IL PROBLEMA BANCHE …..A CURA DI RITA FALETTI

Soldi

Dopo il commissariamento di Banca Etruria, Banca delle Marche, CariChieti e CariFerrara, e il successivo fallimento, si è paventata una crisi dell’intero sistema bancario italiano. Molti risparmiatori, temendo che i loro soldi possano fare la fine di quelli investiti presso gli istituti di credito incriminati, si sono affrettati a prelevarli dalle loro banche. Dove li metteranno? Sotto il materasso o sotto una piastrella del pavimento di casa? Il ministro dell’Economia ha ribadito che le banche italiane sono in salute e i nostri denari al sicuro. Qualcuno però ha soffiato sul fuoco parlando di un’altra bolla speculativa che si sta profilando all’orizzonte. E così riemerge il ricordo del fallimento della banca d’affari statunitense Lehman Brothers e l’immagine degli scatoloni dei dipendenti, preparati in fretta un minuto prima della chiusura definitiva dei battenti, riappare fosca davanti agli occhi di tanti. Ci si domanda se un altro terremoto di quella portata possa ripetersi dando il colpo di grazia alla già fragile economia della zona euro e, in particolare, dell’Italia, sulle cui banche gli avvoltoi della speculazione stanno volteggiando minacciosi. Il fallimento Lehman, che fece crollare grossi imperi finanziari, fu la conseguenza di una serie di fattori: la protratta crisi dell’economia reale e il boom dell’economia virtuale, la finanza, intossicata da una grande quantità di mutui subprime e derivati. Quella crisi, non così lontana nel tempo e non ancora completamente alle spalle, coinvolse l’economia reale mondiale, vista l’interdipendenza tra le varie economie a livello internazionale. Cosa fecero gli Stati Uniti? Con massicce e successive iniezioni di dollari, salvarono le banche ritenute “too big to fail”, troppo grandi per fallire, e mantenere così l’erogazione del credito. In tal modo esorcizzarono il fallimento e la catastrofe, senza che però venisse messa in atto la sola misura capace di scongiurare il ripetersi delle condizioni che avevano causato la crisi. Cioè la separazione dell’attività di intermediazione creditizia tradizionale da quella di “trading proprietario”, cioè speculativa e in proprio, non per conto di clienti, all’interno della stessa conglomerata. Da cosa nasce la necessità di tenere distinte le due attività? Sostanzialmente dal fatto che, proprio perché grandi – diverse banche hanno superato i 20 miliardi di attivo di asset, che rappresenta la soglia massima consentita – sono le più pericolose per la stabilità del sistema ed anche le meno interessate ad investire nell’economia reale, attraverso prestiti a privati ed imprese. Questo perché le finalità di una conglomerata sono la massimizzazione del profitto e il guadagno a breve, che il credito tradizionale non assicura, producendo, anzi, rendimenti contenuti e costi elevati. Ora, proprio poiché il fallimento di grosse banche, oltre che trascinare nel baratro l’intero sistema bancario, travolgerebbe come una valanga i depositanti, cioè risparmiatori e imprese, esse si dedicano ad operazioni altamente rischiose, ricorrendo anche ai soldi altrui, confidando nel fatto che mai sarebbero lasciate fallire. C’è poi un altro aspetto da tenere in conto, ossia la scarsa incisività delle autorità di vigilanza e controllo, i cosiddetti “regolatori”, i quali rischiano di essere schiacciati da “regolati” così grandi. Il rimedio ci sarebbe: ridurre le dimensioni delle banche o aumentare quelle dei regolatori. La UE ha recentemente previsto condizioni molto restrittive, definendo anche una graduatoria del rischio e introducendo il “bail in”, cioè il salvataggio dall’interno. In caso di fallimento, i primi a pagare saranno gli azionisti che perderanno tutto il loro capitale, poi gli obbligazionisti, e, infine, i possessori al di sopra dei 100.000 euro nel caso in cui la somma delle risorse dei primi due non raggiunga la soglia minima dell’8% del capitale perduto. Ma neanche questa misura risolverà i problemi di fondo da cui derivano inevitabilmente i mali del sistema bancario – finanziario, vale a dire la concentrazione dei profitti e l’ingiusta socializzazione delle perdite. In conclusione, solo la fine della commistione tra attività creditizia e attività di trading può essere decisiva per la soluzione del problema. La banca d’affari la si potrebbe lasciar fallire senza la compromissione dei depositi di cittadini e imprese, e la banca commerciale sarebbe finalmente al servizio dell’economia reale, la sola che possa aiutare la ripresa del Paese e l’occupazione.

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