La morte del giovane albanese Samir dopo 8 giorni di agonia. La Cgil di Vittoria: “ è il frutto di un pericolosa crisi sociale figlia dell’indifferenza”

La morte del giovane albanese, il trentatrenne Geoge Samir dopo otto giorni di lotta tra la vita e la morte a causa delle gravissime ustioni che si era dato fuoco nella centralissima Piazza del Popolo a Vittoria, è oggetto di una riflessione congiunta del segretario generale della Camera del lavoro, Giovanni Avola e del segretario della Cdl di Vittoria, Peppe Scifo che qui riportiamo: “Il gesto estremo di George voleva comunicare la sua sofferenza e il disagio forte di fronte ad una società che non gli ha dato possibilità alcuna di trovare risposte alla sua condizione. La condizione di George Samir è la condizione di molti lavoratori stranieri presenti nel nostro territorio che ormai da anni vivono situazioni di vita difficile senza radicamento alcuno all’interno della nostra società, come se fossero immigrati appena sbarcati a Lampedusa, che spesso si gira dall’altra parte e fa finta di non vedere.
A Vittoria da sempre si vive una condizione di separatezza con le comunità straniere presenti. Un’indifferenza che da sempre allontana la possibilità di un vero e proprio processo di integrazione capace di includere tutti, soprattutto i più deboli. Una indifferenza che negli anni ha creato una frattura tra “noi” e “loro” tale da rendere a tutti gli effetti cittadini di serie “B” gli stranieri. Tale indifferenza riguarda la popolazione locale ma anche le istituzioni che ancora oggi tardano a considerare la specificità immigrazione tra i programmi di spesa sociale. Il Piano di Zona e l’intero sistema di servizi sociali locali ignorano questa condizione. E anche questo ha concorso alla disperazione di George Samir e di tutti quelli che vivono questi drammi.
Ancora oggi non sappiamo se davvero George si è dato fuoco in preda alla collera perché da tempo non riceveva la paga dal datore di lavoro. Se così fosse la situazione delle responsabilità dirette si aggraverebbe nei confronti di un datore di lavoro che sicuramente ha agito pensando all’operaio immigrato non come persona bensì come merce. Da questo punto di vista la questione è grave perché purtroppo capita spesso di trovarsi di fronte a braccianti stranieri che non vengono pagati per molto tempo e tante volte mai. Di fronte a questo l’intervento del sindacato si scontra quasi sempre con un atteggiamento di menefreghismo e impunità perché questi “padroncini” hanno capito bene la ricattabilità di queste persone costretti a tutti i costi a dovere avere un contratto di lavoro per il rinnovo dei documenti. Ed ecco qui scatenarsi la furia sfruttatrice di un comparto ormai quasi tutto fuori dalle regole dei contratti di lavoro, che ha trovato in questa “forza lavoro” a basso costo l’ammortizzatore naturale alla crisi.
Questa situazione è ormai esplosa e bisogna prendere atto della gravità e delle responsabilità che non lasciano nessuno escluso: la politica, il sindacato, le imprese e la società civile. In questi giorni sono tornati in uso le analisi sulla crisi economica dell’agricoltura, discussioni su come produrre e cosa. Bene, ma non si può aspettare che l’agricoltura locale trovi una soluzione ai problemi strutturali per tornare a considerare gli immigrati persone come noi. Sul piano del lavoro bisogna aggredire lo sfruttamento selvaggio nei confronti dei lavoratori stranieri soprattutto braccianti; occorre non lasciare sole queste persone all’interno di un meccanismo di vera segregazione sociale ed umana; rompere con ogni ipocrisia e omertà. Bisogna invertire questa tendenza che ci spinge sempre di più verso il sottosviluppo e la disperazione diffusa delle persone. Per questo occorre concorrere tutti, ognuno per la propria parte a cominciare da subito.”

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