IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. “OLTRE I LIMITI DELLA RAGIONE”: IL ROMANZO “NOIR” DI DANIELA FAVA

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Daniela Fava, coordinatrice del Gruppo ispicese del Caffè Quasimodo di Modica, offre al lettore, nel suo romanzo “Oltre i limiti della ragione”(2012) la narrazione di un grande tema dell’esistenza umana: l’innamoramento e l’amore, facendoli incrociare con altri temi come la follia, la gelosia, la passione, la gestione delle emozioni, e ponendosi in un rapporto di continuità con i suoi romanzi precedenti, pur se con una modalità e scelta narrativa che collocano il suo lavoro in una

“letteratura di genere”. In questo romanzo, infatti, gli episodi di morte sono una costante, se è vero che dentro la trama narrativa si intersecano tre suicidi e un omicidio.
Certamente questo di Daniela Fava è un libro che affronta un tema che ha attraversato la storia della letteratura e che rivela il background culturale e le frequentazioni e le conoscenze letterarie dell’autrice.
Leggendo questo romanzo come si fa a non pensare alla Didone di Virgilio che impazzisce per Enea, all’Orlando Furioso dell’Ariosto quando ci mette davanti la follia d’Orlando che vaga seminudo nel bosco vaneggiando parole senza molto senso, che usa uomini a mo’ di mazza per colpirne altri e scorrazza per la foresta simile ad un animale, perché l’amore in lui è tanto grande da togliere il senno..
Come si fa a non pensare al componimento “I dolori del giovane Werther”,(‘700) di Goethe, ove troviamo la descrizione del contrasto tra anima razionale e anima sentimentale e nel quale si affronta il tema dell’infelice passione d’amore che raggiunge l’estremo dolore quando Werther apprende che il suo amore è ricambiato ma non potrà essere vissuto e alla fine sconfortato e depresso si suicida.
E ancora leggendo questo romanzo come si fa a non pensare
a “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”; anche Jacopo, fuggito dalla sua città, Venezia, si rifugia sui colli Euganei dove s’innamora di Teresa, già promessa a un altro uomo. Per porre fine al suo dolore, Jacopo si suicida pugnalandosi al cuore. E ancora, come si fa a non pensare , siamo nell’800, a Bruto e Saffo, i quali, come già Werther e Ortis, incarnano il modello del suicidio eroico, teorizzato dallo stoicismo (Seneca) quale gesto di libertà interiore e come tale ripreso anche dal Catone dantesco.
Come si fa a non pensare, altresì, al primo Novecento caratterizzato dal decadentismo e dall’idea, nell’ambito del teatro italiano che, secondo Pirandello, l’uomo non ha altra via d’uscita che il delitto o il suicidio, oppure fingersi pazzo ed esprimere liberamente le sue idee, o ancora accettare tutto rassegnato.
1. L’ambientazione e la dinamica strutturale del romanzo
Nel romanzo di Daniela Fava c’è una narrazione infittita di situazioni di morte che potrebbe far pensare ad un giallo, ma in realtà così non è. Se vogliamo proprio darle una collocazione di genere, diciamo che un “romanzo noir” (noir, in francese, letteralmente significa “nero”), noir nel senso che la narrazione si colloca dentro luoghi e fatti di ambientazione tenebrosa, oscura, angosciante e a tinte fosche.
E difatti tutta l’articolazione narrativa del romanzo si sviluppa tra un’aula di tribunale ed una cella carceraria: nella prima parte tutto si svolge nell’aula di un tribunale romano ove si tiene il processo contro Ortensia, la protagonista, accusata di omicidio; nella seconda la scena si consuma in carcere, dentro la cella di Ortensia.
Nei 10 capitoli del volume coesistono storie d’amore, passioni, sentimenti, pulsioni ed emozioni che vanno oltre il limite della ragione, che si trasformano poi in follia e che sfociano nella tragedia della morte. Un romanzo, pertanto, dove tutti i personaggi appaiono “sconfitti e vittoriosi al contempo”; un romanzo che racconta fatti, dà chiavi di lettura e tenta di dare il senso della verità; un romanzo noir che si propone in “modo olistico” perché riesce a fare incrociare letteratura, psicologia, sentimenti, razionalità e follia e perfino teatralità. Entrando dentro la dinamica strutturale del romanzo, tre sono, a mio giudizio, i versanti metanarrativi entro cui si sviluppa il testo.

2. L’esodo come sradicamento dalla propria
terra , come attesa e sogno

Il romanzo parte da una realtà di bellezza: l’amore di due giovani fidanzati, Ortensia e Fabrizio, che hanno delle attese, sognano un futuro di attori teatrali. Vivono in Sicilia, frequentano le scuole superiori, ma sognano il loro “esodo”, il passaggio dal microcosmo geografico, il loro paesino, al macrocosmo territoriale e culturale. Ed è un passaggio che di fatto avviene( si trasferiscono infatti a Roma) e che ha il sapore di un “sradicamento” , di una fuga dalla propria terra e di una liberazione da una condizione familiare opprimente.
E dentro questo quadro di realizzazione di un sogno in cui viene stagliata la bellezza di un amore nascente, Fava inserisce un dramma, una nota dolente, un aspetto “noir” a tinte fosche: la situazione delle famiglie di questi giovani.
Si tratta di famiglie con problemi esistenziali e relazionali. Ortensia vive all’interno di un nucleo familiare dove è presente un rapporto genitoriale privo di sentimenti, dove la madre è solo un oggetto, una donna assoggettata all’autoritarismo e al maschilismo di un marito morboso, molto geloso. E questo non può che avere ricadute negative sull’ethos familiare,e in particolare sulla protagonista del romanzo, che, ancora ragazzina, assiste ai litigi dei genitori per motivi economici, a gesti di violenza del padre verso la madre: sono gesti che la sconvolgono anche nel sogno, una volta diventata adulta. Insomma un quadro di dramma familiare il cui epilogo diventa l’abbandono all’alcol, il suicidio della madre di Ortensia, determinato da una vita infernale che ha superato il limite di ogni razionalità.
La stessa situazione negativa, sul piano familiare, vive anche il ragazzo di Ortensia, Fabrizio, il quale, già nella sua fase adolescenziale, sa di avere un padre che tradisce la madre in modo costante.
Ecco allora una prima considerazione che scaturisce da questo romanzo: le ragioni di comportamenti insani, di gesti che vanno oltre il limite della ragione sfociando nella follia o in atti come il suicidio o l’omicidio , vanno ricercate nel tessuto familiare, nell’assenza di una positiva relazione genitoriale, nei “danni psicologici ed emotivi” che genitori con disfunzioni relazionali possono creare sui propri figli.

3. L’amore, la consapevolezza del limite, il bisogno di senso della vita

Il sogno di Ortensia e di Fabrizio in qualche modo si realizza. A Roma frequentano l’Accademia, diventano attori professionisti. Ma parallelamente al raggiungimento di questo obiettivo teatrale, si verifica nell’esperienza relazionale dei due giovani fidanzati un arretramento sul piano affettivo. Il loro rapporto è vero e profondo, vivono insieme nella stessa casa, condividono la stessa passione per il teatro, ma lo sperimentano in modo diverso: Fabrizio è innamorato pazzamente, vede addirittura in lei la sua “dea”, come la chiama solitamente, racchiude in lei il senso del suo vivere, mentre Ortensia con il tempo capisce che quello che prova per Fabrizio non è amore, vede in lui solo un amico profondo, un compagno di viaggio, ma al di là di questo sente che il rapporto è abituale, monotono e insignificante.
E qui il romanzo di Daniela Fava cerca di far comprendere , sul piano psico-relazionale, come l’innamoramento non sia automaticamente amore, ma lo diventa quando si verificano alcuni fatti. Ortensia e Fabrizio sono entrambi innamorati perché vengono da una esperienza di insoddisfazione, di dramma familiare, di senso della nullità e della vergogna, di delusione profonda, radicale su se stessi, e allora trovano nella loro relazione una risposta, forse consolatoria. Però, mentre Fabrizio innamorandosi cambia radicalmente la sua vita , capisce che il suo innamoramento non è un semplice fatto emozionale, passeggero, momentaneo, ma è diventato amore folle – perché vede negli “occhi neri” e nella “calda voce” di Ortensia che “lo svegliava al mattino” una persona unica, originale, un essere così unico e straordinario che “aveva filtrato ogni suo tessuto” al punto che “ogni minuscola particella del suo sangue era tutta penetrata dall’amore” per la sua amata, – Ortensia, al contrario, non ha fatto questo passaggio verso l’ amore che la prende dentro e la cambia; anzi per sfuggire alla noia e alla banalità del suo rapporto in corso, cede alle lusinghe di Andrea, un giovane direttore di agenzia pubblicitaria, di buone condizioni economiche, proprietario di appartamenti che la conosce per la prima volta allorché si reca a teatro per vedere la prima di “Romea e Giulietta”, interpretata proprio da Ortensia e Fabrizio.
Dunque ad un innamoramento che si affievolisce non tramutandosi in amore, il romanzo mette ad incastro un altro innamoramento: quello di Andrea per Ortensia: “Andrea, – si legge nel romanzo – aveva trovato nel suo sguardo qualcosa di sorprendentemente affascinante e, anche se tutte le altre donne che aveva incontrato erano più belle, c’era in lei qualcosa di diverso in grado di far palpitare il suo cuore, da non somigliare a nessun’altra, così che guardandola induceva a riempire le sue notti di dolci sogni, desiderando quelle stesse carezze con le quali sulla scena aveva riempito Romeo”.
L’ innamoramento di Andrea diventa concretezza: egli conosce infatti Ortensia, la corteggia, le scrive poesie, frasi d’amore mediante email, si arriva ai primi baci, alla passione e la follia di un amore percepito i n pochi istanti diventa realtà quotidiana.
Questa volta è Ortensia a sentire, come accadeva a Fabrizio, che Andrea è singolare, unico, straordinario, è un uomo che ama con forte ardore, da pensarlo continuamente, vederselo sempre accanto ed esserne follemente gelosa; per Andrea, invece, è solo questione di attrazione erotica, è una sorta di gioco, una scommessa fatta con il suo amico, “una scommessa come si scommette per una corsa di cavalli”, un tentativo banale di rendere schiava Ortensia: nulla di più.
Esplode, a questo punto, un ulteriore dramma esistenziale, quello di una donna che nutre sentimenti di vendetta per essere stata ingannata,
tradita nell’essenza più profonda della sua coscienza e che non riesce a riprendersi nonostante la fama e i successi teatrali, nonostante le numerose offerte di lavoro. C’è il dramma di una donna che ama l’uomo sbagliato e che nel mentre lo ama lo odia, ma c’è anche il dramma di Fabrizio che ama la donna che ha il cuore occupato da un altro e che pertanto non gli corrisponde questo amore.
Due drammi che si incrociano e si intrecciano e che sfociano nella follia della morte e che Daniela Fava narra con uno scavo psicologico profondo, con una tecnica narrativa e di scrittura efficace, emotivamente carica di pathos.
La soluzione diventa allora il suicidio: “Pensò al suicidio come la possibile conclusione di un vissuto interiore doloroso e dilaniante che si portava dentro sin da piccolo, ogni volta che aveva visto la madre piangere per l’indifferenza di suo padre, le volte in cui aveva avuto bisogno di lui ma, questi, era con un’altra donna. La morte, dunque, gli sembrò in quel momento la possibile soluzione ai propri problemi ed al proprio dolore. Prima di compiere il suo gesto folle, volle fissare il suo intendimento su un foglio bianco, rivolto a colei che lo aveva ferito nell’orgoglio e nei suoi sentimenti.”
E’ un suicidio per amore che Ortensia subisce come condanna. Lei si era già pentita di aver lasciato Fabrizio, stava per ritornare da lui, ma era troppo tardi: lo trova morto e non le rimane che leggere la lettera che Fabrizio le ha lasciato.
E qui ancora una volta il romanzo porta sulla scena il dramma dilaniante di Ortensia che cade in una sorta di regressione psicologica ed esistenziale: diventa sempre più malata, fa debiti, fa la commessa, rivive la memoria familiare perché cede, come sua madre, all’alcool, e l’unico sostegno lo trova in un amico, Luca, che cerca di aiutarla.
Il romanzo di Fava anche nella descrizione del dolore di Ortensia è coinvolgente, fa immedesimare il lettore, come in una fiction, nel cuore di una donna che piange, che sbatte perfino la testa contro le pareti del muro provocandosi dei sanguinamenti e che, in preda alla follia e alla gelosia, decide il gesto omicida: uccide Andrea, massacrandogli il cranio con un sasso e aprendosi la strada del carcere.
Un gesto omicida per il quale accetta la condanna che gli viene inflitta e che – mentre parla in Tribunale davanti al giudice – definisce come un atto di libertà e di liberazione. Ma la liberazione in realtà non era ancora completata. Il romanzo riserva infatti l’ultima scena : Ortensia si ricrea nella mente il palcoscenico teatrale in cui Giulietta si infligge la morte con un pugnale, e quasi teatralizzando il testo schekspiriano si suicida nella sua cella con il bisturi che aveva rubato in infermeria. Nell’irrazionale, secondo i protagonisti del romanzo, trovano approdo giustizia e vendetta.

4. Il messaggio del romanzo: l’inconoscibilità del “sottosuolo
dell’anima umana” tra “resa” e “sfida” , “sconfitta” e
“vittoria”

Quale problematica intende sollevare questo romanzo di Fava?
Diciamo che consente di aprire una riflessione psico-sociale sul suicidio per amore, che non può essere, a mio avviso, liquidato come gesto di inettitudine, di impotenza, di risposta fallimentare alla capacità di vivere.
Come si può spiegare un suicidio per amore? La protagonista del romanzo indica una pista di risposta: “… L’unica cosa che posso dirle – afferma Ortensia in tribunale – è che mi ero liberata di tanta sofferenza chiusa dentro da diversi anni, sin da quando ero piccola. Quell’atto estremo è servito a chiarirmi e a conoscermi, ma soprattutto a farmi giustizia, riscattandomi dalle umiliazioni subite, per non essere stata amata dall’uomo che mi aveva illusa dicendomi di amarmi…”.
Il più delle volte il suicidio è la conclusione di un vissuto interiore personale, doloroso e dilaniante, nel quale la ragione cede il passo all’irrazionalità aggressiva.
Nel romanzo di Fava, quelli di Fabrizio e di Ortensia sono suicidi come “reazione” ad una situazione che si ritiene disperata, quella, cioè, di aver perso l’ unico e grande amore. Il suicidio appare, allora, come l’unico mezzo per porre fine alle proprie sofferenze che vengono vissute come intollerabili e l’unico modo per essere finalmente visti e apprezzati: quelli di Fabrizio e Ortensia appaiono, insomma, dei suicidi come “vendetta”, attuati per vendicarsi dell’indifferenza o della cattiveria dell’altro, che dovrà essere costretto a vivere tutta la sua vita portandosi dietro il peso insostenibile della colpa e del rimorso. Spesso, con la propria morte, il suicida vuole colpire la persona che più l’ha fatto soffrire in vita.
Per concludere, in questo romanzo vi si trova dunque una riflessione sulle dinamiche dell’inconscio e una tendenza all’autoanalisi che richiamano alcuni fondamenti della letteratura e della psicoanalisi freudiana : in particolare la “doppiezza psicologica”, la compresenza di spinte contrastanti e contraddittorie nell’io più profondo, e gli stati di allucinazione e di delirio, in cui viene alla luce il “sottosuolo” dell’anima.
Da questo romanzo ci viene un input a considerare il comportamento suicida ed omicida non solo dal punto di vista oggettivo, bensì anche da quello soggettivo, e quindi anche con gli strumenti della psicologia. In chiave psicoanalitica i suicidi di Ortensia e Fabrizio potrebbero essere interpretati dal lettore come il punto culminante dell’evoluzione di una infermità psichica, ma anche non necessariamente come espressione di follia o di una malattia psichica. Se l’atto del suicidio possa mai essere compiuto in maniera “razionale” e libera è una questione discussa e ancora aperta; in effetti è difficile poterlo capire, anche perché dalla storia ci vengono casi di suicidio dove il confine tra “follia” e “motivazione di senso” o in alcuni casi anche motivazione ideale, è quasi impercettibile. Dal romanzo di Fava appare con una certa chiarezza che quelli di Ortensia e Fabrizio sono suicidi attuati con lucidità e meticolosità, con freddezza e determinazione, se è vero che Fabrizio lascia anche una lettera a Ortensia per spiegarle il suo gesto suicida. L’Autrice ci dà nel romanzo una visione della morte molto vicina al pensiero di filosofi dell’800 come Schopenhauer, il quale affermava , ma chiaramente egli rifiutava il suicidio, che la morte è “una provvidenziale liberazione da lunghe e tormentose, insanabili sofferenze”, come di fatto è stata per i protagonisti di questo romanzo.
Leggere questo libro è come entrare in un labirinto, dentro il quale si assiste a scene di morte. Il lettore ha due possibilità: la “resa al labirinto” o la “sfida al labirinto”. Arrendersi significa accettare il suicidio come soluzione e quasi come una scelta da ritenere ammissibile; la sfida, invece, porta ad avere anzitutto un rispetto nei confronti di una persona che compie un gesto oltre i limiti della ragione, ma ad affermare che è meglio continuare a vivere per combattere per quegli ideali in cui si crede, piuttosto che fuggire dalla vita e così da ogni ulteriore possibilità di impegno.
Scegliere la “resa” significa ammettere – direbbe Goethe, in “I dolori del giovane Werther”, 1774, che “è più facile morire che sopportare con fermezza una vita dolorosa”; scegliere la “sfida” significa resistere al dolore e non “abbandonare il campo di battaglia prima di aver vinto”.
Ed io credo che la vita è un campo di battaglia anzitutto interiore e spirituale nel quale vale la pena sempre combattere perché – come dice il poeta indiano Tagore – “la vita non è che la continua meraviglia di esistere”.

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