“Come diventare un buon medico?”. È una domanda frequente tra coloro i quali, o per passione o solo per speranza di arricchirsi, hanno scelto di intraprendere la professione sanitaria. Ma diciamocelo seriamente, è questa la domanda più frequente tra gli studenti?
Se si chiedesse ad ogni futuro medico, come se fosse chiamato in un interrogatorio, di spiegare il motivo per il quale si è scelto di cominciare questo lungo cammino – tra l’altro non per niente lineare, ma anzi ben arduo- comincerebbe a fare lunghi discorsi inerenti alla passione di dedicare la propria vita al servizio degli altri, provare a capire la sofferenza altrui o tentare di trovare una soluzione ai problemi degli ammalati; come se dovesse convincere se stesso, più che il suo interrogatore, di aver scelto la giusta professione.
Forse perché in fondo non è poi chiaro a nessuno il motivo per cui si decide di studiare per tanti anni delle materie che nel loro insieme formano un quadro abbastanza complesso.
Ma non è l’indagare sulle motivazioni personali di una scelta lo scopo che mi spinge a scrivere.
Oggi ho preso parte ad un convegno aperto a tutto il personale sanitario, a tutto il corpo docenti e a tutti gli studenti nella mia Università. Non è stata cosa strana che la partecipazione a questo evento sia stata molto limitata, nonostante la proficua pubblicità sull’incontro. Basti pensare al tema della giornata: “l’agire del medico tra scienza e coscienza”. Proponi tutto ad un medico, ma non gli chiedere di mettere in discussione la sua etica. Eppure i relatori non erano stati scelti tra gente che poteva non assomigliarci nelle scelte; erano tutti medici, oltre che professori, il cui stipendio matura salvando vite umane e provando ad insegnare a giovani ragazzi la scienza medica, frutto anche della loro esperienza pluriennale.
Non è facile, e non è tra l’altro mio scopo, fare una cronaca dettagliata sul convegno; ma penso sia doveroso, e soprattutto utile, lanciare spunti di riflessione, citando le relazioni ascoltate.
Il docente di Antropologia Filosofica esordisce con una citazione provando a creare nella mente degli uditori lo spirito adatto per l’interessante discussione sulla filosofia della coscienza. “Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più” afferma Agostino da Ippona. Lo stesso – continua il prof. – dicasi per la coscienza: non si saprebbe né definirla né consigliare come applicarla. Ma parlando di coscienza e di tempo, non si può non chiedersi: chi è l’uomo? Potrebbe essere definito l’animale pensante di Aristotele, oppure un particolare soggetto che deve realizzare se stesso nell’esercizio della razionalità, come un bene che vale. E di fronte a questi enigmi iniziali, i filosofi dicono che per provare a dare una definizione su qualunque tipologia di cosa o persona, bisogna già usare una coscienza. Non saperla definire però ci rende impotenti; allora, per comodità, si potrebbe almeno pensare a come applicarla. Ci viene sempre insegnato che la coscienza viene usata per rapportarci col mondo poiché diventa l’immagine di un’esperienza vissuta, perché ha la funzione di identità identificante. Così ogni azione viene guidata dalla coscienza, razionale ed intellettuale. Ma la si può identificare con moralità? Non esisterebbe la moralità senza l’imperativo; non l’imperativo kantiano “tu devi”, ma l’imperativo “devo realizzare me stesso”, il che presuppone la possibilità di aver coscienza di sé e credere in una auto realizzazione valoriale. Ma tra diventare ciò che si è e parlare di moralità bisogna nuovamente mettere al centro l’essere umano, che stavolta diventa un bene; la difficoltà sta nel realizzare però un bene che vale.
Il pomeriggio diventa più entusiasmante quando prendono parola i professori di Malattie Infettive, Cardiochirurgia, Anestesiologia e Rianimazione, Chirurgia Generale e Medicina Legale. Si giunge infatti a trattare l’etica del sapere scientifico nella formazione del medico; possibili conflitti di coscienza nella pratica medica e l’autodeterminazione del paziente e il possibile duplice effetto dell’atto medico.
Si giunge subito al nocciolo della questione: cercare di risolvere, per quanto possibile, la dicotomia tra scienza e coscienza durante la pratica quotidiana dell’agire.
Quante volte capita ad un medico di dover affrontare casi ed esperienze in cui non viene richiesta solamente l’abilità e la conoscenza specialistica, ma bisogna esprimere un proprio parere o una propria volontà decisionale. Allora ci si chiede, prima di tutto, se tutto ciò che è tecnicamente possibile, sia eticamente giusto. La possibilità per un paziente di ricevere per esempio un cuore nuovo mediante trapianto d’organo, che, al giorno d’oggi, è un intervento del tutto possibile, porta già con se varie domande. “È eticamente corretto effettuare, su ogni paziente e su ogni storia clinica, il trapianto?” Aggiungono ancora i relatori, “la fecondazione assistita?” “E la pecora Dolly, cosa si può dire sulla clonazione?” Questi sono tanti esempi su come l’immaginazione e la creatività siano stati impiegati per lo sviluppo della scienza; ma forse l’immaginazione morale dovrebbe essere uguale all’immaginazione scientifica. Di fatti una scienza senza coscienza è la rovina dell’anima.
Un altro problema, spiegano i nostri professori, che si presenta non di rado tra la professione del medico, è capire cosa è “bene” e cosa è “giusto” per il paziente. Bisognerebbe che ogni professionista dicesse al proprio assistito la verità in ogni sua parte, senza tralasciare ogni minimo dettaglio? Qualcuno, tra i sostenitori dell’imparare a conoscere il malato davanti a sé, risponderebbe che si deve dire la verità; ciò che cambia è come la si comunica. Altri invece direbbero che dipende dalle situazioni. Se davanti ai propri occhi c’è un paziente con disabilità, senza famiglia o parenti, senza sussidi economici, e adatto ad una ricerca sperimentale – spiega l’Anestesista – si potrebbe pensare a tramutare leggermente la verità non evidenziando i particolari effetti collaterali o malefici di una cura sottoposta. C’è anche da aggiungere -risponde il Medico Legale – che a declinare il medico da ogni responsabilità ci pensa il consenso informato, oramai utilizzatissimo, ma per molti per niente chiaro. In merito si potrebbe infatti aprire un’ulteriore parentesi evidenziando le difficoltà a cui è esposto il consenso, che ogni paziente tra l’altro è obbligato a firmare. Quanti tra i degenti ne comprendono il vero significato? Sarebbe forse più utile chiarificarne almeno i concetti chiave?
Ma ad essere “ignoranti” non sono più solo i pazienti; esiste una nuova etica ignorante, suggerisce il Cardiochirurgo: si tratta di ammettere i propri limiti o le proprie carenze, usandoli non come limite della scienza ma bensì come punti di forza per migliorare e se stessi e le strutture lavorative.
Allora questa figura di medico, che secondo alcuni dovrebbe sempre decidere senza l’aiuto di comitati etici o di imposizioni governative, e che di conseguenza si dibatte abitudinariamente tra la dicotomia scienza – coscienza, dovrebbe avere le qualità di buon ascoltatore, voler bene al paziente e godere di ottima professionalità.
Al termine di questo piacevole incontro tutti i partecipanti sono tornati ai propri impegni quotidiani, che continuano a lasciarci, momento per momento, quell’amaro in bocca e che non ci permettono di godere di attimi piacevoli della nostra vita.
Non credo che dopo queste ore trascorse insieme si siano risolti o chiariti i dubbi riguardante l’argomento, ma rimango almeno con la speranza che ognuno di noi abbia potuto arricchire il proprio bagaglio formativo, aggiungendo un pezzo di catena alla propria cultura morale e scientifica. Eppure ciò che mi domando io, che sono alle prime armi con questa affascinante arte che è la medicina, è che forse si stia chiedendo ad un medico di essere un “Dio” al posto di un umano. Sicuramente si vuole auspicare, per il paziente prima di tutto ma anche per la gioia del medico, di offrire al paziente la guarigione come obiettivo primario lottando a qualunque costo. Nonostante ciò, penso che in questi casi non dovrebbe sussistere il principio macchiavelliano “il fine giustifica i mezzi” perché, in quanto a mezzi, a rimetterci stavolta sarebbero gli umani.
In conclusione, mi vien da augurare a tutto il personale sanitario che ogni scelta presa sia stata ben maturata e fatta propria (altrimenti non sarebbe una scelta per definizione) e che debba avere la coscienza che, per come agisce, lo sta facendo giustamente. E per una completa formazione di individuo in primis, e di medico poi, si dovrebbe accogliere il consiglio di un sacerdote relatore al convegno il quale spera che il tempo speso per la formazione scientifica sia almeno pari al tempo speso per la formazione della coscienza.
Citando Nietzsche, “A volte, più che di nuove cose, si hanno bisogno di nuovi occhi.”
Antonio Vanella.
L’agire del medico tra scienza e coscienza
- Novembre 23, 2010
- 9:54 am
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