E’ uscito recentemente l’ultimo libro di poesie di Domenico Pisana “Odi alle dodici terre. Il vento, a corde, dagli iblei”, pubblicato dall’Editore Armando Siciliano e che è stato già presentato a Modica e Ispica. Riportiamo di seguito la prefazione al volume, curata dallo scrittore Pietrangelo Buttafuoco.
E’ un silenzio che non sta fermo in petto quello del sentimento e Domenico Pisana – forgiando il respiro nel ritmo della poesia –tesse un ordito di rara intensità.
La poesia, il suo poetare, è verità che s’incammina col manto festoso dell’espressione. E Pisana – intriso di gioia panica, prodigo di pietas verso ciò che perviene allo sguardo – attraverso il canto lirico che scioglie al suo cielo, per se stesso e per chi, nell’ascolto, rammemora, consegna un canzoniere mirabile.
Una pietra incastonata, questo è il prezioso canovaccio di Pisana, in un gioiello altrimenti familiare: la terra iblea, là dove divampa la chioma dei carrubi.
L’anima è segretamente al lavoro. Insegue il canto degli uccelli, il sole al tramonto, il chiarore della luna, i profumi che emana il grano appena mietuto, la pioggia che scende nel baluginio della sera.
E’ un dettato fatato quello di Domenico Pisana e la sua voce – in forza di una conoscenza di luoghi che la memoria corale degli astanti nutre di converso nel contesto di un orizzonte di lucore – è specchio di una storia.
Niente di quel che è appartenuto al mondo fa ritorno e il succedersi dei popoli nell’Isola, i fantasmi senza nome chiamati all’oblio nella macina del sopruso e i volti senza sorriso che hanno consumato il breve soggiorno sulla terra immemori – inconsapevoli di un destino immutabile – si svelano nella santa possibilità dello spirito vivente. Nessuno sa quanto lontano si destina verso ciò che è stato, chi – nel transitare – va verso ciò che viene.
Le opere di Piero Guccione, con i loro colori, fanno il controcanto della poesia ma dicono – nel rafforzare del segno – del giallo dei campi, del declinare dei poggi, del chiarore abbacinante del sole allo zenit e dell’abbagliante baluginare della luna. Quello che la phonè del poeta affida al verso. Ecco l’antica città di Ibla, meta di antichi viaggiatori che attraversano vicoli stretti sorvegliati dalle figure diaboliche che ornano balconi nascosti, ai rintocchi gravi della Cattedrale, meta di fedeli che hanno solcato le sue spaziose navate, inginocchiati nel rito della confessione, pronti all’incontro con il Cristo.
Fuori, per le strade la varia umanità affaccendata, trascorre nelle usanze quotidiane il tempo del lavoro e quello della festa. Accanto al luogo sacro, si erge maestoso il luogo dell’incanto, il castello di Donnafugata disegnato da mani di artista, costruito da sapienti ricamatori di merletti, abitato da donne voluttuose che emanano la loro sensualità all’ombra di pigri tramonti.
La marina offre altri incanti allo sguardo, concede il meritato riposo su spiagge ondulate abitate da dune serpeggianti dove potrebbero concedersi riposo sirene ridenti cadute da antichi miti.
Mnemosine, suscitatrice dei ricordi, parla per favole, simboli, parabole e luoghi. Dove crescono gli alberi e dove vanno i venti che arrivano gli uomini. Le cose della natura si offrono alla poesia al modo delle immagini. E’ sempre un qualcos’altro per mezzo di qualcosa. L’essenza metafisica del senso è in quell’insieme di cronache, fatti e mura il cui nome è il mondo.
E dunque, ancora una volta, è il luogo, è la radice: l’appartenere gli uni agli altri delle cose. Non manca lo sguardo attento del poeta alla sofferta realtà dell’oggi. La storia si fa cronaca: Santa Croce un tempo appartenente alla Contea di Modica – città fiera capace di difendersi dall’assalto dei Pirati – oggi brulica di volti stranieri e spaesati, anime disperate sbarcate da luoghi lontani in cerca di vite migliori e spesso costretti a cocenti disillusioni, “qualcuno sugli scogli della costa piange a lutto la morte, scrive un dolore sull’acqua.” E il Crocifisso di Guccione racchiude tutto il mistero ineffabile delle vittime innocenti che il mare vomita sulle spiagge e spesso ricopre come sudario gelido di esistenze troncate.
Pisana offre teatro di versi a luoghi cari al ricordo: Sampieri, Scicli, Acate, Scoglitti, Comiso, Chiaramonte Gulfi, Vittoria, Giarratana, Monterosso Almo, Calaforno, Cava d’Ispica, Pozzallo, Donnalucata, Cava d’Aliga, tappe di un percorso della memoria, ciascuna con le sue feste e tradizioni e riti religiosi trascolorate dal verso evocativo capace di mitizzare luoghi altrimenti usurati dalla quotidianità che riveste di banalità l’abitudine. Evoca persone care o figli illustri come Gesualdo Bufalino e Salvatore Quasimodo a cui Pisana si rivolge con la stessa sintesi cara al poeta famoso, tre versi icastici tesi come corda di violino a rammemorare la paura della morte e la speranza che mai abbandona chi crede. Senza nulla togliere a quei grandi, ben altro nume però lo assiste: Friedrich Hölderlin. E certamente in queste righe, come per lo studente di Tubinga, un solo moto vale: poeticamente abita l’uomo.