Il dolore della malattia e’ l’amore. La rubrica del dottore Federico Mavilla

federico mavilla

Tempo fa ho avuto come assistiti una coppia gay di mezza età. Lui era un professore, veniva da Parma, il compagno era un noto artigiano vicentino . Quando l’uno parlava dell’altro, lo definiva cugino. Eravamo negli anni ‘90

e a quei tempi le coppie omosessuali non si dichiaravano pubblicamente, cercavano di tenere nascosto il loro rapporto e la migliore soluzione era presentare l’altro come un parente. Dell’artigiano mi colpiva il colore, meglio la tintura dei suoi capelli: era un rossiccio con un viso abbronzato, dell’altro invece le cravatte sempre tendenzialmente sull’azzurro e con disegni e figure geometriche. Il professore aveva un tumore polmonare ed era stato messo in trattamento chemioterapico con finalità puramente palliative e il compagno, che aveva per lui una grande attenzione, lo accompagnava sempre quando doveva sottoporsi al trattamento. Lo accudiva con grande amore. Traspariva un affetto veramente profondo: raramente ho visto un rapporto così intenso nelle coppie eterosessuali. Tra loro vi era un sentimento dolce, puro, limpido privo di malizia. Mi si diceva che lo accompagnava in sala di attesa sostenendolo con dolcezza, cercava di evitargli fatiche e, finita la terapia, lo rifocillava con succhi di frutta e merendine, che portava da casa. Aveva una pazienza infinita. L’altro, silenzioso e sofferente, esprimeva con lo sguardo gratitudine e riconoscenza. Non avevano amici, erano soli al mondo e io e il reparto di oncologia eravamo diventati quasi la loro seconda famiglia. Loro, sempre educati, erano visibilmente molto grati delle attenzioni che ricevevano.
Una volta, l’artigiano mi aveva invitato a visitare il suo laboratorio e volle avere notizie esatte sullo stato di salute del compagno. Fui sincero e gli prospettai la imminenza della fine. Si mise a piangere sconsolato: capii che, quando c’è vero amore, le differenze o le uguaglianze di sesso non vogliono dire niente! Quando le condizioni del povero professore erano terminali, il suo compagno avrebbe voluto continuare ad assisterlo a casa, ma gli fu consigliato di ricoverarlo: era troppo impegnativo e non ce l’avrebbe fatta da solo. Ricordo la sua disperazione quando mancò. Una disperazione composta, non gridata, ma con tante lacrime. Andai al funerale. Sulla bara erano poggiati una rosa e la mano del povero artigiano, sembrava che stessero continuando a tenersi per mano. Provai una estrema commozione per quel gesto, per nulla teatrale, ma intimo, anche se in pubblico. Perché racconto questo episodio? Perché nella mia professione ho il privilegio di poter cogliere, fino in fondo, nelle famiglie, che noi medici incontriamo , l’amore che dà la forza per affrontare il dolore della malattia. Dico famiglie, perché è così la realtà che ho vissuto !

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