IN PUNTA DI LIBRO……di Domenico Pisana. Le “ragnatele cremisi” e “il soffitto” della poetessa emiliana Claudio Piccinno tra etica e “tenerezza dell’anima”

CLAUDIA PICCINO

L’approccio alla poesia di Claudia Piccino difficilmente lascia il lettore indifferente. L’itinerario poetico dell’autrice, che è del Sud ma vive da anni in Emilia Romagna, è contrassegnato, infatti, da tratti esistenziali che conoscono la “tenerezza dell’anima”, proprio come quella di una madre che si affianca al suo bambino per regalargli il suo mondo interiore.

Claudia Piccinno ha già dato alle stampe diverse sillogi poetiche, ma quelle su cui vogliamo puntare la nostra attenzione sono le ultime: “Ragnatele cremisi”, La Lettera Scarlatta, 2015, che ha ricevuto a Parigi la menzione d’onore al Ist World Literary Prize, e la ristampa de “Il soffitto” – Cortometraggi d’altrove, 2016, che porta a fronte anche una traduzione inglese.
La “tenerezza dell’anima” di cui dicevamo, affiora, in “Ragnatele cremisi”, già sin dalle prime pagine della raccolta, ove la Piccinno usa il linguaggio della denudazione interiore per comunicare affetti e sentimenti veri: “Eterea cammini / sulle acque, soave bambina, tu che / troppo presto fosti madre…” (Pietosa madre)…”Esitante e guardinga / nell’incedere randagio / solco i mari della memoria/ e aspetto / ch’un volto si affacci / al davanzale di Dio” (Al davanzale di Dio).
Una poesia intima e del sentimento, dunque, quella che scorre lungo tutti i 58 componimenti della silloge, ove il rapporto tra interiorità e realtà non lascia spazio a introspezioni fini a se stesse né a sdolcinature melense, ma ad un organico intreccio di tematiche che oscillano tra vicende personali della poetessa e affacci su orizzonti di grande rilevanza storico-sociale quali la Shoah e la Resistenza, e su accadimenti come quelli che vedono protagoniste “spose bambine”: “Gli occhi neri / delle spose bambine / son schegge d’ebano / per le vecchie comari. / Cantano quegli occhi / il gioco perduto, / la nostalgia / dell’infanzia innocente…”. Sono, questi, versi che non risentono di aliti retorici o di pregiudizi culturali, ma di una sofferenza compartecipante che racchiude nella parola poetica l’urlo di dolore di bambine vittime di scelte imposte, urlo che promana “da una fessura / concessa al vestito…”.
Già nel titolo della silloge si trova impressa la struttura noumenica dell’autrice, la quale utilizzando la metafora della ragnatela, che è il simbolo dei vari filamenti del flusso comunicativo coscenziale, disegna le coordinate di ciò che ogni uomo ricerca, desidera, rifiuta, ama, odia, costruendo, così, una rete di sentimenti che tumultuano dentro la sua coscienza trasformandosi in immagini e simboli.
Claudia Piccinno orienta la sua versificazione nell’orizzonte dialogico tra cielo e terra, tra pensiero ed azione, mostrando di credere nel sentimento e nelle emozioni come elementi di importante alfabetizzazione e finalizzati a stabilire una relazione positiva anzitutto con se stessa e, poi, con gli altri .
Questo tratto, che potrebbe prestarsi ad una lettura intimistica, in realtà è la rappresentazione della consapevolezza interiore della poetessa, che, specie attraverso alcune liriche di denuncia sociale che risentono dell’influsso di grandi poeti come Quasimodo, Neruda e Szymborska, riesce a mettere al centro “l’uomo fragile” “ultimo”, “povero” che la società assiste, ma fa fatica a riconoscere nella sua dignità. E così vediamo che la Piccinno, grazie al suo sguardo tenero ma non pauperistico, nonché al suo spirito d’osservazione mette al centro della sua parola poetica, come si rileva con particolare pathos nella silloge “Il soffitto” , la sofferenza e il dolore dei matti, del clochard, della prostituta, dell’alcolista, dei migranti, degli ammalati, di quei cosiddetti “diversi” che spesso finiscono per essere solo oggetto di pietà momentanea, ma che quasi disturbano, forse per loro colpa o della società, il cammino di una comunità civile.
La poesia civile, certo, rischia spesso di apparire retorica, di ridursi a lamentazioni noiose, ma nella versificazione della Piccinno c’è da ritenere che non sia così per il fatto che la poetessa è una educatrice, una docente sul campo e, pertanto, la sua ispirazione poetica si fa semantica ( si badi all’etimo della parola) ossia messaggio, “seme” immesso dentro le coscienze per svegliarle dal torpore, dall’indifferenza e per suscitare domande attraverso lo svelamento di sentimenti che solo l’arte riesce a veicolare in modo unico e irrepetibile
La silloge “Ragnatele cremisi”, che è anche arricchita delle foto di alcune opere di Sergio Carlacchiani, attore, regista, doppiatore e pittore, è lo spaccato di un’anima che sa farsi storia, ascolto, grido, percezione, rabbia, che sono, sostanzialmente, tutte le varie articolazioni della “tela” della vita dell’uomo e che la poetessa fa diventare sentimento collettivo all’interno di una visione pasquale dove la croce diventa simbolo universale di tutte le culture: “Se la mia croce si facesse tarlo / e si autoeliminasse / vedrei un varco all’orizzonte / e la zavorra lascerei sul monte. Se la fatica del giorno / mi conducesse altrove / fiorirebbe lo splendore / della notte/ che tutto ammanta / tutto nasconde/ tutto inonda / col buio inchiostro / che il male confonde”(La Pasqua che vorrei).
La resa poetica della Piccinno si muove a stadi, che ad accenti più prosodici alternano versi di una liricità straordinaria, come, ad esempio, nelle poesie “Le pietre di Sardegna” e “Questa notte”, ove il registro espressivo si connota di metafore e di immagini di forte intensità semantica, e si arricchisce di modulazioni liriche che svelano l’intimo più profondo della poetessa: “… là dove i silenzi parlano / e i grilli cantano /le siepe fremono /e i piedi volano.. là ci sarò io”. Rispetto a “Ragnatele cremisi”, credo che la raccolta “Il soffitto”, che è del 2013, abbia una struttura più diegetica e di impatto etico più che lirico. La parola poetica è meno rarefatta e coglie la fisionomia di una società dove il rapporto tra moralità e prassi è spesso dicotomico, il materialismo prevale in modo incontrollato e non resta che il vuoto: “Nella gola,/ nella testa / nel cuore / il vuoto / s’affaccia sovrano/ … e tace”. Anche sul piano delle scelte formali e stilistiche si colgono degli appesantimenti che non ci sono invece in “Ragnatele cremisi”, specie quando , come nella poesia “Quella stretta di mano” compare la rima ( “mano-baccano; “certezza-carezza”) e il testo si prosaicizza in modo palese: “…Inaspettata e spontanea / quella stretta di mano / m’infuse / consapevolezza di esistere / nella tua preoccupazione / per me”.
Della raccolta “Il soffitto” piace molto questa dimensione idealistica della Piccinno, la quale si dimostra consapevole e pienamente convinta del fatto che la parola poetica può avere una grande funzione di scuotimento dell’uomo dal quietismo e dall’indifferenza. Insomma emerge un poetare che si fa coscienza critica del nostro tempo e riflessione aperta alla speranza del cambiamento.
In conclusione, credo che nell’itinerario poetico di Claudia Piccinno ci sia una evoluzione ed una crescita verso mete future ancora più rilevanti, nonché una capacità adattiva rispetto alle scelte formali, lessicali e stilistiche della poesia in genere. La resa lirica appare, a mio avviso, maggiormente solida e consistente nella silloge “Ragnatele cremisi” , ove la parola poetica si fa, nel contempo, “unitotalità”, ossia funzione segnica di interiorità e soteriologia, contemplazione ed azione, paesaggio dell’anima e paesaggio della città, luogo di domanda e pensiero in azione, riuscendo a coinvolgere il lettore nel suo mondo di poetessa che sa comunicare con il sorriso, consapevole che “Il riso – direbbe Victor Ugo – è il sole che scaccia l’inverno dal volto umano” e convinta, forse inconsapevolmente, delle parole di Jim Morrison, quando dice: “Sorridi sempre, anche se è un sorriso triste, perché più triste di un sorriso triste c’è la tristezza di non saper sorridere”.
Ecco, dentro le “ragnatele” e nel “soffitto” della Piccinno, ogni lettore potrà scorgere questo “sorriso poetico” dell’autrice, che non è mera sdolcinatura, buonismo, accondiscendenza cieca, né una semplice assunzione di un volto sereno e raggiante; il suo sorriso poetico è la capacità di leggere la storia anche al positivo; la capacità di aggiustare le cose senza ricorso a troppe parole; è saper aprire la strada al dialogo, disporre la mente e il cuore all’ascolto; è disponibilità a non trasformare l’incontro in scontro, il colloquio in conflitto, la diversità in uniformità.
La poesia della Piccino nel mentre denuncia ammette che l’altro esiste, è di fronte a noi; che l’altro è persona alla quale possiamo dare e dalla quale possiamo ricevere. Sì, è vero, il sorriso – come dice Faber – “non dura che un istante”, un attimo, il tempo dell’alito di un respiro; sì, è vero, il sorriso è fugace, passeggero, lento ad esprimersi, tardo a venire alla luce, ma quando nasce e l’uomo riesce donarlo a qualcuno con sincerità e spontaneità, il suo ricordo, come afferma sempre Faber, “rimarrà a lungo nel cuore” di colui al quale è stato donato. E la poesia di Claudia Piccinno ci aiuta a non dimenticarlo!

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