RAFFAELE POIDOMANI E LA SUA STUPEFACENTE CONTEMPORANEITA’(da Dibattito)

Raffaele PoidomaniUn’esplorazione di territori non conosciuti prima, un ventaglio variegato pervaso di sollecitazioni spesso colme di amarezza è l’opera di Raffaele Poidomani recentemente pubblicata. Un forziere nel quale lo scrittore – un discolaccio che si adirava facilmente e aveva modi bruschi e un profilo goliardico dall’aria lunatica – offre l’illuminazione e l’inferno.
Una confessione insistita dai toni accorati, in cui si coglie la validità dell’affabulazione e la sua stupefacente contemporaneità. O, se volete, uno scabro tumulto di pulsioni, una pluralità di codici che si intrecciano e si condizionano l’un l’altro in una forza che veicola con equanimità virtù e vizio.
Ulisside di sogni, Poidomani, con scrittura impareggiabile maneggia il suo barocco riccioluto, ricchissimo e fragile, mettendoci sotto gli occhi un mondo così folto di preziose gemme. Che si apre in una fuga di frammenti, ciascuno dei quali irrompe in una balenante valenza, in chiave narrativa che esprime, in modo forte e totale, il paradigma di un paesaggio interiore superbamente calibrato.
La tristezza solitaria dei “poveri cavalieri” che rivelano, come in un caleidoscopio, il gran peso della loro vacuità; evocati con un’arte così sottile, fatta di balzi felini e di folgorazioni. Il mondo insomma di Carrube e cavalieri e di Tempo di scirocco.
Pagine gettate a guisa di fuoco rovente nel ghiaccio sociale, in uno scandaglio psicologico che scandisce i tempi interni della sensibilità e del travaglio del narratore, che si fa anche lui “storico di cupidigie e di brividi”, senza mai appellarsi a una cifra consolatoria.
Lo stesso ampliarsi e particolareggiarsi dell’evoluzione descrittiva, del resto, potenzia l’esigenza di un recupero dei valori nel loro essere via via percepiti sempre più consustanziali al contesto novecentesco.
Al di là dell’ostinato accanimento delle voci ctonie, i livelli di discorso – dal severo al familiare – contribuiscono al perfezionamento del policentrismo dei motivi ispiratori in cui si radica il solito coté – un angolo pittoresco della Sicilia sud-sud-est. Un milieu che Poidomani decifra come la sua siepe e insieme come confine del mondo. Sulla linea che va da Pirandello a Vittorini, da De Roberto a Tomasi di Lampedusa, a Sciascia, scrittori ai quali Poidomani è unito per la fraternità della pena.
Un libro dunque in cui tutte le forme di racconto (narrazioni, monologhi, dialoghi, saggi) sono rappresentate e arricchiscono il dinamismo interno dell’opera. La mappa cioè di una narrazione che fruga dentro un universo e lo avviluppa di un concerto di voci di una estrema concentrazione.
Eccolo dunque Poidomani, col fulminante talento che lo contraddistingue, col suo psicologismo infero e insieme domestico e doloroso quanto il nascere. Con la sua pluralità di suggestioni, col suo nativo potere incantatorio, con l’antica sapienza delle parole, con l’icasticità della sua storia raccontata e connotata dalle verità relative che erano le sole che commuovevano lui, il più intelligente dei reprobi e così ardente e così tenero.
Stupendamente visivo, narratore corsaro, che sa evocare tuttavia sensazioni di purezza con lieta verecondia, come nel ritratto straordinario del canonico Annibale Maria di Francia.
Nella sua lunga angoscia di trovatore Poidomani non si rivela mai narratore ambiguo, traslato, perso dentro le cose per semplice gusto fabulatorio. Egli denuncia la scoperta del male umano e ci offre una continuità tra elementi che divergono. Un difficile labirinto che comporta ogni più acuto e ostinato sforzo di interpretazione, che esige insomma una lettura di lunga lena, non occasionale.
Il libro di cui parliamo – Pellegrino di sogni – è come l’archivio dei materiali accumulati via via attraverso stratificazioni successive di umori, in tensioni ideologiche. Una specie di diario intimo, con le variabili narratologiche caratterizzate ora da un pullulare di vivacità umoristica, o di ironia acre o beffardamente amara e pungente.
Poidomani è un narratore che non nasconde la sua ideologia borghese e insieme vitalmente progressista e nevroticamente contraddittoria. Irrequieto, eccitato, instabile, con lo sguardo sempre insaziabile in quello straniamento con cui accompagna le parole. Con occhiate tra profonde e tenere, errando come Dino Campana e lasciando il suo cuore di porta in porta.
Gli spigolatori di Modica. Grandiosa rappresentazione di uno stato d’animo che nel suo impianto sociologico sprofonda in una negra malinconia in cui passa un soffio severo di umanità eterna. E il fondo poetico di queste pagine è la loro cupa, disperata solitudine, fatta di un fiotto di parole erratiche e inquiete che accompagna i grandi interlunari silenzi e di quelle campagne notturne dove in ogni spigolatrice che attraversa l’aia scorgi l’ombra trepidante di Ruth.
Una sorta di epopea canicolare, in cui la lingua ha quella semplicità, riposatezza, calma sicura e gravità di passo che si annida nei classici. E in cui la degradazione e la frustrazione della povertà hanno l’atroce entropia di una rassegnazione inerte e sconfinata.
Nella Peste di Modica è notevole la ricerca di fatti e agnizioni. Un lavoro di analisi che studia con una metodica e diligente testimonianza avvenimenti, notizie, documenti. Ma Poidomani è un erudito senza ambizioni. Il tono del libro vuole essere divulgativo. Chè l’opera dello storico, si sa, richiede il formarsi di condizioni e di attitudini che in Poidomani, in questo Poidomani, non sono.
Le pagine sulle lettere d’amore di Verga sono puntigliose e stilisticamente preziose e rivelano un interiore scavo di ricognizioni e un istinto speculativo compenetrato di sottili suggestioni rifuggenti da quelle forme consacrate e fossili, logore per lungo uso.
Ed ecco ancora Catania, l’icona dei suoi furori e dei suoi amori. In pagine in cui Poidomani trova la gioia fosforescente della sua forza narrante. Un linguaggio che penetra la nostra anima e la chiude con un suggello di fuoco, in una lentezza tragica senza pausa né respiro. Un dirupo irto di croste e di schegge, un erpice di immagini sopra un rigoglioso grano.
Racconta così il suo errabondo viaggio questo libro. L’autore prende ad agitare le campane a strappate, le quali di tratto in tratto mandano uno squillo che sembra un singhiozzo. Si pensi alle postille sofferte e stimolanti, anche se maliziose e argute su Vestru. E su Serafino Amabile Guastella, scrittore bizzarro e profondo a cui la vivida e possente genialità permetteva di giocare coi più gravi pensieri. O al cameriere Rocca, goffo e sublime nella sua umiltà romantica e guerriera.
Visi di tutti i giorni, né apollinei né angelicati, impastati talvolta di una bianchezza impura e di un’enfasi decorativa e teatrale. Il sangue scuro erompe fumando. Il magma prima si accende, mostra la sua intrusione, provocando frane e finalmente erompe. Imprevedibile è soltanto il luogo da cui eromperà.
Sarcasmo e azzardo, ironia e tenerezza; una rivisitazione di oggetti e di volti smaliziata e disincantata quanto concitata e spettacolante. E con tagli così precisi e acuti.
A volte l’opera di questo errabondo poligrafo, per quanto varia e straordinaria, non supera i limiti di una fatica occasionale ed estemporanea. Così ogni movenza residuale è ampiamente prevedibile in questo libro la cui cifra sa talora di inchiostro di giornale. Ma che importa? L’autore balza all’improvviso e mette tutto a soqquadro col suo guizzo diabolico. Per rubare tutte le più belle cose per farsene un giaciglio per la sua anima.
Un percorso che si colma di visioni e introspezioni recuperate con immagini definitive. E il lettore è sopraffatto dalla loro prepotente forza.
Pagine vagabonde – si direbbe – ma in cui Poidomani tocca spesso il vertice della sua potenza espressiva e si rivela narratore della famiglia dei grandi.

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