IN PUNTA DI LIBRO…di Domenico Pisana. La parabola dell’esistenza e le domande sul senso dell’essere nella raccolta “Pensieri minimi” della poetessa vittoriese Lidia Ferrigno

foto-copertina

lidia-ferrignoUna raccolta poetica che dà alla parola una funzione “segnica” e catartica”, è quella che Lidia Ferrigno offre ai suoi lettori con il titolo “Pensiero minimi. Tango disarmonico del tempo”, Armando Siciliano Editore, 2016. L’autrice, vittoriese, ha al suo attivo un percorso poetico intenso e interessante, già evidenziatosi nelle sue precedenti sillogi poetiche, “La memoria e i giorni” (2000), “Mare e terra”, Monodie in assolo”(2012), “Le Sirene e altro”(2014), “I mille volti di Eva. Contaminazioni”(2015), ove ha dato ampia testimonianza di un sentire poetico avvertito e ricco di umanità.

La struttura teleologica della raccolta “Pensieri minimi”, che in copertina riproduce un olio su tela della pittrice Ausilia Miceli, poggia su una diversità di momenti creativi che si integrano nell’unità di una ricerca esistenziale finalizzata a smarcarsi dall’apparenza per rimettere al centro il “logos” come “veicolo” di dialogo e “richiamo” alla dimensione dell’anima. Lidia Ferrigno, come Diogene di Sinope, cerca con la sua “lanterna” l’uomo contemporaneo, avvolto nelle trafitte dell’indifferenza e che cammina “scalzo / sul selciato di parole / divelte a forza/ dalla radice pura dei pensieri /, dal tronco della logica pensante ,/ . Ed è una ricerca, quella della poetessa, che si fa voce di canto, quasi invocazione dell’anima affinché l’uomo ritrovi la strada
“verso casa / al riparo da turbini e tempeste, / al caldo amico d’una antica quiete…”
La poesia della Ferrigno si snoda come dolente meditazione sulla vita umana contemporanea, che sembra aver perso la capacità di comunicare e di sognare; una meditazione che poggia lo sguardo sulla solitudine dell’anima, sui volti degli ultimi, su “La follia della vita che si spende / tra il riso e il pianto di commedia e dramma…”, su viandanti di tangenziale che “Camminano trafitti / alla croce di un angolo di mondo / con giacche larghe e lunghe / che pendono da spalle / appesantite”.
Uno scavo interiore, quello di Lidia Ferrigno, che ha il sapore del dolore ma che sa anche andare oltre il “tango disarmonico del tempo” per cogliere gocce di luce in mezzo alle parole tenebrose della vita, immaginandosi, per un istante, “farfalla”, “bruco / che lentamente cerca la sua strada / e aspetta insieme al sole / il tempo, l’ora giusta, l’occasione / di prendere quota e stendere le ali”. E non manca in questa trasmutazione dell’anima la ricreazione di luoghi simbolici come il deserto, quel deserto interiore nel quale la poetessa si porta lasciando alle spalle “pensieri”, “coltelli”, “pezzi di storie putride e stantie”, “le tempeste delle parole”, “la farsa organizzata, / la menzogna indurita / l’orrore amplificato”.
Molto avvincente risulta proprio questa sorta di “metafora del deserto” che Lidia Ferrigno costruisce specialmente nelle liriche “Quasi una monodia (Ninfa Camarina)” e “Nel deserto”, ove la tessitura dei versi trasuda di memorie d’infanzia, di ricordi e di colori dell’anima, ricreando atmosfere che fanno dire alla poetessa: “…Io non sapevo ancora / che deserto non è sabbiosa dunosa, / ma una valanga di ventoso fuoco / che travolge, / trasforma / e d’un velario immemore ricopre”.
E’, dunque, una “poesia della vita” quella che scorre nei versi di Lidia Ferrigno, una poesia che riesce a farsi sentimento collettivo, “parola” e “linguaggio” del cuore, “pensiero costruttivo” che di “minimo” ha solo la nudità delle alchimie, degli artifici, per proporsi, invece, nella sua “vis provocatoria” e nel suo orizzonte di bellezza e di armonia, “quell’armonia del bello / melodia che s’imprime / come su pelle fuoco / e la fa nuova, / fresca odorosa pelle di un bambino”.
Armonici contrasti, scelta di ossimori, linguaggi allusivi, parole declinate sulle macerie della vita, analogie figurative, purezza di sentimenti, affacci metaforici, delicatezze di sguardi e simbolismi costruiti con una “poesia onesta” di sabiana memoria, fanno di questa raccolta poetica un pentagramma dove scorre una sinfonia lirica come testimonianza nuda, autentica, magari polemica, sempre carica di tensione morale ed esistenziale. Lidia Ferrigno, insomma, trasfonde nella sua poesia esistenzialità e moralità, grido di anticonformismo e germi di speranza, incertezze (“Andiamo: dove andiamo / non saprei proprio dirlo”… /; “…Chi potrà mai capire / il senso misterioso del furore / che improvviso s’abbatte / senza scampo, riparo, / sull’anima che vaga senza meta, quando incerta si fa la fioca luce / e sempre più lontana è la sua casa?”) e ansia di assoluto, fino a costruire un flusso di poetica espressionistica di forte intensità semantica.
La poesia della Ferrigno appare, così, attraversata da un’inquietudine profonda e da una lacerazione interiore che avverte come nella post-modernità sia in azione una forte sproporzione tra l’agire umano e l’ansia delle domande sul senso dell’essere e dell’esistere. Con uno stile lineare, delicato e che intreccia aulica liricità e tratti prosodici, la poetessa sa aprire al lettore una “tangenziale immaginaria” ove egli possa intraprendere il suo viaggio con la consapevolezza che nella ragione illuminata di trascendenza è possibile trovare l’esigenza di spiegazione adeguata e totale dell’esistenza.
Per concludere, ci pare di poter affermare che i “Pensieri minimi” di Lidia Ferrigno non si chiudono dentro un’elucubrazione intellettuale intimistica e fine a se stessa, ma assumono la vita reale nella sua concretezza, nelle sue antinomie e contraddizioni, rimandando al bisogno di superamento dello smarrimento esistenziale che ha aggredito la nostra contemporaneità. Le due liriche che chiudono la raccolta, “Un mattino qualunque” e “Quando nel mio giardino”, sono un’apertura al sogno, all’utopia, alla speranza, alla luce del logos creativo, della parola che si fa mediazione, intuizione, ermeneutica, sentimento e che riesce a far dire alla poetessa che “Passerà la stagione delle piogge, / dei venti intempestivi, delle nebbie”; che “Andranno via le nuvole annerite” e che “Ritornerà…l’arcobaleno/ a esplodere i suoi fuochi, al cielo tesi”; che “I giorni si apriranno ad altro sole, / spirerà dolce brezza da ponente / che insieme ad aria fresca / pensieri porterà puliti e nuovi”. Il rapporto tra realtà e sogno, fede e speranza si trasforma in un canto di rara bellezza che Lidia Ferrigno canta tra “ fogliame d’ombre” di rami di limoni con la certezza che quando “ritorneranno a ridere” anche lei non si sentirà più “spersa nel mondo: “un nido caldo – dice la poetessa – troverò/ anche io”.

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