti delle varie “sagre”) e, perché no? facciamo una colletta tra i cittadini di Scicli. Rivolgiamoci, inoltre, a quella straordinaria, benemerita istituzione che è il F.A.I. Per finire, se proprio abbiamo bisogno di un miracolo, preghiamo qualche santo in paradiso. Cominciando, naturalmente, da sant’Ignazio. Son cinquant’anni che aspetta di riprendersi il suo Collegio.

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