D’Alema e la colonia penale di Kafka. Di Emanuele Cavallo

emanuele cavallo

Domina le pagine dei quotidiani nazionali la vicenda relativa alla pubblicazione delle intercettazioni che riguardano D’Alema, che come il mondo sa è, lo è stato, un dirigente di primissimo piano della sinistra italiana.
D’Alema, come sappiamo tutti, ha gestito, assieme ai suoi compagni, il passaggio dalla cosi detta Prima Repubblica alla seconda, mentre sembra avere un ruolo marginalissimo nella costruzione della terza,

di cui si intravede cresca all’ombra per partito della nazione di Renzi, intenzionato a mutuare dalla seconda il populismo e lo status di “uomo solo al comando” con chiaro riferimento al berlusconismo.
Tornando a D’Alema ed ai suoi momenti di gloria non si può tralasciare che il potere giudiziario, potremmo forse dire spalleggiato dal potere non costituito, e cioè la stampa, ha esercitato un ruolo importantissimo e ritenuto giusto e legittimo dalla classe dirigente della sinistra, soprattutto perché ha fatto emergere e divulgato comportamenti e modi di fare che nulla hanno di illegale, considerate le numerose assoluzioni sentenziate, ma che hanno determinato le sorti dell’avversario politico per eccellenza.
Un sistema impeccabile! le intercettazioni, la successiva pubblicazione di quelle non utili ai fini del procedimento, il dibattito televisivo, prime pagine di giornali piene, dimissioni di Ministri, una vera e propria gogna mediatica. Risultato? Capovolgimenti del giudizio dell’opinione pubblica a vantaggio di una parte politica!
E’ mai possibile in un paese civile come l’Italia? No! La questione intercettazioni non si è mai voluta affrontare a livello legislativo. La nostra classe dirigente non è mai stata in grado di legiferare seriamente sulla opportunità di regolamentare la pubblicazione delle notizie non utili al procedimento penale, facendo venire meno lo spirito del sistema accusatorio che nella fase preliminare delle indagini vede l’indagato destinatario di istituti di garanzia della propria posizione. Nessuno è colpevole fino alla condanna ma nei fatti avviene il contrario. Non si è condannabili perché il fatto non costituisce reato o perché l’accusa non è sufficientemente sostenuta da prove, ma si subisce la condanna più grave che è quella inflitta dall’opinione pubblica.
La macchina della tortura perfetta nel racconto di kafka “La Colonia Penale” impazzisce quando a sottoporsi alla tortura, nel momento i cui si è reso conto che non l’avrebbe più potuta utilizzare perché la procedura era ampiamente contestata, è la stessa persona (l’erede dell’inventore della macchina) che per anni l’aveva azionata per l’esecuzione di condanne a morte inflitte automaticamente e senza processo. La macchina non si limitò a produrre gli effetti per cui era stata programmata, ma dilaniò il corpo dell’Ufficiale, di colui che da sempre riteneva impeccabile il suo funzionamento e giusto il suo utilizzo per redimere il condannato dalle proprie colpe.
D’Alema non ha sicuramente la posizione dell’Ufficiale del racconto perché non ha mai utilizzato personalmente il meccanismo, ma ha delle responsabilità che risiedono nella sordità sua e del suo gruppo dirigente verso un problema che solo ora sembri capirne il vero effetto devastante sulla persona, condannato senza processo dall’opinione pubblica, perché è questa la condanna più pesante che un individuo, a qualsiasi livello, possa subire, specialmente se non segue una condanna con sentenza definitiva dei giudici. Solamente in tal caso la condanna dell’opinione pubblica è congrua.

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